Il racconto del lunedì: Azzurra ed io

Sogni premonitori (2)

Quello era il terzo caffè che gli preparava in un’ora. Quando ritirò la seconda tazzina si accorse che non aveva bevuto nemmeno il secondo e non potè non fermarsi ad osservare con più attenzione quell’uomo. Aveva all’incirca una cinquantina di anni, i capelli erano brizzolati, i lineamenti del viso dicevano che da giovane sicuramente era stato un gran bel ragazzo, d’altronde era un bell’uomo anche ora. Gli occhi azzurri e dolci erano tristi e a guardarlo bene tutto in lui sembrava suggerire una grande solitudine. Da quando era arrivato, trascorreva le ore della mattina sprofondato su uno dei divani del bar dell’albergo, aveva un taccuino dalla copertina rossa un po’ logoro e gonfio. Il suo modo di scrivere fitto e minuscolo gonfiava le pagine del taccuino, che riempiva con altri fogli di carta sempre scritti con lo stesso tratto. Alla reception Robert le aveva detto che si trattava di uno scrittore famoso e che non bisognava infastidirlo, ma lei non lo aveva mai visto. Cosa facesse nel pomeriggio nessuno lo sapeva. Ormai era lì da una settimana e sarebbe rimasto fino alla fine del mese e probabilmente avrebbe prolungato il suo soggiorno. Ottobre era un mese tranquillo, pochi erano i villeggianti, l’albergo era quasi del tutto vuoto e l’aspetto del parco iniziava ad assumente i colori, gli odori e i rumori giusti per chi cercava un posto tranquillo per concentrarsi sul proprio lavoro. Forse “lo scrittore”, così iniziarono a chiamarlo i dipendenti dell’albergo, stava scrivendo un nuovo libro, ma perché non usare un pc? Il fatto che scrivesse a mano lo rendeva, agli occhi di Cristina, ancora più affascinante. Cristina era, insieme a Rachele, una delle ragazze che si occupavano del bar e si era presa una cotta per lo scrittore a tal punto che si incantava a guardarlo mentre lui era chino a scrivere sul suo taccuino, dimenticando di servire le ordinazioni agli altri pochi clienti del bar.
– Rachele, sveglia!!!! I caffè si sono raffreddati e i clienti stanno aspettando da tanto.
– Si, scusa. Ero distratta. Ora li rifaccio.
Cristina era talmente affascinata da quell’uomo che riusciva a trovare mille scuse per gironzolargli attorno. Ma ad ogni sua richiesta riceveva un garbato rifiuto. Appena Cristina si allontanava, lo scrittore, che poi scoprii essere l’autore di un romanzo pluripremiato, mi chiamava con un cenno della mano e mi ordinava il solito caffè. Quel giorno Cristina non venne a lavoro, aveva il suo giorno di pausa e al bar Rachele era sola. Più i giorni di ottobre avanzavano, più l’albergo si svuotava, e sembrava che lo scrittore fosse destinato a rimanere l’ultimo cliente dell’anno. Quella mattina si sedette al bancone del bar e non nel solito divano e la cosa sembrò strana a Rachele, ma non lo diede a vedere.
– Buongiorno, Signore. Le preparo il solito caffè?
– Si grazie. Rachele, può darmi anche un bicchiere d’acqua?
– certo, ma come conosce il mio nome?
– il suo nome è semplicemente ricamato sulla sua divisa.
Rachele si sentì stupida, ma quella divisa la indossava da così tanto tempo che ne aveva dimenticato i particolari. Voleva dirgli qualcosa di intelligente per giustificarsi, ma preferì il silenzio. Preparò il caffè e quando glielo porse, si accorse che era intento a scrivere. Era così preso dalla scrittura che fece raffreddare anche quel caffè. Rachele aveva smesso di segnargli i caffè sul conto. Stavano diventando così tanti i caffè non consumati che alla fine del soggiorno gli sarebbero costati più del soggiorno stesso. Gliene preparò un altro senza nemmeno che lui glielo chiedesse e quando si girò si accorse che lui la osservava attentamente e aveva accennato un sorriso malinconico.
– Mi sono permessa di preparargliene uno fresco, quello di prima si è fatto freddo.
– Grazie, è veramente molto gentile.
Lui rimase a guardarla per un attimo e a quel punto lei azzardò una domanda.
– Se non sono indiscreta, posso chiederle perché si fa preparare i caffè ma poi non li consuma?
– Le sembrerà strano, ma ho bisogno di vederla preparare quei caffè.
Rachele fece una strana espressione del viso, era di certo una strana affermazione e continuò a parlargli.
– Le serve per il suo romanzo? Cioè, per quello che sta scrivendo?
E indicò il taccuino che era rimasto aperto sul bancone con la penna quasi finita posta giusto al centro.
– In un certo senso sì, ma serve più a me che alla mia scrittura.
Rachele non riuscì a nascondere il suo turbamento e l’uomo se ne accorse. In fin dei conti lei era una ragazzina e una affermazione del genere detta da un uomo adulto poteva far intendere qualsiasi cosa.
– Non pensi male di me, non sono un pervertito. È solo che lei mi ricorda tanto la protagonista del mio primo romanzo. Il modo di muovere le mani, di pettinarsi e il sorriso, mi ricordano tanto lei.
Rachele rimase senza parole, non voleva che lui pensasse di aver dubitato della sua correttezza e allora gli rivolse un sorriso.
– Spero che sia almeno un buon ricordo e niente di spiacevole.
– I ricordi fanno parte del passato e per questo non esistono più. Quindi non posso fare del male.
– Non sono sicura che sia vero. Se il passato non esistesse, ora io non le avrei ricordato nulla.
L’uomo rimase un attimo in silenzio a guardarla, ma i suoi occhi sembravano ricordare, piuttosto che guardare.
– Di cosa parla il suo primo romanzo?
– Di una donna più o meno della sua età, che si innamora di un giovane studente universitario, ma la differenza di estrazione sociale creerà grossi problemi al giovane, che invece appartiene ad una facoltosa famiglia di imprenditori. Quando i due vengono scoperti, la famiglia di lui lo allontana dalla città, affidandogli la direzione di una azienda con sede a Ginevra. I due continuano a stare insieme, a scriversi, ma a vedersi sempre di meno. Gli impegni di lavoro e il nuovo ambiente aristocratico allontanano il giovane dalla ragazza. Quest’ultima quando capisce che lo sta perdendo, parte per Ginevra per parlargli, ma una volta arrivato da lui, riceverà solo una porta in faccia e come risposta un “è tutto finito”. Qualche mese dopo, tutti i giornali parlavano del suicidio insospettabile di una giovane di ventitrè anni.
– E il ragazzo?
La domanda fu pronunciata da Rachele a mezza voce. Il racconto dell’uomo tradiva una sofferenza che mai aveva visto e che l’aveva commossa profondamente.
– Quando seppe della notizia, se ne stupì ma era talmente stupido da non capire cosa avesse perso. Solo con il passare del tempo si rese conto di aver perso l’unica cosa belle che la vita gli avesse dato.
– Comprerò il suo romanzo, deve essere una storia bellissima. Mi piacciono le storie tristi, perché mi preparano ad affrontare le difficoltà e i dolori del futuro.
– È solo un romanzo, niente di più.
Dopo queste parole, lo scrittore bevve per la prima volta il suo caffè.
Il giorno dopo Cristina informò Rachele che lo scrittore aveva pagato il conto ed era andato via.
Fu una delusione un po’ per tutti in albergo, lo scrittore era quasi diventato un mito, alimentando la curiosità di dipendenti e di quei rari visitatori che di passaggio pernottavano in albergo. L’unica persona che sorrise alla notizia fu proprio Rachele. Quella mattina, come ogni mattina, era arrivata prima di Cristina e dietro il bancone del bar aveva trovato un pacchettino con scritto il suo nome sopra. Lo aprì e dentro vi trovò un libro, il primo romanzo dello scrittore. C’era una dedica “A Rachele, che ha reso un ricordo del passato una opportunità di salvezza”. Rachele non capiva quella dedica, ma tutto divenne chiaro quando trovò all’interno del romanzo una vecchia foto. Ritraeva due giovani in quello che doveva essere un parco, erano abbracciati e sembravano felici. Dietro c’era scritto “Azzurra ed io. Roma, giugno 1983”.

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