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IV Capitolo
Appena fui per strada, una leggera folata di vento mi diede una sensazione di leggerezza, ma quello che avevo appena vissuto mi aveva lasciato una profonda tristezza. Mentre percorrevo la strada che mi avrebbe riportata in ufficio, ripensavo a quel ragazzo e al suo tormento. Non avevo il diritto di infilarmi nella sua vita, ma qualcosa mi attirava a lui, forse era la semplice curiosità di conoscere le ragioni di quel pianto. Arrivata in ufficio, l’editore mi invitò a pranzare insieme, così l’avrei informato sull’esito della riunione. Avevo completamente rimosso la riunione e non avevo nemmeno voglia di andare a pranzare fuori, ma la trattoria che il capo aveva scelto era molto confortevole e l’atmosfera quasi casalinga mi mise a mio agio. Alle 17:00, come ogni giorno, terminava il lavoro di ufficio. Quel giorno non c’erano presentazioni di libri e incontri con gli autori, così avrei potuto trascorrere qualche ora al Caffè Kingston, persa nei miei pensieri. Raccolsi le mie cose e in pochi minuti mi ritrovai al Caffè, che quel pomeriggio era particolarmente affollato, ma il mio tavolo, fortunatamente, era libero. Con un cenno della mano salutai il cameriere, che dopo un po’ mi portò il mio tè e qualche biscotto al burro. Quasi non me ne accorsi, perchè ero già a lavoro. Le pagine del mio taccuino si riempivano di parole, qualche cancellatura e delle briciole dei biscotti. Scrissi l’ultimo pensiero della giornata che completava il mio taccuino, questa volta lo avevo riempito in brevissimo tempo, soprattutto di ricordi e delle descrizioni di odori e rumori di un tempo che ormai era passato e non c’era più. Lo chiusi e posai la penna al suo fianco, provavo una sorta di soddisfazione ogni volta che ne terminavo uno, sensazione che si aggiungeva ad una sorta di euforia infantile per la scelta del nuovo quaderno e di un nuovo percorso di scrittura. Rimasi qualche momento immobile, guardai fuori ma non riuscivo a pensare a niente in particolare, mi sentiva quasi svuotata. Mi sforzai di pensare a qualcosa, così mi dissi che l’indomani sarei andata a comprare il nuovo taccuino e che forse ne avrei preso uno con in copertina i girasoli di Van Gogh e fu in quel momento che mi ricordai di Andrea. Gli avevo dato appuntamento al Caffè, ma non si era presentato. Effettivamente dovevo aspettarmelo, non aveva avuto una mattinata tranquilla e poi era stato chiaro dicendomi che non se la sentiva di uscire. Chissà come stava, se era riuscito a trovare un po’ di pace… con questi pensieri uscii dal Caffè e feci ritorno a casa.
V Capitolo
Allora abitavo al secondo piano, in una palazzina di inizio Novecento, che negli anni aveva subito diversi lavori di ristrutturazione, ma l’ascensore continuava ad essere la cosa più vecchia che avessi mai visto lì dentro. Scelsi di fare le scale e di evitare l’ascensore, temevo che un giorno io o qualcuno dei condomini ne sarebbe rimasto ostaggio per ore e, chissà, per un giorno intero. Ad accogliermi in casa c’era solo il silenzio. Gli unici rumori erano le voci che provenivano dalla strada, i clacson delle automobili o le sirene delle ambulanze, il frigorifero che sembrava dirmi “ah, visto che sei tornata fammi lavorare e tenere al fresco le poche cose che mi hai affidato”. Buttai le chiavi sul tavolino all’ingresso. Avevo comprato uno svuotatasche proprio per raccogliere le chiavi e ritrovarle subito, ma continuavo ad abbandonarle ovunque. Lasciai la borsa sulla sedia accanto al tavolino e, mentre avanzavo in casa, mi tolsi il giubbino che lasciai cadere sulla poltrona del salotto, come se non ci fosse già abbastanza confusione. “Devo assolutamente mettere ordine, altrimenti finirò sommersa dalle cose” dissi tra me, ma c’era tempo per farlo. Entrai in cucina, accesi la luce e vidi sul tavolo libri, appunti, lavori da svolgere. “Devo assolutamente iniziare a portare a termine qualcosa, a rendere concreto qualche progetto. – continuai a parlare con me stessa – Ma cosa? E se tutto questo fosse inutile? Se la mia strada fosse un’altra?” Buttai lo sguardo su quella ricerca iniziata tempo fa e mai completata. “No, non ne ho voglia, ci vuole calma per fare questo”. Andai oltre con lo sguardo e c’era un testo da correggere, ma non avevo voglia di fare nemmeno quello. Forse avrei dovuto abbandonare tempo fa quei progetti e dedicarmi ad altro, a qualcosa che mi facesse sentire bene veramente. In fin dei conti si può sempre ricominciare. Decisi di farmi un bagno caldo, avevo accumulato un po’ di stanchezza nella giornata, magari dopo sarei riuscita a concludere qualcosa. Il calore del bagno mi aveva fatto bene e mi aveva anche fatto venire fame. Preparai la cena, un toast al prosciutto e una mela. Seduta sul divano, decisi di terminare la lettura del romanzo iniziato parecchio tempo prima. Non sapevo il perché, ma quella storia non riusciva ad andare avanti. Lo aprii dove il segno mi suggeriva il punto in cui avevo interrotto la lettura. Erano trascorsi molti mesi dall’ultima volta che lo avevo aperto, ma ricordavo perfettamente la vicenda. Ne ricordavo i personaggi, i sentimenti e le descrizioni. Iniziai a leggere le prime righe, ma senza grande attenzione, qualcosa mi distraeva. Dopo un po’ entrai nella vicenda, ma il sonno ebbe la meglio, così chiusi il libro e decisi che era ora di andare a letto. L’indomani mi aspettava una lunga giornata di lavoro.
VI Capitolo
I giorni successivi trascorsero nella normalità. Il lavoro stava aumentando, si avvicinava il Natale e per la casa editrice era il momento in cui si registravano le maggiori vendite. I libri nuovi erano molti e bisognava pubblicizzarli, organizzare presentazioni e firmacopie per gli autori. Tutto procedeva senza grandi difficoltà, la redazione era affiatata e ognuno faceva il proprio lavoro con competenza. L’orario di lavoro si allungava di qualche ora in quei giorni ed ero costretta a saltare i miei tè al Caffè Kingston. Erano diverse settimane che non andavo e mi dispiaceva perdere l’atmosfera natalizia che si respirava in quel luogo. Ma l’occasione per tornare al caffè mi arrivò, inaspettata, in ufficio. Ogni mattina arrivavano in redazione, oltre alle mail, una gran quantità di posta, lettere, manoscritti, proposte di pubblicazioni, che venivano smistate poi nei vari settori. Tra la posta del 12 dicembre c’era una busta, non affrancata, indirizzata a me, che magari non avrebbe prodotto grande interesse se la busta non portava impresso il logo della Galleria d’Arte di via Gramsci. Girai la busta tra le mani, chiesi chi l’avesse portata, ma la segretaria mi disse solo che l’aveva trovata infilata nella cassetta della posta che si trovava nell’atrio dell’edificio. Non c’era mittente, ma già sapevo da chi mi arrivava. Mi affrettai ad aprirla e dentro c’era una cartolina che riproduceva una delle opere esposte alla Galleria e nel retro c’era scritto: “Ci vediamo stasera, alle 18:00, al Caffè Kingston. Ti devo un grazie, un caffè e una spiegazione. Andrea”
Rimasi a bocca aperta, non mi aspettavo certo che quel ragazzo si rifacesse vivo e in quel modo. Ormai lo avevo quasi dimenticato, ma quella lettera riaccese la mia curiosità. Alle 18:00 dovevo accompagnare un autore ad un firmacopie, ma la mia amica e collega si offrì di sostituirmi e alle 18:00, puntuale, arrivai al Caffè Kingsman.
Appena entrai l’atmosfera natalizia era perfetta, l’odore della cioccolata calda faceva venire la voglia di una buona lettura. Qualcuno si scambiava già dei regali, altri erano intenti nelle loro consuete abitudini. Un grande albero di Natale occupava l’angolo vicino il bancone e una serie di lucine bianche lo percorrevano per la sua lunghezza e terminavano con una ghirlanda che dava l’idea che provenisse direttamente dall’Irlanda. Andrea era già seduto al tavolo, era di spalle e non mi aveva vista entrare. Quando lo raggiunsi, ebbi l’impressione che l’avessi distolto da un pensiero triste, ma sul suo volto comparve un sorriso e subito mi disse:
– Sono felice che tu sia venuta. Io prendo un caffè, a te cosa posso offrire?
Dissi che anche per me un caffè andava bene. C’era un po’ di imbarazzo tra di noi e forse ero proprio io ad essere in difficoltà, ma notai con piacere che sul suo viso non c’era quello smarrimento e quel dolore che avevo visto quel giorno alla Galleria. Sembrava più sereno. Allora presi coraggio e gli dissi:
– Il caffè me lo hai ricambiato, ora manca il resto, ma francamente non riesco a capire perché tu debba dirmi grazie.
Il momento fatidico per Andrea era arrivato, ora doveva vuotare il sacco.
– Ho bisogno di dirti grazie per quel giorno alla Galleria. La tua mano su di me mi ha dato la forza di andare avanti, non mi sono sentito più così solo. Da quel momento ho capito che avrei potuto iniziare a vivere di nuovo.
Ero visibilmente disorientata e non riuscii a pensare ad una frase di senso compiuto, così decisi di tacere e lasciare parlare lui.
– Oggi sono esattamente tre anni che la mia compagna e nostra figlia sono morte. Mi stavano raggiungendo alla Galleria perché saremmo dovuti andare al cinema per vedere insieme un film della Disney. Sulle strisce pedonali un uomo ubriaco al volante le ha prese in pieno. Sono morte davanti i miei occhi. Da allora ho iniziato a non vivere più, il senso di colpa ha preso il sopravvento. Se fossi andato io da loro, forse sarebbero ancora vive.
– Capisco, deve essere stato molto difficile.
– Si, molto. È la prima volta che ne parlo ad alta voce con una persona e non solo con me stesso. E ne sono felice. Mi sento meglio.
– Perché proprio io?
– Non lo so. Da quando ti ho vista qui, da quel sogno e da quella tua mano su di me, che ho sentito di potermi fidare di te.
– E se ti sbagliassi?
– Se mi fossi sbagliato tu ora non saresti qui.
Finii il mio caffè e guardai fuori dal locale. Non sapevo cosa dire, ero senza parole. Cosa voleva quel ragazzo da me? Guardai verso il cinema e così gli chiesi:
– Ti va di andare al cinema?
– Ora?
– Sì, ora. Ma non so di che parla la storia.
– Sarà una bellissima storia.
Uscimmo dal Caffè ed andammo al cinema e vi ritornammo per molti anni per accompagnare i nostri figli a vedere i film della Disney.
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