Archivi categoria: Interviste

Intervista | Pier Luigi Luisi ci racconta la genesi del suo libro “All’ombra dei fichidindia”

Un libro per chi vuole conoscere un’isola d’Elba più vera: quella che ha conosciuto la guerra, le lotte politiche, gli scioperi

All’ombra dei fichidindia” è l’ultimo libro di Pier Luigi Luisi. Tempo fa già ve ne ho parlato in una segnalazione, ma oggi vi propongo la mia intervista all’autore che si racconta e ci racconta la sua opera.

Chi è Pier Luigi Luisi e di cosa si occupa?

Sono stato professore universitario di chimica e biochimica prima al Politecnico Federale di Zurigo – per oltre 35 anni – poi all’Università di Roma Tre per dieci anni circa. Adesso, in pensione, mi dedico alla scrittura di articoli e libri. Il libro più noto, a livello mi dicono di best seller internazionale, è il libro scritto con Fritjof Capra “The Systems View of Life”, della Cambridge University Press 2014, tradotto molto bene da Aboca che ha dato come titolo “Vita e Natura”.

Come è nata, in un chimico, la passione per la scrittura?

L’ho sempre avuta, fin da bambino, e negli anni seguenti sono stato sempre sia uno scienziato (origine della vita, sistemi autoreplicanti e modelli di autopoiesi) sia uno scrittore di letteratura.

Perché proprio l’Isola d’Elba per ambientare le sue storie?

I miei genitori sono Elbani, e così i loro genitori, e all’Elba si passava ogni anno l’estate.

Non solo storie, ma anche leggende. Perché questa scelta?

Alcune storie vecchie si fondono in modo naturale con la leggenda, nel senso che non si sa più discernere tra i fatti reali e quelli fantasiosi raccontati dai vecchi cantastorie. Poi anche le storie vere, dopo un po’, assumono il carattere di una fantasia popolare, e non sai più distinguere se sono veramente accadute o se sono frutto solo di credenze collettive.

Cosa ci vuole suggerire con la sua opera?

I giovani – e meno giovani – elbani dovrebbero conoscere di più la loro storia, ricordare che i loro padri o nonni erano minatori, o magari pescatori o cultori di viti, con dei valori forti di attaccamento alla terra e alle tradizioni locali.

Tanti i sentimenti raccontati in quest’opera, qual è per lei quello più importante?

Il sentimento di nostalgia per un mondo che è scomparso, o che sta scomparendo: quello dell’Elba antica.

Il libro è impreziosito da immagini e illustrazioni, non bastavano solo le parole?

Per molti lettori, le sole parole possono non bastare. Io credo, come scrittore, nell’importanza delle illustrazioni, perché forniscono la possibilità di prendersi una pausa dalla lettura e dai numerosi concetti che ne derivano. È come se qualcuno ti dicesse: un momentino, prego… in sostanza, l’illustrazione ti induce a fermare i pensieri e ti porta in un’altra dimensione, quindi è una sospensione molto utile dal punto di vista emozionale.

Per concludere, a chi consiglia la lettura del suo libro?

Direi in primo luogo a coloro che sono interessati a conoscere un’isola d’Elba non tanto turistica, quanto un po’ più vera: quella che ha conosciuto la guerra, le lotte politiche, gli scioperi… quindi, lo consiglierei a lettori che abbiano un interesse storico, culturale e politico riguardo all’Elba. Del resto, molti dei miei amici considerano questo libro anche come un documento, e questo mi fa davvero un gran piacere.

Intervista | Maria Elisa Gualandris racconta il suo libro “Come il Lago”

Con “Come il Lago“, Maria Elisa Gualandris ci presenta un nuovo caso per la protagonista Benedetta Allegri. Questo romanzo è il secondo capitolo della serie L’apprendista reporter, iniziata con Nelle sue ossa. A raccontarci il libro è proprio l’autrice in una intervista esclusiva:

Chi è Maria Elisa Gualandris e di cosa si occupa?

Vivo a Verbania, sul lago Maggiore e sono una giornalista. Mi occupo prevalentemente di cronaca nera, collaborando con diverse testate della mia zona. Conduco anche un programma ogni mattina su Rvl La Radio. La lettura e la scrittura sono da sempre le mie grandi passioni.

È in libreria con il romanzo ‘Come il Lago’, di cosa parla?

Si tratta di un giallo, ambientato tra il lago Maggiore e le montagne dell’Ossola. La mia protagonista, Benedetta Allegri è alle prese con il caso di una donna, Annalisa, trovata morta in un lago di montagna. E’ la figlia adolescente della donna, Caterina, a chiederle aiuto per scoprire la verità su cosa è accaduto alla madre.

Chi è Benedetta, la protagonista di questo romanzo?

Benedetta è una giovane giornalista precaria che ama seguire casi di cronaca e si batte per dare giustizia alle vittime, spesso lasciandosi coinvolgere più di quanto dovrebbe nei casi di cui si occupa.

Questo è un ritorno per la protagonista, cosa è cambiato nel personaggio (se qualcosa è cambiato) rispetto al primo libro della serie ‘L’apprendista reporter’?

Ritroviamo Benedetta che ha lasciato il giornalismo precario per dedicarsi a un lavoro più stabile come copywriter in un’agenzia pubblicitaria a Milano. Sta anche provando a recuperare la sua relazione con il fidanzato Andre. Ma il richiamo della sua grande passione e l’affetto che inizia a provare per Caterina la spingono a rimettersi in gioco.

Come definirebbe il suo romanzo? È un giallo, un poliziesco o cos’altro?

Io lo definisco un giallo-rosa. Ci sono il mistero e i sentimenti.

Quali sono i temi che tratta nel libro e che le stanno più a cuore?

Mi piace occuparmi di temi di attualità quando scrivo. In questo romanzo si parla di violenza sulle donne, dei rischi del web e soprattutto di lavoro e precariato.

Perché il lettore dovrebbe leggere il suo libro?

Spero che chi legge il mio libro possa staccare per qualche ora dalla realtà, rilassarsi e spero anche divertirsi e trovare anche qualche spunto di riflessione.

Infine, dopo ‘Nelle sue ossa’ e ‘Come il Lago’, avremo altri capitoli? Possiamo avere un’anticipazione?

Sono certa di voler far tornare Benedetta, ma al momento è ancora presto!

Intervista | Francesca Innocenzi si racconta e racconta la sua poesia

Francesca Innocenzi si racconta e racconta il suo libro Canto del vuoto cavo, una silloge poetica con sessanta componimenti poetici

Canto del vuoto cavo è la silloge poetica di Francesca Innocenti. In questa intervista, la poetessa ci racconta il significato della sua poesia tra vuoti, catarsi e rinascite.

Prima di parlare dell’opera, mi piace conoscere meglio l’autrice. Chi è Francesca Innocenzi e cosa fa nella vita?

Grazie mille per l’invito! Sono nata e vivo nelle Marche, dove insegno letteratura e storia nelle scuole secondarie di secondo grado. Mi sono avvicinata alla scrittura già da bambina e all’età di venticinque anni ho iniziato a pubblicare. Canto del vuoto cavo è la mia ultima silloge, uscita alcuni mesi fa, in un periodo in cui ho preso a dedicarmi con particolare intensità alla lettura di poeti contemporanei. Credo che in questa epoca in cui si è perso il senso dell’essere collettività, la poesia possa fare molto, incentivando riflessioni scambievoli e condivise, portatrici di significati profondi. È in quest’ottica che sto cercando di far conoscere la raccolta.

‘Canto del vuoto cavo’ è il titolo della sua silloge poetica. Cosa ci suggerisce il titolo?

Il titolo suggerisce un’immagine del vuoto in quanto scaturigine della poesia. Il vuoto può essere più cose insieme. È lacuna e mancanza, quindi percezione dolorosa, che però può rivelarsi spazio fertile di nuove possibilità; una sorta di catarsi, di rinascita. Per me il vuoto è la solitudine, temuta e amata, che ha segnato la mia adolescenza, come pure la vertigine agorafobica degli attacchi di panico. Nel libro c’è anche questo.

Il vuoto, dunque, è al centro della sua poetica, ma in una società così ricca di stimoli, quanto sono effettivamente vuote le nostre esistenze?

Gli stimoli che ci circondano sono spesso inconsistenti: basta un blackout per cancellare tutto. Ma questi blackout, che sono, appunto, buchi neri, vuoti, ci mostrano quanto siamo dipendenti da cose futili, non essenziali. Recupero del vuoto è saper stare con l’essenza. Il tempo della pandemia Covid con i conseguenti lockdown ha costituito una grande opportunità di scoperta, eppure in tanti hanno continuato ad aggrapparsi ad un’idea di libertà superficiale.

Le sue poesie hanno una struttura metrica precisa, ce la può spiegare?

Qui la metrica è quella dell’haiku doppio, quindi due strofe da 5-7-5, o quella delle sue varianti, come il tanka, che è un haiku ampliato da due ulteriori settenari.

Da cosa nasce questa scelta stilistica?

Per un certo periodo, la metrica dello haiku (doppio, soprattutto) ha costituito per me una sorta di rassicurante contenitore. Mi sembrava avesse un ritmo intrinseco che trovavo appagante. Oggi trovo fuorviante definire haiku questi componimenti, poiché dello haiku c’è, appunto, poco: lo schema metrico, come anche la tendenza ad evitare l’uso della prima persona. Ma, in tutto il resto, vi è assolta libertà. E la natura resta sullo sfondo, ha un ruolo assolutamente marginale.

C’è un filo conduttore che unisce i vari componimenti o sono opere singole su uno stesso tema?

I lettori attenti noteranno che l’ultimo testo della silloge, il congedo, si collega in maniera esplicita all’incipit. È da qui che si può capire che il libro comprende il percorso dei miei primi quarant’anni. Non a caso, ho iniziato a scrivere di getto le prime poesie della raccolta solo un paio di giorni dopo il mio compleanno. Non vi è completezza né sistematicità, e neppure linearità temporale. Emergono a sprazzi frammenti di vita delle varie epoche, dall’infanzia al lockdown del 2020, l’«interrotto inverno» in cui ognuno ha perduto qualcuno o qualcosa.  E cerco anche di far posto ad una vasta umanità che mi sta a cuore: i reietti, gli immigrati, i rom, tutti gli imprigionati nel vuoto della solitudine e dell’emarginazione.

Progetti per il futuro?

Nell’immediato vorrei continuare a dedicarmi soprattutto alle mie letture-colloquio con altri autori, perché sto scoprendo una comunità poetica ricca e bellissima, che neppure immaginavo esistesse. Poi vorrei riprendere lo studio dei poeti greci del tardoantico, su cui ho svolto un dottorato anni fa, per portarli a dialogare idealmente con autori del Novecento e oltre. Ma questo è un progetto ancora da strutturare.

Intervista |Salvatore Massimo Fazio ci racconta “Il tornello dei dileggi”

Salvatore Massimo Fazio ci parla del suo libro “Il tornello dei dileggi” e dice: “ho potuto dare libero sfogo al divertimento”

Oggi torno a parlarvi di un romanzo, Il tornello dei dileggi di Salvatore Massimo Fazio, che avete conosciuto tramite una segnalazione (la potete leggere cliccando qui). In realtà, a parlarvene è l’autore stesso attraverso una intervista che gentilmente mi ha concesso e che ci racconta, come nessuno potrebbe fare meglio, i protagonisti e di cosa ruota e ha ispirato la storia.

L’autore, Salvatore Massimo Fazio con il suo libro Il tornello dei dileggi

I lettori del blog già hanno avuto modo di conoscere, tramite una segnalazione, il suo libro, ma prima di scoprire altro, ci dica chi è Salvatore Massimo Fazio.

«Fui sognatore, ancora oggi mi riconosco in tale definizione. I sogni non bisogna tralasciarli mai, e se non ti arrendi in qualche modo si realizzano: se non come li auspicavi, sicuramente migliori o peggiori. In breve mi pento d’esser stato sognatore, d’aver creduto alla buona fede del mondo, in quanto molte cose, non tutte, molte nascono dai loro opposti: dalla melma il fiore, dalla fondazione del PCI, con Bombacci, politicamente parlando, la rivoluzione interiore verso il fascismo; pertanto mi pento ma continuo a sognare.»

L’autore, Salvatore Massimo Fazio

‘Il tornello dei dileggi’ rimanda ad un via vai esistenziale, è così o nella vita c’è linearità?

«Il tornello è un romanzo, se si può definire tale, ciò perché da diverse parti hanno notato un taglio saggistico seppur scorrevole come un romanzo, punta all’esistenziale, partendo dall’esistenzialismo filosofico puro. A tal proposito, la vita è sconcertantemente un pendere su scie esistenzialiste, che non debbono essere viste come una tragedia, tutt’altro: comprendere e vivere il declino o il successo di una posizione, non può che opporsi alla piattezza, intesa come linearità e facilità del percorribile, in cui ci si trova. La linearità è figlia, in ogni caso, di un compromesso: una raccomandazione che mi risolve la questione economica o un’agenzia matrimoniale che mi capitola nella distruzione della libertà facendomi trovare un marito o una moglie, quando non si è stati mai pronti a scommettersi nella relazione di coppia. L’opposto, il diabŏlus, dal quale proviene il sostantivo appena citato, ha la peggiore devastante delle matrici: perché devo congiungermi al mio opposto (nel senso di altro, non di genere), quando pre durante e post divorzio, violenze e abusi di ogni genere verso la donna si consumavano socio-fisico-psicologicamente? Basta pensare al diritto di voto, o alla possibilità di lavorare al pari del maschio? Dunque nell’unione la linearità, che altro non è che il suo opposto. La vita è lineare così da fondare terremoti esistenziali e continui.»

Paolo è il protagonista di quest’opera. Come lo presenterebbe ad un suo amico?

«Per ciò che è, una intersecazione di problematicità, nonostante abbia raggiunto ciò che desiderava, fino all’exploit finale di ogni suo momento, che rimette, nuovamente, tutto in gioco: dunque un umano? Un sogno? Una obiezione ontologica? Condito necessariamente di sberleffo e dileggio.»

Paolo ha a che fare con la filosofia e anche lei. C’è autobiografia in quest’opera?

«C’è molto di biografico, ma poco in Paolo, se non che è tifoso di calcio, di Zeman, del Catania e della Roma. Tra Adriana, Giovanna e Aristide c’è molto di biografico invece.»

E dei personaggi femminili cosa ci può dire?

«Tantissimo, ma una su tutte: ho attinto informazioni da persone che ho conosciuto e visto; nel tempo si sono ripresentate caratteristiche comportamentali del personaggio Adriana ad esempio, costruita su alcuni specifici canoni, in tantissime altre donne, che ovviamente con giochi pirotecnici della penna ho riproiettato in altre. Basti pensare alla descrizione della misoginia, associata ad una donna che lavora per un marchio aziendale enorme, che pur di abbattere le sue paure, distrugge la vita altrui, sempre d’altre donne, motivando cazzi per mazzi, perché manca di sicurezza delle proprie abilità. Mi creda, un fatto reale di circa 13 anni fa che ho fictionizzato, ma che ho vissuto!»

Diverse città sono presenti nella trama, hanno un ruolo o sono solo un luogo come un altro?

«Hanno rigorosamente un ruolo: sono tutte città che ho vissuto, tranne Madrid, che l’ho soltanto visitata e dove ho ribaltato la mia quiete, così come ribalto quella di Giovanna. Da Madrid ho compreso l’errore più grande ad oggi annoverabile tra i miei pentimenti.»

Nell’opera c’è anche una lettura sarcastica della società contemporanea. Come definirebbe la società in cui viviamo?

«Lo scempio: è una società carica di “io, io, io, io”; gli stessi che asseriscono questo conseguimento di io ipertrofico e iperegoico, altro non sono che i peggiori mistificatori del reale. Vendette, canagliate, bigottismi, mascherati da ambienti, luoghi, colori politici a cui aderiscono… pensi e guardi un po’ i culetti accomodati  nel parlamento del nostro Stato; pensi adesso a quanta fatica fanno milioni di italiani per riuscire a mangiare: non è demagogia, è un fatto reale! Frattanto masse di imbecilli litigano scendendo in piazza per onorare simboli di destra e sinistra. Potremmo pur vivere in pace se la smettessimo di mascherarci troppo e di combattere a rischio di giovani, come accadeva tra il ’68 e il ’77: non mi importa nulla di sentire ‘eroi’ di quei tempi, due li ho pure intervistati (pentimento), si uccidevano tra loro ed erano giovani, 17/20 anni: proiettili in testa, bastonate di gruppo contro uno, esito? Il dolore delle madri. Non mi andava di riportare narrazione del genere, pertanto mi sono ingannato volutamente, giocando col sarcasmo, di cui prima mi diceva sul mio romanzo.»

Infine, perché le persone dovrebbero leggere il suo libro?

«Oggi, trascorsi sei mesi esatti dalla prima pubblicazione, posso dire che interessa tanto e anche troppo, tant’è che questo potente ritorno del Fazio, ma narratore in 100 pagine con migliaia di argomenti messi dentro, piuttosto che saggista, non me lo aspettavo e anche perché ho potuto dare libero sfogo al divertimento che sempre non mi riusciva nei libri precedenti, in quanto saggi.»

Intervista | Rita Pacilio presenta ‘Quasi madre’, la sua silloge poetica

Rita Pacilio presenta ‘Quasi madre’, la sua silloge poetica: “Per me la poesia è un atto civile”

Rita Pacilio presenta ‘Quasi madre‘, la sua silloge poetica e la sua poetica. “Per me la poesia è un atto civile responsabile e di fede”, con queste parole di grande impatto la poetessa ci parla del valore profondo che la poesia ha nella sua esistenza.

Prima di parlare dell’opera, conosciamo meglio l’autrice. Chi è Rita Pacilio?

Pratico la poesia e l’arte della parola da molti anni. Ho pubblicato libri di narrativa, saggistica, favole/filastrocche per bambini e numerosi libri di poesie alcuni dei quali sono stati tradotti nel mondo

Qual è il ruolo della poesia nella sua vita?

Per me la poesia è un atto civile, responsabile e di fede. Nella mia vita la poesia rappresenta il legame con il mondo e la realtà.

‘Quasi madre’ indaga l’intimo legame tra madre e figlia. Qual è per lei l’anello imprescindibile di questo legame?

Nel libro “Quasi madre” ho attraversato i vari legami che legano madre e figlia, soprattutto quello sociopsicologico relativo all’anaffettività materna. Secondo me, in un rapporto sano diventa imprescindibile la comunicazione, il reciproco rispetto, la capacità di crescere insieme e di affrontare i cambiamenti connessi alle differenze generazionali.

Come si racconta l’amore tra madre e figlia?

L’amore tra madre e figlia è un processo naturale e per molte donne, sicuramente la maggioranza, il rapporto con la madre ha un grande significato: la madre rappresenta, infatti, il luogo di protezione e di calore, ma è anche il modello dell’universo femminile di riferimento, sia per la bambina che per la ragazza. L’amore è sotteso, è evidente dal comportamento dell’una nei confronti dell’altra: si racconta con gli occhi da cui traspare ogni interiorità e vissuto. Si racconta ai lettori scavando nelle nostre caratteristiche cognitive ed emotive.

Qual è il componimento poetico che la descrive di più?

Ecco la poesia che sento in maniera particolare:

Sono qui di nuovo nella terra straniera

prego la tua scomparsa sorridente
e di luce.

Sono la figlia del vero

per questo non vado via.

Tra te e me si dispera il giorno

all’imbrunire anche la benedizione

ha fretta di spazientirsi.
Ti lamenti e mi fa male il cuore.

Questo libro è autobiografico?

Ogni libro che ho scritto, a prescindere la tematica scelta, porta un segreto intimo, personale.

Qual è il suo modello poetico?

Il mio modello di poesia è l’autenticità del linguaggio, la ricerca di una propria voce, come nella musica, al fine di riuscire a maneggiare le parole e ogni piega del quotidiano con la consapevolezza che le relazioni affettive giocano un ruolo fondamentale nella nostra identificazione con il mondo.

Che consiglio sente di dare ai giovani per avvicinarsi alla poesia?

Ai giovani che si avvicinano alla poesia suggerisco di leggere molto e di ascoltare. Soprattutto, di innamorarsi della bellezza: presenza di luce e mai di ombra e buio.

Intervista | Michela Zanarella racconta il suo incontro con la poesia

‘Recupero dell’essenziale’ è la nuova silloge di Michela Zanarella, edita da Interno Libri. A parlarcene è l’autrice stessa

Dopo il fortunato “Le parole accanto” pubblicato con Interno Poesia nel 2017, a distanza di cinque anni esatti, Michela Zanarella si presenta ai lettori con una nuova e insolita raccolta edita con Interno Libri, progetto editoriale di Interno Editoria, casa editrice che ha fondato e gestisce il marchio Interno Poesia Editore. ‘Recupero dell’essenziale’ è la sua nuova silloge. A parlarcene è l’autrice.

Prima di parlare dell’opera, conosciamo meglio l’autrice. Chi è Michela Zanarella e cosa fa nella vita?

Intanto grazie per l’invito nel vostro spazio di approfondimento culturale. Sono giornalista pubblicista, mi occupo di comunicazione e relazioni internazionali. La scrittura fa parte della mia quotidianità e del mio lavoro. Spazio dall’ editoria alla musica, dal cinema al teatro, tutto ciò che si può considerare arte rientra nei miei interessi sia personali che professionali. Sono nata a Cittadella, in provincia di Padova, il primo luglio 1980. Fino al 2007 ho vissuto a Campo San Martino, piccolo paese nel cuore della pianura padana. Lavoravo in un’azienda di commercio delle carni come impiegata a tempo indeterminato. Per amore ho scelto di lasciare la mia terra e di trasferirmi a Roma, a Monteverde, dove vivo tuttora.

Perché ha scelto la poesia come forma di scrittura?

Direi che è stata la poesia a scegliermi. Ho iniziato a scrivere in versi dopo essere sopravvissuta ad un tragico incidente stradale. Non avevo mai scritto nulla prima di allora, la poesia era stata esclusivamente materia di studio scolastico, non rientrava nelle mie priorità. Ma qualcosa, che ancora oggi non so ben spiegare, ha cambiato la mia visione delle cose e questo genere così particolare è entrato a far parte della mia quotidianità. Ora non saprei farne a meno, se non scrivo mi sento smarrita, quasi irriconoscibile.

Qual è il cuore del suo messaggio poetico?

La mia è una continua ricerca di luce e verità attraverso le parole. La mia poesia diventa strumento di riflessione e meditazione sull’esistenza. Ognuno di noi si pone interrogativi, io lo faccio in versi, cercando nella poesia un’alleata per conoscere meglio la mia interiorità e ciò che mi circonda. Avverto una connessione continua tra l’umanità, il cosmo e l’altra dimensione. Esistono dei fili sottilissimi che legano ogni cosa, visibile e invisibile. La poesia si spinge dove l’occhio non arriva, sfida il tempo, educa l’anima a rivelarsi senza filtri.

Ci racconti la sua opera ‘Recupero dell’essenziale’?

Il libro nasce da un recupero vero e proprie di poesie inedite andate perdute a causa di un guasto del computer. E’ stato un salvataggio poetico reso possibile grazie all’aiuto degli amici, ai quali avevo mandato i miei testi in lettura. Se non avessero tenuto da parte le mie poesie, forse questo libro non avrebbe mai visto la luce. Dal panico iniziale sono arrivata così ad un bellissimo traguardo, fatto di amicizia, condivisione e sostegno. La raccolta vanta la prefazione di Dante Maffia, già candidato al Nobel, e postfazione di Anna Santoliquido, poetessa, scrittrice, saggista amata e riconosciuta internazionalmente, presidente del Movimento Internazionale “Donne e poesia”. Ho dedicato il libro a una cara amica che è venuta a mancare nell’aprile 2020, una tra le voci più interessanti della poesia contemporanea e giornalista: Marcella Continanza. Fu lei a fondare e promuovere il Festival della Poesia Europea di Francoforte sul Meno. Le sue poesie sono state tradotte in tedesco e in spagnolo e pubblicate su riviste letterarie e in antologie. Tra i riconoscimenti da lei ricevuti la Medaglia della Presidenza, nel 1999, per la Rassegna Donne e Poesia, assegnatale dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, e la nomina a Cavaliere all’Ordine del Merito della Repubblica nel 2008 per l’impegno civile nel campo del giornalismo, conferitale dal Presidente Giorgio Napolitano. Marcella mi telefonava spesso da Francoforte e trascorrevamo ore al telefono a parlare di poesia. Mi ha sempre aiutato a credere in me e nel valore della mia scrittura, le devo molto.

Che cos’è per lei l’essenziale?

L’essenziale è ciò che serve per sentirsi in sintonia con sé stessi e con gli altri, darsi delle priorità. Al primo posto metto la salute del corpo e dell’anima, senza si può fare ben poco, poi gli affetti, l’amore. Le emozioni e i sentimenti ci consentono di conoscere meglio la nostra interiorità, arricchiscono le nostre esperienze. Dò valore anche ai sogni, perché ci aiutano ad affrontare sfide, ad essere determinati e coraggiosi.

Questo libro arriva dopo cinque anni dal precedente, come è cambiato, se è cambiato, il suo poetare?

Questa raccolta arriva dopo 5 anni dalla mia pubblicazione con Interno Poesia, marchio portante di Interno Editoria, da cui ha preso forma successivamente Interno Libri. Pubblicai con Andrea Cati la raccolta “Le parole accanto” nel 2017 con la formula del crowdfunding, ovvero con il sostegno dei lettori. Fu una sfida che colsi e di cui sono orgogliosa, perché mi ha permesso di incontrare tante persone che si sono avvicinate alla mia poesia. La mia scrittura è cambiata molto da allora, ora è più meditativa, filosofica, prima era molto descrittiva, legata più al ricordo. Mi piace sperimentare, tentare altre strade, mettermi in discussione, consapevole che la poesia è movimento, come magma incandescente.

La poesia circola poco in Italia, che valore ha oggi nella società?

La poesia circola sicuramente molto meno dei romanzi, è poco commerciale, ma credo che i lettori siano sempre una quota limitata in ogni genere letterario rispetto a quanto si produce nel mercato dell’editoria. Fortunatamente ci sono ancora persone che la amano e la cercano, anche tra i giovani. Il valore della poesia è unico e inestimabile, perché è balsamo per l’anima. Ma nella società odierna appare come qualcosa di facoltativo, non necessario. Voglio comunque credere in un futuro in cui considerare la poesia risorsa essenziale, non merce nascosta, tenuta in disparte, tra gli scaffali delle librerie.

Che consiglio sente di dare ai giovani per avvicinarsi alla poesia?

Non so se sono in grado di dare consigli, posso solo suggerire ai ragazzi di non disdegnare la lettura in genere e di provare a considerare la poesia come strumento di esplorazione e conoscenza. Essere curiosi, porsi domande, chiedersi il senso di metafore, immagini, pause, suoni. Almeno un tentativo va fatto, poi se non ci si ritrova, inutile forzare. La poesia non vuole obbligo o distrazione, chiede ascolto, comprensione, libertà d’animo. E ammalia il lettore.

Intervista a Silvia Pattarini, autrice di “Biglietto di terza classe”

Biglietto di terza classe parla di speranza e fede, gli elementi che contribuiscono a rendere la trama ancora più avvincente

Qualche giorno fa, vi ho segnalato l’ultimo libro di Silvia Pattarini, “Biglietto di terza classe“. Questo romanzo mi ha molto incuriosita, per questo ho chiesto all’autrice di parlarmene meglio. Sono contenta di condividere con voi il contenuto di questa bella intervista. Ringrazio l’autrice per le parole di apprezzamento per il mio blog e il mio “lavoro”. Grazie anche per le immagini di corredo inviatemi.

Prima di parlare del libro, conosciamo meglio l’autrice. Chi è Silvia Pattarini e cosa fa nella vita?

Oltre ad essere madre di tre adolescenti, mi definisco scrittrice e poetessa della porta accanto. Della porta accanto perché faccio parte del collettivo “Gli scrittori della porta accanto” di cui sono anche socia fondatrice, e come diciamo noi, “non ci piace mettere troppo spazio tra noi e i nostri lettori.” Per questo web magazine culturale, gestisco la rubrica “Caffè letterario”, uno spazio virtuale che offre agli autori emergenti la possibilità di farsi conoscere al pubblico.

Vivo da sempre nella splendida cornice della Valtrebbia, definita da Hemingway “la valle più bella del mondo”. Leggende metropolitane raccontano che il celebre scrittore americano si divertisse a pescare le trote nel fiume Trebbia. Tra leggende e realtà sono anni che questa frase a lui attribuita, si tramanda con un certo orgoglio di generazione in generazione. Come dargli torto? Quando non scrivo o non leggo amo viaggiare e dedicarmi al giardinaggio. Ultimamente sto rivalutando molto le passeggiate a piedi, mi piace uscire di casa e percorrere i miei quattro-cinque chilometri giornalieri: mi aiuta a liberare la mente da tutti gli stress quotidiani, poi mi sento meglio.

Ci racconti brevemente la trama del libro

Lina ha solo vent’anni quando, agli albori del ‘900, emigra in America in cerca di fortuna. Il lungo viaggio per mare sul bastimento, con destinazione New York. Le paure durante la traversata, in terza classe, giù nella stiva, con emigranti che fuggono dalla disperazione alla ricerca di una vita migliore. Il Nuovo Mondo, gli umilianti controlli sull’isola di Ellis, chiamata dai migranti “l’Isola delle lacrime”. La nuova vita da cittadina americana. Le difficoltà, le lotte per i diritti delle donne e contro lo sfruttamento minorile. I pericoli e le avversità da affrontare. Infine, l’amore, ma per questo ci sarà un alto prezzo da pagare.

Il libro parla di emigrati dell’inizio del ‘900. Perché proprio quel periodo storico?

Non è stata una mia scelta a dire il vero, sono stati gli eventi storici a cercare me. L’idea è partita dopo il ritrovamento nel cassetto della nonna, di un vecchio biglietto di terza classe datato 20 agosto 1919.  Un foglietto piegato in quattro, odoroso di muffa e ingiallito dal tempo che riportava a caratteri cubitali la dicitura «LA VELOCE – navigazione italiana a vapore» in cui spiccava la tratta: Italia-America. Riportava il nome di mia nonna e sua sorella scritti a mano in una grafia d’altri tempi. Da quella data mi sono mossa a ritroso, per ricostruire tutta la vicenda legata al viaggio di ritorno in Italia di nonna. Non contenta dei suoi racconti frammentari ho intrapreso una vera e propria ricerca storica, mossa da curiosità personale, e quando mi sono resa conto di possedere informazioni sufficienti sul conto della mia bis nonna, sua madre, ho provato a racchiuderle in un libro. É nata così la prima edizione di Biglietto di terza classe, dato alle stampe nel 2013. Non ancora soddisfatta, in questi ultimi anni ho intrapreso nuove ricerche ancora più approfondite, e a luglio 2021 è uscita la seconda edizione di Biglietto di terza classe, completamente riscritta, rinnovata, implementata con nuovi protagonisti e arricchita con nuove foto d’epoca, scovate nel cassetto della nonna.

Si parla anche di speranza?

Certo, si parla molto di speranza. Il viaggio intrapreso da Lina, la protagonista, è di per sé un viaggio della speranza. Ma la speranza da sola non basta, per ben sperare è necessario anche avere fede. Speranza e fede sono elementi che ricorrono spesso nel romanzo e contribuiscono a rendere la trama ancora più avvincente.

La protagonista ha di fronte a sé una serie di sfide, ma qual è quella più grande?

La vita di Lina è una sfida quotidiana per la sopravvivenza. Ma ritengo che la sfida più grande che la protagonista si trova a fronteggiare sia la forza di ricominciare, nel momento in cui la vita le toglie  l’amore più grande della sua vita. È uno spaccato particolarmente drammatico della vita della protagonista.

In un certo senso, la storia di Lina è molto attuale. Cosa ci insegna oggi?

Oltre al fenomeno sempre drammatico dell’emigrazione, il libro è un bell’espediente narrativo per parlare anche di altri argomenti d’attualità: razzismo, incidenti sul lavoro, sfruttamento sul lavoro, discriminazioni, abusi, lotte di classe per l’emancipazione femminile, mafia e per finire di pandemia. L’insegnamento che ne deriva è che anche se la ruota del tempo gira e i tempi cambiano e si evolvono, spesso gli uomini non cambiano e continuano a commettere gli stessi errori, purtroppo. Solo la speranza che ci può salvare da un ritorno all’oscurantismo del passato, e speranza significa fiducia nelle nuove generazioni.

A chi si è ispirata per raccontare la storia di Lina?

Questa domanda è facile. Lina è una ragazza realmente esistita più di cent’anni fa, era una contadina e viveva qui, nella mia bella Valtrebbia: Lina era la mia bisnonna. Non ho fatto in tempo a conoscerla, ma ho sempre sentito parlare di lei, dai racconti di mia nonna, sua figlia. Per questo motivo ho voluto rendere omaggio alla sua memoria e raccontare un po’ di lei in questo libro, perché credo che sia stata una donna coraggiosa e straordinaria, una persona da cui prendere esempio.

Qual è l’aspetto di Lina che le piace di più e che vorrebbe che il pubblico apprezzasse?

Il suo coraggio e la sua tenacia. Non si piange addosso ma prende in mano la sua vita. Anche nelle avversità affronta il destino a testa alta, con grande dignità.

Per finire, a chi consiglia di leggere il suo libro?

Questo libro è indicato per chi ama i romanzi storici, le storie vere e le biografie. Ho scelto di utilizzare un lessico semplice ma non scontato: può essere proposto come lettura già a partire dalle ultime classi della scuola primaria. Ottimo come lettura integrativa nelle ultime classi della scuola secondaria di primo grado, perché in linea anche col programma di storia delle classi terze. Come target di pubblico indico simpaticamente 10 – 99 anni. Mi congedo ringraziando La penna nel cassetto per questa bella occasione di condivisione dei miei pensieri, un caro saluto anche a tutti i lettori di questo splendido blog.

Enigma Laocoonte, il racconto di un’opera e del suo mistero di Francesco Colafemmina

Francesco Colafemmina ci racconta nell’intervista la genesi della sua opera e del Laocoonte che ha radici nella storia del passato, ma che si afferma per la sua contemporaneità

Il 14 gennaio del 1506 nella vigna di un funzionario pontificio, Felice de Fredis, fu ritrovato un complesso marmoreo che avrebbe condizionato profondamente l’estetica europea: il Laocoonte. Immediatamente identificato come uno dei capolavori della statuaria antica, menzionato da Plinio nella sua Storia Naturale, papa Giulio II lo acquisterà per il suo Cortile del Belvedere appena ultimato da Bramante. Sul luogo della scoperta quel giorno apparve – comparsa quasi furtiva – Michelangelo Buonarroti. Il Laocoonte lascerà un segno indelebile sulla sua arte di imprimere energia e forza vitale al corpo umano. A distanza di più di vent’anni da quella scoperta, nella stanza segreta della sacrestia nuova di San Lorenzo, dove Michelangelo si nasconde per timore di rappresaglie medicee, l’artista disegna con un pezzo di carbone una perfetta testa di Laocoonte sul muro, alla luce di una candela di sego. Perché il sacerdote troiano diventa un tema centrale nella sua vita? E se questo legame avesse un’altra spiegazione? Se Michelangelo, già noto per una famosa contraffazione, un Cupido dormiente, antichizzato a dovere e sepolto in una vigna, e venduto per antico al cardinal Riario nel 1496, avesse replicato la “truffa”, dopo aver sperimentato quanto il burbero papa Giulio fosse munifico per l’arte? Nel 2005 lo studio di una storica dell’arte statunitense destò un certo clamore nell’avanzare proprio questa ipotesi: Michelangelo autore del Laocoonte vaticano.

Così prende avvio il libro di Francesco Colafemmina, Enigma Laocoonte, edito da Mimesis Edizioni. Il volume “analizza tutti gli ingranaggi di questa intricata vicenda, ne ricostruisce il contesto storico e culturale, richiamando la dimensione simbolica del Laocoonte e il suo messaggio spirituale e politico”. Ma sentiamo dalle parole dell’autore il dettaglio dell’opera e come è nata.

Dove è nata l’idea di scrivere un’opera intorno al Laocoonte? E perché proprio il Laocoonte?

nata quasi per caso, per una di quelle imprevedibili congiunzioni astrali che costellano la nostra vita. Pur essendo un grande appassionato di arte antica, non avevo mai indagato sull’ipotesi intrigante che il Laocoonte vaticano non fosse un’opera dell’antichità. Poi un giorno un caro amico, reduce da uno spiacevole incidente, mi disse queste parole: “Francesco, noi siamo come il Laocoonte che grida la verità, che denuncia certe storture ma viene ammazzato assieme ai suoi figli dai serpenti… Quella statua ha molto da raccontarci!”. Così mi sono messo sulle tracce del Laocoonte e di questa sua “modernità”, e ho finito per imbattermi in Michelangelo…

Il libro racconta di un giallo artistico. Cosa si intende?

E’ una ipotesi, o forse qualcosa di più d’una ipotesi. La possibilità, insomma, che il famoso complesso marmoreo menzionato da Plinio il Vecchio come una delle più mirabili opere d’arte statuaria dell’antichità, ritrovato in una vigna romana nel gennaio del 1506 non sia in realtà la stessa opera citata da Plinio, ma una reinterpretazione in stile antico di Michelangelo, interrata con l’intento di venderla ad un prezzo elevato al più grande collezionista della Roma dell’epoca, papa Giulio II. Qualcosa tuttavia andò storto.

Qual è il ruolo di Michelangelo Buonarroti nel libro?

Seguiamo da vicino alcuni momenti della sua vita, a partire dal suo primo arrivo a Roma e dalla sua prima contraffazione, quella di un Cupido dormiente venduto per antico al Cardinal Riario nel 1496. Una truffa in piena regola che fu tuttavia scoperta, ma fruttò a Michelangelo la fama di prodigio della scultura. Dopo dieci anni lo stesso Riario firmerà il contratto di acquisto del Laocoonte ritrovato nella vigna di un funzionario pontificio, Felice de Fredis. Ma anche questa volta la truffa fu scoperta, tuttavia ad essere truffato era addirittura papa Giulio II che a Michelangelo aveva commissionato un anno prima la sua tomba monumentale. L’artista fuggirà da Roma, braccato da emissari del papa che intendono ricondurlo dal papa, si rifugerà a Firenze e penserà persino a fuggire in Turchia. Infine giungerà la riconciliazione e ancora una volta sarà premiata la straordinaria maestria di colui che fu capace di superare l’indiscusso modello dell’antichità: il papa gli affiderà la sfida della Sistina.

Il Laocoonte è una delle opere più potenti della storia dell’arte. Cosa ci dice oggi la sua immagine?

Ci parla del crollo di una civiltà e della scelta che è offerta agli spiriti che avvertono gli scricchiolii, le fenditure nella muraglia. Essere Laocoonti, gridare il vero, e finire atterrati da nuove occhiute censure, dalle distruttive mode di un conformismo che ha preso di mira le fondamenta stesse della nostra civiltà, o salvare il seme come fa Enea, dopo aver assistito alla fine di Laocoonte e dei suoi figli. Oppure scegliere di incarnare entrambi.

Il lettore che sceglie il suo libro cosa ha tra le mani? Un saggio, un romanzo o cosa di preciso?

Di sicuro un saggio. Ogni dettaglio storico, ogni episodio della vita di Michelangelo è ampiamente documentato e nulla è lasciato alla fantasia. Direi che oltre il saggio c’è un pizzico di riflessione filosofica. Quel tanto che basta a lasciare aperti interrogativi e riflessioni nel lettore al di là della storia del Laocoonte vaticano.

Chi è il destinatario di quest’opera e cosa ci insegna?

E’ un’opera non pensata per un pubblico specifico, ma più in generale per chi ama l’arte e la storia, e se può permettersi di insegnare qualcosa è che ognuno di noi nel suo piccolo è custode di un qualche tesoro, di una qualche esperienza o tradizione da tramandare ai propri figli, ai propri nipoti, in tempi piuttosto funesti e, per certi versi, terminali, come quelli che stiamo vivendo.

Paola Maria Liotta ci parla del suo libro “Al Mutar del Vento”

La storia del Minotauro, che all’apparenza non è un mito di metamorfosi, cela però una congerie di elementi che inducono a riflettere su temi e motivi molto attuali, fra tutti la paura del diverso, il dissidio apparenza-realtà, il superamento della paura e del limite”

Dopo la pausa estiva riprendo l’attività del blog con una intervista bellissima alla brava Paola Maria Liotta. Già vi avevo presentato il suo libro “Al mutar del vento. La vera storia di Arianna, Teseo e il Minotauro“, ma ora a raccontarci il libro nei dettagli e il percorso che c’è alle spalle è l’autrice stessa. Io non voglio aggiungere altro e non avrei nemmeno il diritto di farlo, quindi vi invito a leggere ciò che Paola Maria Liotta mi ha raccontato. Buona lettura!

Prima di parlare del libro, conosciamo meglio l’autrice. Chi è Paola Maria Liotta e cosa fa nella vita?

Sono una docente di ruolo di Lettere e Latino e credo fermamente nella scuola come comunità educante. La scuola oggi è più che mai determinante nel motivare, formare e guidare i giovani, nel coltivarne i talenti e promuoverne la consapevolezza di sé anche in relazione agli altri. Sono stata fin da bambina un’accanita lettrice, e lo sono ancora. Direi che sento mio il verso dantesco “ma per seguir virtute e canoscenza” e lo vivo profondamente. E poi ho molti interessi, passioni, curiosità, che cerco di coltivare e di assecondare nella sfera personale, privata. Non mi fermo alla vita professionale e scolastica, ovvero se leggo, scrivo, ascolto musica, viaggio, seguo spettacoli e rappresentazioni, approfondisco un argomento lo faccio prima di tutto per me, Paola.

Di cosa parla il suo libro?

Trae spunto dal mito del Minotauro per delineare una specie di mappatura di tutti i miti a questo correlati, sviluppandoli in una dimensione prima soggettiva, cioè analizzando ciascuna delle figure del mito del Minotauro, nelle sue componenti e nei miti correlati. Queste figure (Pasifae, Europa, Arianna, Naucrate, Asterio, Dedalo, Icaro, Teseo, Minosse) si esprimono in veri e propri monologhi, in cui ognuno di loro porterà alla luce desideri, aspirazioni e fragilità che attengono all’essere umano di ogni tempo. In un secondo momento queste personagge e questi personaggi possono confrontarsi fra loro e superare la conflittualità latente o meno che li blocca nei rispettivi ruoli, riconoscendo le reciproche istanze e la possibilità di coltivare la differenza come fonte di arricchimento e valore aggiunto di ogni relazione. Nella terza parte, infine, mi soffermo sulle figure di Arianna, Teseo e Asterio, sondando le relazioni dei tre in una prospettiva diversa da quella che il mito ha acclarato. Perciò Asterio, detto Il Minotauro, non sarà il mostruoso essere che si sazierà di sacrifici umani, Teseo non sarà l’opportunista traditore in cerca di fama, o meglio il figlio di Egeo interessato a uccidere il Minotauro per liberare Atene dal pesante tributo in vite umane, e soprattutto Arianna non sarà l’eroina abbandonata che si risveglia da sola a Nasso, ma una creatura forte e tenace, capace di scegliere per amore di Asterio un finale differente rispetto a quello classico e, in un secondo momento, di riscrivere il suo destino, scegliendo prima la compagnia di Dioniso e, poi, di rifarsi del tempo perduto con Teseo.

Perché ha scelto la mitologia e l’episodio del Minotauro?

Mi hanno sempre attirato i miti, le leggende e l’epica in generale. I miti di metamorfosi, poi, sono estremamente poetici e avvincenti, anche grazie ai poeti greci e latini che li hanno resi immortali. La storia del Minotauro, che all’apparenza non è un mito di metamorfosi, cela però una congerie di elementi che inducono a riflettere su temi e motivi molto attuali, fra tutti la paura del diverso, il dissidio apparenza-realtà, il superamento della paura e del limite, si veda quel luogo-simbolo che è il labirinto, al quale Borges darà un significato preciso. Per esempio, Dedalo e Icaro dono prima di tutto un padre e un figlio, e poi rispettivamente l’artista e lo scienziato che non si arresta sulla via della conoscenza e un ragazzino desideroso di solcare le vie del cielo e di realizzare così i suoi sogni. Mi sono resa conto che il mito del Minotauro permetteva una pluralità di spunti che ritengo siano molto particolari, infatti hanno talmente stimolato la mia ispirazione che in modo naturale ha proceduto per questi sentieri già percorsi dai classici, ricreandone altri, di nuovi. E poi amo molto Creta, l’antica Grecia, le lunghe rotte che hanno reso il Mediterraneo un meraviglioso teatro di incontri, di commerci e di progresso, mentre oggi è diventato purtroppo teatro di tragedie senza fine.

Qual è il suo personaggio preferito e perché?

Li amo tutti, perché tutti vivono di una loro tensione ideale ed esprimono i tasselli di una visione multifocale e interdipendente di uno stesso modo di intendere la vita, che era poi la visione ciclica del mondo classico. Direi che alla fine è Arianna la personaggia del mio cuore. Perciò ne faccio un’eroina coraggiosa, altruista, intrepida e desiderosa di amare, e non la giovane che piange sconsolata per il tradimento dell’amato. Vero è che ogni personaggio ha fatto vibrare le corde del mio cuore. Per esempio, Asterio, considerato un mostro, è invece dotato di una sensibilità straordinaria, ama la poesia, soffre quando viene deriso dai suoi coetanei. Teseo, l’adolescente che parte in cerca del padre che non ha mai conosciuto, è armato del suo desiderio di spuntarla e poi diventerà il fondatore di Atene. Che cosa chiede, lui, se non ciò che vuole ogni interprete della mia storia, che sottotitolo appunto “La vera storia di Arianna, Teseo e il Minotauro”? Essere riconosciuto, accettato, amato per come è. Arianna, invece, ama indipendentemente da sé. Come la nonna Europa, è capace di donare e di vivere l’amore nella sua essenza pura, in sintonia con le forze della natura. Infatti sia lei che Europa adorano la Grande Madre (A tale proposito non si dimentichi il ruolo delle donne nella società cretese)

Arianna è considerata pari ad un’eroina, cosa ci insegna il suo agire?

Che la bellezza, intesa come bellezza del sentire, del gusto, delle intenzioni, e il coraggio sono le carte migliori da giocare nell’avventura della vita. La sua tenacia la conduce verso Teseo e sarà alla fine l’arma e la sorgente della sua forza, che la sostanzia. Così potrà recuperare quel rapporto che è stato troncato prima del tempo e che, invece, sfiderà i millenni, regalandoci la speranza che i desideri possano realizzarsi, se ci crediamo. L’amore non finisce benché possano mutare le forme, i tempi, i modi in cui si esprime.

Oggi la mitologia è spesso trasformata da esigenze cinematografiche, come vede queste nuove letture?

Molto stimolanti perché significa che il mito, la prima forma di racconto dell’umanità, si pensi all’area orientale, alle saghe sumere, alla stessa Bibbia, al mondo greco, all’epica omerica, insegnano qualcosa di cui abbiamo bisogno. La fantasia tracima nella verità, regalandone bagliori sublimi di un’arte suprema, e la verità può essere molto più efficace se fa della fantasia il suo canale privilegiato per attingere a quel serbatoio di sogni, paure, archetipi che ci tracciano dai primi albori della storia. Ben vengano sempre nuove interpretazioni, che sono il segno della vitalità del mito e della sua grandezza.

Quali sono i personaggi mitologici o le storie del mito, a parte quella da lei narrata, che secondo lei vivono ancora nella nostra cultura?

Tutte le storie antiche insegnano qualcosa, dicono sempre qualcosa di nuovo e si rimandano l’un l’altra, da aree diverse del pianeta, per via di caratteri comuni. Si pensi alla dea indù Sarasvati, creata da Brahma, che ne è padre e marito, e all’analogia che se ne può allacciare con l’Atena Partenope, la dea della sapienza, nata dalla testa di Zeus. Per un Mosé salvato dalle acque, ci saranno due gemelli affidati alle acque del Tevere, e non solo… I miti della Sicilia e di Grecia, il viaggio di Ulisse, la grandezza di Ettore, Patroclo e Achille, la galleria di tipi umani che squadernano, la Chioma di Berenice che eserciterà poi la sua seduzione su Foscolo e molte altre narrazioni ancora sono fonti di piacere e riconoscimento, in chi ne legge, inestinguibili. Mi colpiscono molto  miti e figure femminili quali Aretusa e Pentesilea, che esemplificano aspetti di ieri che sono tuttora. In tutte le loro varianti e costanti.

Perché il lettore dovrebbe leggere il suo libro?

Per lasciarsi assorbire nei meandri di un mondo che ci appartiene, quelle leggende su cui si fonda la visione del cosmo, degli dèi e della vita da cui una civiltà ha sviluppato un patrimonio di sapienza e di pensiero al quale il nostro mondo deve tutto, in tutti i campi del sapere. Solo per citare qualche motivato riferimento, si pensi all’Ellenismo e ai progressi della scienza, prima ancora alla nascita della filosofia, o al nostro alfabeto, che ci è giunto grazie alle colonie della Magna Grecia, e deriva dall’alfabeto fenicio.

Per finire, quali progetti per il futuro?

Il mio segreto è vitale, ed è quello di averne sempre tanti, di sogni e di voglia di fare meglio. “Nulla dies sine linea”, e su quelle linee si canta la storia eterna di un’umanità che ci appartiene. “Nihil humani me alienum puto”.

Intervista | Stefano O. Puracchio ci parla della sua saga “Io e il signor Oz”

Stefano Orlando Puracchio ci parla della sua saga “Io e il Signor Oz”, del progetto che ne è alle spalle e di quelli futuri

Stefano Orlando Puracchio è l’autore della saga “Io e il signor Oz”, ormai giunta al terzo capitolo. Dopo Io e il Signor Oz, e Un maestro particolare, Puracchio torna con un nuovo capitolo, intitolato Caccia al Diablero in cui ritroviamo gli amati personaggi Joe, Jana e Baxter. Ma prima di leggere e recensire il terzo capitolo, conosciamo meglio l’autore e il progetto che è alle spalle di questa saga.

Prima di parlare dei suoi libri, conosciamo meglio l’autore. Chi è Stefano Orlando Puracchio?

Un giornalista, uno scrittore e un divulgatore quarantenne che continuerà a procedere in “direzione ostinata e contraria” finché le forze glielo permetteranno.

Quando è nata la passione per la scrittura?

Il “sacro fuoco” si é acceso quando sono stato nominato vicedirettore del giornalino scolastico alle superiori, circa un quarto di secolo fa.

La serie di “Io e il Signor Oz” parte da un testo letterario importante, perché ha scelto l’opera di L. Frank Baum?

Perché amo il libro: “Il meraviglioso mago di Oz” di Frank Baum. Mi sembrava una bella cosa prendere spunto dal lavoro di Baum per poi sviluppare il mio universo narrativo. Baum, assieme a Salgari, ai Grimm, ad Andersen, a Sapkowski e a molti altri (Camilleri, Manzini, Rowling, Tolkien…) fanno parte del mio background culturale.

Come riassumerebbe l’idea che è alla base della saga?

Vedere come un adulto avrebbe reagito se messo di fronte al regno di Oz e alle sue meraviglie. Sappiamo come ha reagito Dorothy, che é una bambina. Ho provato a immaginare cosa sarebbe potuto succedere a un adulto (tra l’altro uno scapestrato) nelle stesse condizioni. Tuttavia, questo non é stato il fine ma l’inizio di una nuova avventura che ha portato i protagonisti del primo libro della trilogia ad affrontare nuove sfide. Lontano da Oz ma sicuramente arricchiti dall’esperienza vissuta.

La saga è giunta al suo terzo capitolo, cosa accadrà ai protagonisti?

Vivranno felici e contenti. Per ora. Un giorno potrò scrivere “per il resto dei loro giorni”. Ma non é ancora giunto quel momento. “Caccia al diablero”, il terzo libro della trilogia, segna un arrivederci, non un addio.

Qual è il personaggio che più la rappresenta e che sente vicino?

Escludendo i tre protagonisti (Joe, Jana e Baxter), credo che il personaggio che mi rappresenta di più sia Dylan Marlow. Comparso nel secondo libro della saga, Marlow si é ritagliato uno spazio sempre più importante. La storia di Marlow è quella di un riscatto sociale.

Cosa vuole insegnarci la storia che ci racconta?

La trilogia di “Io e il signor Oz” è intrattenimento. Non ha alcuna valenza pedagogica, non pretende di voler insegnare nulla. É intrattenimento per “giovani adulti” e “adulti” dove, come nelle migliori tradizioni, il bene vince sul male. Che poi il “bene” venga rappresentato da una squadra molto eterogenea, questo sí, è voluto. Come diversi romanzieri hanno mostrato le “mutevoli facce del male”, io ho mostrato come il bene non sia sempre rappresentato da cavalieri in scintillante armatura o da fredde e spietate amazzoni.

Perché il lettore dovrebbe leggere il suo libro?

Per staccare il cervello dalle vicissitudini quotidiane e per ritagliarsi degli attimi di quiete con una lettura di disimpegno. Per ricaricare le pile con dell’intrattenimento leggero ma non per questo banale.

Per finire, quali progetti per il futuro?

Si torna a scrivere di musica, si torna a “divulgare duro” e a “divulgare bene” con una monografia sul chitarrista jazz ungherese Gábor Szabó che uscirà, se Dio vuole, all’inizio del 2022. La narrativa verrà accantonata per un po’. Nonostante abbia in mente un soggetto valido per una nuova trilogia, bisogna valutare bene tutti quei fattori che entrano in gioco dopo che un romanzo viene stampato e pubblicato. Faccio riferimento alla promozione e alla distribuzione. É un discorso forse troppo ampio da affrontare in questa sede ma, sintetizzando, é necessario riflettere bene quanto possa essere “conveniente” continuare con la narrativa. Gli spazi di manovra di questo genere letterario si stanno facendo sempre più risicati. Almeno, nel campo della critica musicale e della divulgazione, riesco ancora a muovermi con una certa baldanza. Ribadisco: i problemi, oggigiorno, risiedono nella promozione e nella distribuzione, non nella realizzazione del “prodotto”. La produzione non è mai stata un problema. So che può essere brutto chiamare un’opera letteraria “prodotto” ma non posso dimenticarmi che noi scrittori di libri, noi “utenti dell’alfabeto”, non “campiamo” solo d’aria e di gloria. I nostri sono prodotti. Prodotti che si devono vendere. Non per diventare ricchi e famosi ma per vivere, sopravvivere e, soprattutto, per avere l’opportunità di scrivere nuovi libri.