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Vite Celebri, Fernando Pessoa e le sue varie “personalità”

Fernando Pessoa con le sue molteplici “personalità” è uno degli autori più importanti nel panorama letterario mondiale

Vi racconto sinteticamente (non basta una vita sola per parlarne) la vita e le opere di Fernando Pessoa, uno dei più importanti poeti e scrittori portoghesi del XX secolo, nonché uno dei maggiori esponenti della letteratura modernista.

Nato a Lisbona nel 1888, Pessoa trascorse gran parte della sua infanzia a Durban, in Sudafrica, dove il padre era console portoghese. Questa esperienza influenzò profondamente il suo lavoro, ispirando la sua visione cosmopolita e universale della vita. Tornato a Lisbona all’età di diciassette anni, Pessoa cominciò a lavorare come impiegato, dedicando il suo tempo libero alla scrittura. Nel 1915 fondò la rivista “Orpheu”, che rappresentò il culmine dell’avanguardia artistica portoghese dell’epoca e introdusse il modernismo nel paese.

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La produzione di Pessoa fu vasta e varia, includendo poesia, prosa, saggi, traduzioni e opere teatrali. Tra le sue opere più importanti si possono citare “Mensagem” (Messaggio), una raccolta di poesie che celebrano la storia e la cultura portoghese, e il romanzo “Il libro dell’inquietudine”, pubblicato postumo e considerato una delle sue opere più significative.

Fernando Pessoa morì il 30 novembre 1935, all’età di 47 anni, a causa di una cirrosi epatica. La malattia era stata causata da un consumo eccessivo di alcolici, che Pessoa aveva iniziato a bere in grandi quantità dopo la morte del padre avvenuta nel 1917 e che aveva continuato a bere per il resto della sua vita. Pessoa era stato ricoverato in ospedale poche settimane prima della sua morte, ma la sua condizione era già troppo avanzata per poter essere curata. Alla fine, morì in solitudine nella sua stanza d’albergo, senza parenti o amici presenti.

La morte di Pessoa fu un grave lutto per la cultura portoghese, poiché l’autore era già considerato una figura di grande importanza per la letteratura del suo paese. Tuttavia, il suo lavoro ha continuato a influenzare profondamente la letteratura portoghese e mondiale per molti decenni dopo la sua morte.

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Curiosità

Si narra che l’ultima frase che scrisse fu in inglese “I know not what tomorrow will bring”, ovvero “Non so cosa porterà il domani”, mentre tra le ultime parole pronunciate ci fu una richiesta “Dê-me os meus óculos!”, ovvero “Mi dia i miei occhiali” (Pessoa era miope). Inoltre:

  • Pessoa aveva una grande passione per l’occultismo e la magia, e si dedicava allo studio di queste materie in modo approfondito.
  • Pessoa aveva una grande abilità nel disegno e nella pittura, ma decise di abbandonare queste discipline per concentrarsi sulla scrittura.
  • Nel corso della sua vita, Pessoa scrisse più di 25.000 pagine di poesia e prosa, ma gran parte della sua opera rimase inedita fino alla sua morte.
  • Pessoa era un grande appassionato di lingue straniere e conosceva bene l’inglese, il francese, il tedesco, lo spagnolo e l’italiano, oltre al portoghese, sua lingua madre..
  • Pessoa amava camminare per Lisbona, la sua città natale, e spesso trascorreva ore a passeggiare per le strade della città, annotando le sue osservazioni in un taccuino.
  • Pessoa, come abbiamo già detto, era solito firmare le sue opere non solo con il suo nome, ma anche con gli pseudonimi dei suoi eteronimi.
  • In una lettera scritta all’amico e poeta Mário de Sá-Carneiro, Pessoa affermò di essere stato in grado di creare non solo i suoi eteronimi, ma anche le persone che li creavano, il che suggerisce una sorta di gioco mentale molto sofisticato.
  • Pessoa era un grande appassionato di calcio e seguiva con interesse la squadra del suo cuore, il Benfica Lisbona.

Gli Eteronimi

Gli eteronimi di Fernando Pessoa sono personalità letterarie create dall’autore stesso, ognuna con la propria voce, stile di scrittura e visione del mondo. Questi personaggi letterari sono spesso considerati come veri e propri individui autonomi, con biografie, opinioni e caratteristiche uniche.

Tra i più famosi eteronimi di Pessoa ci sono:

  • Alberto Caeiro: considerato il “maestro” degli altri eteronimi, Caeiro rappresenta la figura di un poeta rustico e naturalista, che celebra la bellezza della natura e la semplicità della vita. La sua poesia si caratterizza per la spontaneità, l’immaginazione e la sensibilità al mondo naturale.
  • Ricardo Reis: ispirato dalla filosofia stoica, Reis rappresenta una figura distante e razionale, che esplora temi come la mortalità, la fuga dal mondo e il desiderio di bellezza. La sua poesia si caratterizza per l’attenzione alla forma e alla tradizione classica, con una grande attenzione alla musicalità e alla metrica.
  • Álvaro de Campos: rappresenta una figura più moderna e cosmopolita, che esplora temi come l’angoscia esistenziale, la modernità e la tecnologia. La sua poesia si caratterizza per l’uso di immagini complesse e contrastanti, che riflettono la complessità del mondo moderno.
  • Bernardo Soares: questo eteronimo è un semi-eteronimo, poiché rappresenta un personaggio letterario che ha lo stesso nome dell’assistente di libreria che lavorava nello stesso edificio di Pessoa. Soares rappresenta una figura di sognatore solitario, che esplora temi come l’identità, l’inquietudine e la bellezza del mondo interiore. La sua prosa si caratterizza per la profondità emotiva e la riflessione sul significato dell’esistenza.

Questi e altri eteronimi di Pessoa rappresentano una sorta di mosaico di personalità letterarie, che riflettono la vastità e la complessità del mondo interiore dell’autore, e che hanno influenzato profondamente la letteratura portoghese e mondiale del XX secolo.

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Lo stile di Fernando Pessoa

Lo stile letterario di Fernando Pessoa è estremamente vario e sperimentale, riflettendo la sua natura poliedrica e cosmopolita. In generale, tuttavia, la sua scrittura si caratterizza per l’attenzione al dettaglio, la precisione formale e la profondità emotiva. Nella sua poesia, Pessoa utilizza spesso l’immaginazione e l’ironia per esplorare temi come l’identità, l’esistenza, l’amore e la morte. Le sue poesie sono caratterizzate da una forte musicalità, con una particolare attenzione alla metrica.

Nella prosa, invece, Pessoa si esprime in modo più frammentario e riflessivo, utilizzando spesso lo stile del saggio o del diario intimo. La sua prosa è caratterizzata da un’attenzione all’interiorità, alla sfera emotiva e alla complessità della vita interiore. Inoltre, l’uso degli eteronimi rappresenta una sorta di scissione della personalità dell’autore, ma sono allo stesso tempo completamente autonomi e indipendenti.

In generale, lo stile letterario di Fernando Pessoa è caratterizzato da una grande apertura alla sperimentazione e all’innovazione, ma anche da una profonda attenzione alla bellezza e alla complessità del mondo interiore dell’uomo.

Dantedì: tre libri imperdibili

In occasione del Dantedì, arrivano per voi tre suggerimenti di lettura per farvi immergere nel mondo di Dante

In occasione di questo secondo Dantedì, che coincide con i 700 anni della morte del Sommo Poeta, avrei voluto continuare il progetto intrapreso lo scorso anno (leggi qui l’articolo), ma varie ed eventuali non mi hanno permesso di dedicare molto tempo al progetto, quindi mi limito a segnalarvi tre letture che, secondo me, sono imperdibili.

Dante di Alessandro Barbero

Dante è l’uomo su cui, per la fama che lo accompagnava già in vita, sappiamo forse più cose che su qualunque altro uomo di quell’epoca, e che ci ha lasciato la sua testimonianza personale su cosa significava, allora, essere un giovane uomo innamorato o cosa si provava quando si saliva a cavallo per andare in battaglia.

L’Italia di Dante di Giulio Ferroni

Seguendo la traccia della Divina Commedia, e quasi ripetendone il percorso, Giulio Ferroni compie un vero e proprio viaggio all’interno della letteratura e della storia italiane: una mappa del nostro paese illuminata dai luoghi che Dante racconta in poesia. L’incontro con tanta bellezza, palese o nascosta, nelle città come in provincia, e insieme con tanti segni della violenza del passato e dei guasti del presente, è un modo per rileggere la parola di Dante in dialogo con l’attualità, ma anche per ritrovare in questi luoghi una ricchezza, storica e letteraria, che spesso fatichiamo a riconoscere anche là dove ci troviamo a vivere. Da nord a sud, dalla cerchia alpina alla punta estrema della Sicilia, da Firenze al Monferrato, da Montaperti a Verona, da Siena a Roma, Ravenna, Brindisi, si seguono con Dante i diversi volti di questo paese “dove ’l sì suona”, “serva Italia”, “bel paese”, “giardin dell’impero”: un percorso attraverso la storia, l’arte, la cultura, con quanto di essa luminosamente resiste e con ciò che la consuma e la insidia; ma anche un viaggio che riesce a restituirci, pur tra le fuggevoli immagini di uno smarrito presente, la profondità sempre nuova della nostra memoria.

Dante di Enrico Malato

Comparso per la prima volta nel 1995, come capitolo dantesco nel vol. I della Storia della letteratura italiana, rinnovato e riproposto come volume monografico nel 1999, questo profilo di Dante di Enrico Malato è diventato quasi un “classico” degli studi danteschi. Diffuso in varie migliaia di copie nelle tre edizioni Salerno, in molte decine di migliaia di copie nella edizione proposta dal «Corriere della sera» (2015), torna ora in una 4a edizione Salerno riveduta e aggiornata in vari punti e arricchita di una Postfazione che fa “il punto” sulla situazione degli studi danteschi agl’inizi del XXI secolo; mentre corrono due importanti Centenari: il Settecentocinquantenario della nascita di Dante (1265-2015), in vista del Settecentenario della morte (1321-2021).

Il progresso della ricerca ha in realtà portato alla scoperta e all’acquisizione di nuove tessere del messaggio poetico dantesco, che aggiungono fascino a una poesia che non conosce appannamenti da settecento anni: sempre catturante, suggestiva anche per questa sua capacità di svelare nuovi aspetti e toni rimasti ignoti ai precedenti lettori. Di qui l’interesse a un “aggiornamento” in continuo progredire, che dalle riviste scientifiche periodicamente viene trasferito nelle opere destinate al grande pubblico.

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#VITECELEBRI | Giovanni Boccaccio: gli anni della formazione

Il terzo appuntamento di #VITECELEBRI, l’iniziativa promossa in collaborazione con Mary di Babele Letteraria, prevede questo mese un focus su Giovanni Boccaccio. Anche in questo caso l’attenzione viene data ai primi anni della vita di questo autore, con la promessa di ritornarci in seguito per trattare un altro aspetto della sua vita.

La nascita e i primi anni di studio

Giovanni Boccaccio nacque nel 1313, ma non si conosce con precisione la data completa. Incerto è anche il luogo di nascita: Firenze o Certaldo. Suo padre, Boccaccino, era un mercante non sposato, che concepì Giovanni con una donna nubile di cui non possediamo ulteriori notizie. Quando Giovanni nacque, Firenze era una città prospera e potente in ambito mercantile, manifatturiero e finanziario. Suo padre riuscì ad acquisire posizione e, come si può immaginare, vedeva in Giovanni il suo successore. Infatti, Giovanni, dopo le scuole che noi definiamo elementari (condotte presso il Maestro Domenico Mazzuoli da Strada), si iscriverà alla scuola “d’abaco” o “di algoritmo”. Questa scuola era propedeutica alla professione dei futuri mercanti. Qui gli studenti apprendevano nozioni di carattere matematico-scientifico per l’ambito commerciale e imparavano a scrivere le lettere d’affari. Giovanni è indotto così a frequentare questa scuola su volontà del padre, così come più di una volta dichiarerà nei suoi scritti (anche se la teoria della costrizione è tutta da dimostrare), scelta che non gli avrebbe permesso di frequentare gli studi umanistici. Gli anni più importanti della sua formazione si svolsero a Napoli, essendosi trasferito con il padre a partire dal 1327 e restandoci fino al 1340. Comunque sia:

Frequentata contro voglia o seguita con partecipazione, questa scuola di impostazione pratico-scientifica ha lasciato un segno sul suo eclettico umanesimo, tanto è vero che nei primi scritti giovanili l’amore per l’erudizione storico-mitologica, l’aspirazione all’alta eloquenza, la pratica della letteratura e della poesia in volgare convivono con forti interessi scientifici, soprattutto astronomici. Va anche detto, però, che il non aver seguito studi regolari di latino ha pesato negativamente sulla sua padronanza di una lingua appresa da autodidatta.

Com’era Giovanni Boccaccio fisicamente e caratterialmente?

Il volto tondeggiante e paffuto che conosciamo di Boccaccio grazie ai numerosi dipinti che lo ritraggono ci danno l’idea di una persona pacata, sorridente, affabile. Invece, pare, che Boccaccio avesse quasi un caratteraccio. Marco Santagata usa questa espressione per definirlo: introverso, pieno di scrupoli, diffidente e, a quanto pare, molto permaloso. Sicuramente Boccaccio è stato un uomo estremamente curioso e dall’intelligenza viva.

Nel corso della sua vita è stato attratto dai più disparati ambiti del sapere e, come scrittore, ha sperimentato un gran numero di generi letterari; è stato un uomo di corte, mercante, amministratore del Comune; si è adoperato a diffondere la letteratura in volgare ed è stato parte attiva di elitari circoli umanistici. A tanta apertura e disponibilità si accompagna una straordinaria capacità di recepire, assorbire, introiettare: anche grazie a questa disposizione innata è diventato il più polivalente e sperimentare scrittore del suo secolo.

Ritornando al fisico tondeggiante, pare fosse una caratteristica costante nella vita di Boccaccio. Fu, infatti, di massiccia corporatura e tendente all’obesità. Quest’ultima, nell’ultimo decennio della sua vita fu un vero problema, che gli aggravava gli aspetti più spigolosi del carattere. L’obesità, divenuta probabilmente una vera e propria patologia, gli creò problemi vari tra cui la limitazione negli spostamenti e nei movimenti.

Fu piuttosto grasso, ma di alta statura, la faccia rotonda, il naso un po’ schiacciato sopra le narici, le labbra alquanto turgide, ma piacevolmente delineate.

Gli studi di Diritto

Come abbiamo detto, Boccaccio fino a quel momento si era dedicato all’arte mercantile, ma chiaramente non gli era congeniale e ben presto se ne rese conto anche il padre. Il 1334 è una data fondamentale, poiché sancisce l’uscita di Giovanni dal mondo della mercanzia per intraprendere un nuovo percorso. Boccaccino pensò sempre a qualcosa di pratico e remunerativo, quindi indirizza il figlio agli studi di diritto canonico, che Boccaccio seguirà prendendo il titolo di chierico, ma mai di canonico (anche la vicenda ecclesiastica di Boccaccio non è del tutto chiara). Un dato certo è questo passaggio di status e la data del 1334-35 come lo spartiacque per Boccaccio. È in questo periodo, infatti, che ha inizio la vera e propria formazione per Boccaccio, processo che lo trasformerà in letterato e scrittore in lingua volgare.

In sostanza, fra il 1334 e il 1335 comincia a delinearsi un’evoluzione (testimoniata anche dalla Caccia di Diana) caratterizzata dal passaggio da un’impostazione scientifico-erudita a una maggiore attenzione per gli aspetti letterari e retorici.

Curiosità

Per tutta la vita Boccaccio scrisse, ma non solo nel senso di autore di opere letterarie, ma nel senso di “copista” di opere altrui e proprie. Ha ricopiato per tre volte la Divina Commedia e in vecchiaia le sue opere. Rispetto a Petrarca non aveva risorse economiche tali da poter usufruire di servigi di copisti di professione, e quindi faceva da sè. Tuttavia quella di Boccaccio non è solo una esigenza materiale, ma il suo copiare è quasi un’azione compulsiva; è come se avesse il bisogno di scrivere. Scriveva e ricopiava con la stessa intensità con cui leggeva, essendo un lettore onnivoro.

Il libro di riferimento consultato per questo articolo è Boccaccio. Fragilità di un genio di Marco Santagata, edito Mondadori.

Dantedì | La vita nuova, una lettura breve dell’opera di Dante Alighieri

In occasione del Dantedì, questa giornata interamente dedicata al nostro Sommo Poeta, riprendo, insieme a Babele Letteraria, il primo appuntamento di Vite Celebri, che era proprio dedicato a Dante Alighieri (clicca qui per leggere l’articolo)  Questa volta, però, vi parlo di una delle sue opere: La vita nuova.

La vita nuova rappresenta, nel percorso poetico di Dante, un momento di maturazione e di svolta; è come se quest’opera mettesse il punto al termine di un itinerario poetico, quello cortese, vincolato a canoni ben precisi e talmente forti da influenzare la produzione letteraria sia in Provenza che in Italia.

La vita nuova fu composta tra la fine del 1292 e l’inizio del 1293 (per alcuni 1294) e racchiude una passione d’amore ideale, quella di Dante per Beatrice. Scrive a tal proposito Natalino Sapegno:

(La vita nuova) rappresenta il tentativo di sistemazione di una materia autobiografica trasferita su un piano tipico e simbolico, secondo uno schema che rimarrà fondamentale nella poesia di Dante fino alla Commedia.

L’opera ha una struttura particolare; essendo composta da componimenti in versi e da parti in prosa, viene definito “prosimetro”, un genere medievale appunto composto da versi e prosa. Nel caso particolare La vita nuova è composta di trentuno componimenti poetici, tra sonetti, ballare, stanze di canzone e ballate, collegati tra loro da un testo narrativo per un totale di quarantadue capitoli. Il titolo deriva dal brano di esordio dell’opera in cui Dante inizia la narrazione del suo amore per Beatrice, raccontando del primo incontro avvenuto all’età di nove anni. Dopo altri nove anni l’incontro si ripete e questa volta Beatrice  rivolge un saluto a Dante, inducendolo a comporre il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core.

Non mancano, ovviamente, gli elementi tipici della poetica cortese, come la donna schermo, che serve a Dante per celare la sua “passione” per Beatrice o il turbamento per la privazione del suo saluto, il quale genera salvezza, e ancora il tòpos del “gabbo” tipico anche questo della letteratura cortese. Proprio l’episodio del gabbo serve a Dante a svoltare su una strada nuova, soprattutto per quanto riguarda i temi e il modo di poetare, volto solo alla lode di Beatrice.

La vita nuova di Dante è per me un’opera eccezionale, che tutti dovrebbero leggere anche solo per l’esperienza che racconta. Al di là dei modelli letterari e gli autori a cui Dante si è ispirato (tra cui Boezio, Cicerone, Brunetto Latini), quest’opera ci mostra il genio di un uomo il cui poetare se pur lontano nel tempo, risulta fresco e attuale.

Vite celebri: Francesco Petrarca, dalla nascita all’incoronazione poetica

Per l’iniziativa Vite Celebri, che sto curando con Mary Marzocchi di Babele Letteraria, vi parlo questo mese di Francesco Petrarca. La vita di Petrarca è ricostruibile a partire dai dati che il poeta ha disseminato nelle sue opere, ma quale ritratto Petrarca ci ha lasciato di sé?

Così scrive Marco Ariani nel suo libro Petrarca, edito da Salerno Editrice:

In fondo, tutta l’autobiografia, così come Petrarca ce l’ha voluta trasmettere, potrebbe essere una grande menzogna, o almeno l’interessata combinazione degli eventi potrebbe essere l’esito di una grande impostura: il cardine stesso della biografia esemplare, Laura, potrebbe essere soltanto un fantasma letterario (…). Ma questa diagnosi potrebbe essere indotta da una sorta di pregiudizio biografico di matrice romantica: in fondo il merito di Petrarca è stato proprio quello di inventare la letteratura come vita e la vita come letteratura, di confonderne volutamente i confini per un’idea modernissima di auctor demiurgo, onnisciente artefice del ludus letterario che prevede, per statuto, un’impalcatura autobiografica ricostruita per i posteri perché è quella l’immagine che l’auctor ha di se stesso, il proprio mito personale, fondante l’atto stesso della scrittura.

La menzogna di Petrarca è dunque funzionale alla sua poetica: per lui la letteratura non era diversa da un certo modo di vivere e di porsi nei confronti del proprio tempo e aveva acquisito, in gran parte per merito suo, una vera e propria funzione fondante dell’esistenza. Proprio per questo, rispetto a Dante, di Petrarca conosciamo quasi tutto, ma vediamo meglio da vicino la sua vita dalla nascita fino a l’incoronazione poetica.

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio 1304 in una casa situata in vicolo dell’Orto. La madre si chiamava Eletta Canigiani, suo padre invece era Piero. La sua famiglia non era ricchissima, ma a Firenze il padre aveva raggiunto una certa fama come notaio. Le cose cambiarono quando ser Pietro fu colpito dall’inimicizia della famiglia dei banchieri Franzesi. Iniziò così una parabola discendente, che culminò con la condanna al taglio della mano destra per Pietro. Quest’ultimo riuscì a scappare nella sua città d’origine, Arezzo, iniziando una vita da esiliato. Ad Arezzo nasce quindi Francesco sotto il segno dell’esilio. Nel 1309 Pietro, o meglio ser Petracco, ottenne l’assoluzione, ma non volle mai rientrare a Firenze. Esercitò la sua professione in varie città: Padova, Pisa e anche Avignone, dove ricevette la protezione del Cardinale Niccolò da Prato, impegnato nella nuova sede papale. Nella vicina Carpentras, dove vivevano, Petrarca è introdotto agli studi di grammatica, dialettica e retorica, ed è qui che incontra colui che sarà il suo più grande amico, ovvero Guido Sette, poi arcivescovo di Genova. Sono anni felici per Francesco, ma questa quiete si incrina quando è indotto dal padre a intraprendere gli studi giuridici a Montpellier. Questo tempo è ricordato da Francesco come un tempo “male impiegato” per apprendere un mestiere che definì venale mercimonium.

Nel 1318, forse 1319, morì la madre di Francesco e in questa occasione compose il suo primo componimento poetico in latino, Breve pangerycum defuncte matris. Nel 1320 è a Bologna per completare i suoi studi giuridici, dove metterà le basi della sua formazione intellettuale. I tumulti che scoppiarono a Bologna lo costringeranno ad un nuovo peregrinare per le maggiori città italiane, facendo ritorno anche ad Avignone. Nel frattempo entra a servizio di Giacomo Colonna e grazie allo stipendio che percepisce, dopo la morte del padre si dedicherà solo alla letteratura e alla filosofia, abbandonando gli studi universitari e dandosi alla sfrenata adulescentia, fatta comunque anche di studio e lavoro. Il 6 aprile del 1327 avviene il fatidico incontro ad Avignone, nella chiesa di Santa Chiara, con Laura, la donna di cui Petrarca ci ha lasciato solo un ritratto appena realistico. Per molti, anche coetanei di Petrarca, Laura non è mai esistita ed è solo un esercizio letterario. Presi gli Ordini minori, Francesco ritorna al servizio del cardinale Giovanni Colonna e ottiene la possibilità di viaggiare in Europa, dove, preso dalla smania di recuperare classici introvabili per ingrandire la sua biblioteca: “Petrarca inventa la figura tipica del secolo successivo, quella dell’umanista sempre in viaggio alla ricerca dei testi perduti, accanito collezionista di libri, che divengono per lui il tesoro più caro e gelosamente difeso”.

Nel 1337 si trasferisce a Valchiusa, che trasforma in una piccola Arcadia, dove si dedica interamente alla vita letteraria. Per due anni viaggia ancora e si reca dal cardinale Colonna, per poi ritirarsi a Valchiusa per i suoi studi. Nel 1340 riceve la famosa incoronazione poetica a Roma:

Nel 1340 riceve contemporaneamente, da Parigi (…) e da Roma, l’offerta dell’incoronazione poetica (…). La scelta di Roma corrisponde a una precisa strategia culturale: far coincidere la gloria letteraria con la missione civile del letterato. Era stato lo stesso Petrarca a mettere in moto il meccanismo (..) che lo avrebbe portato a rifondare una cerimonia che lui credeva essere emblematica dell’Antichità. Certo il privilegio toccava, del tutto straordinariamente, ad un poeta che ancora non aveva pubblicato molto per meritarselo: ma la protezione dei potenti Colonna e la rete di estimatori che aveva saputo intessere per tempo sono evidentemente bastate a valorizzare al massimo le epistole metriche in circolazione, la fama dell’Africa e del De viris.

Nel 1341 si reca a Napoli per essere esaminato dal re Roberto, che lo interroga su Livio e su Virgilio. L’esito positivo di questa interrogazione portò Virgilio ad essere incoronato direttamente in Campidoglio. Gli anni che seguirono videro Petrarca impegnato sia dal punto di vista civile e politico che letterario, ma del Petrarca politico e delle sue opere parleremo in un altro momento. La vita di Petrarca continua così tra impegno politico e letterario e tra numerosi viaggi. Morirà colpito da un attacco apoplettico ad Arquà nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, lasciandoci un immenso patrimonio culturale.

Vite Celebri | Dante Alighieri, gli anni della giovinezza.

L’articolo di oggi nasce da un’iniziativa promossa da me e da Mary Marzocchi di Babele letteraria. Con questa iniziativa, denominata Vite celebri, intendiamo parlare della vita di autori celebri che abbiamo studiato nel corso degli anni, ma che non trovano sempre spazio e visibilità nei blog e sui social. Abbiamo deciso così di iniziare dalla triade dei Poeti per eccellenza: Dante, Petrarca e Boccaccio. Questo mese di gennaio era dedicato a Dante Alighieri. In questo articolo ve ne parlerò in maniera parziale e sintetica, perché parlare di Dante in un solo articolo mi sembra alquanto riduttivo, quindi ho deciso di scrivere solo degli anni della giovinezza e della formazione e vi do già appuntamento al 25 marzo che è stato indicato come il Dantedì, cioè il giorno in cui celebreremo la figura del Sommo Poeta.

Dante nacque in un giorno compreso tra il 14 maggio e il 13 giugno del 1265 nella casa degli Alighieri, che probabilmente si trovava nel popolo di San Martino del Vescovo, presso il Mercato Vecchio, di fronte alla Torre della Castagna. Dante stesso ci dice nella Commedia e precisamente nel canto XXII del Paradiso, versi 112-17, che quando nacque il sole si trovava della costellazione dei gemelli. Il 26 marzo 1266 Dante viene battezzato in una cerimonia pubblica nel Battistero di Firenze, insieme con tutti i bambini che erano nati nell’ultimo anno, così come era usanza a Firenze.

Gli fu imposto il nome Durante, ma il nostro protagonista assumerà definitivamente il nome di Dante che è un ipocorismo di Durante. Proveniva da una famiglia di piccola nobiltà cittadina e a questo e a tutti gli altri elementi relativi all’infanzia e alla giovinezza Dante fa riferimento spesso nelle sue opere, offrendoci così indicazioni e conferme relative ai suoi dati biografici, che sono alquanto scarsi e in qualche caso anche contraddittori. Sappiamo che perse i genitori molto presto, ma pare che questo evento non ebbe delle conseguenze di rilievo nella sua vita. Il padre, come il nonno Bellincione, aveva vissuto forse grazie alle operazioni finanziarie e a prestiti, probabilmente anche di usura, alla compravendita di terreni e case e deve aver lasciato i figli in buone condizioni economiche, ma questa attività non fa risultare la famiglia Alighieri tra le famiglie magnatizie della città, anzi, come allude Dante stesso, probabilmente la famiglia in precedenza poteva vantare un certo prestigio aristocratico, che però poi col tempo è decaduto assumendo così la posizione di modesta famiglia medio borghese. Gli Alighieri, infatti, non risulteranno mai coinvolti negli scontri tra Guelfi e Ghibellini, mentre i continui e numerosi mutui stipulati da Dante e dal fratello Francesco ci fanno pensare che la situazione economica nel tempo si andasse sempre più logorando.

Poco sappiamo dell’infanzia e dell’adolescenza del poeta. È probabile che ebbe nei primi anni un Doctor puerorum, un insegnante per fanciulli, iniziando così a prendere confidenza con la scrittura volgare per poi passare allo studio del latino, la lingua della scienza, come ricorda lui stesso nel Convivio.

In questi anni giovanili avvengono due avvenimenti biografici molto importanti per Dante. Il primo è l’incontro fatidico con Beatrice. Dante aveva più o meno 9 anni e l’incontro avvenne forse nel maggio del 1274, incontro di cui Dante stesso ci parla della Vita nuova. Il secondo è la stipula di un contratto di matrimonio con Gemma di Manetto Donati, appartenente a un ramo minore della potente famiglia patrizia di Corso e Forese Donati. La stipula risale al 9 febbraio del 1277 e dal legame con Gemma Donati, Dante avrà tre figli: Pietro, Jacopo e Antonia (quest’ultima diventerà suora con il nome di Beatrice). Forse ci furono altri figli, un Giovanni e un Gabriello, ma non se ne ha la certezza. Il matrimonio fu perfezionato solamente nel 1285. Il matrimonio con Gemma Donati non ha impedito a Dante, quando incontra di nuovo, dopo 9 anni, Beatrice, che il suo cuore non venisse dominato dalla donna. Questa esperienza colpisce in maniera molto profonda la vita del giovane, segnandolo anche nel pensiero e nella poetica. Non c’è da dubitare quindi che la figura di Beatrice sia realmente esistita e che non sia solamente un espediente letterario, un senhal poetico di derivazione stilnovistica, ma è quasi certo che la Beatrice di Dante fosse Bice, figlia di Folco Portinari, nobile e ricco cittadino fiorentino, che andò in sposa a Simone de’ Bardi. Beatrice morirà più o meno all’età di 24 anni, il 19 giugno del 1290.

Mentre si andavano maturando queste esperienze personali, Dante approfondirà gli studi probabilmente nelle scuole laiche fiorentine, frequentando al tempo stesso i giovani intellettuali e rimatori della città ed esercitandosi così nello studio e nella preparazione della rima, come dichiarerà poi nella Vita nuovaper sé medesimo dell’arte del dire parole per rima”. Poco più che diciottenne, Dante scrisse un sonetto inviato poi a Guido Cavalcanti e pare che da quel momento tra i due si instaurò un legame sia di amicizia che intellettuale, tant’è che Dante gli dedicherà la sua prima importante opera, la Vita nuova.

In questi anni Dante pare si impegnò nell’arte del disegno, frequentando alcuni artisti del tempo come Giotto e Oderisi da Gubbio e probabilmente anche Cimabue. Frequenta i circoli musicali della città, come dimostra la sua amicizia per Casella e il liutaio Belacqua, ricordati tutti nella Commedia. Intanto studiava anche le lingue d’oc e d’oïl in uso negli ambienti mercanti fiorentini e insieme alla grammatica anche la cultura e la letteratura di queste lingue. Probabilmente ebbe come maestro Brunetto Latini, non come maestro costante, ma da come si deduce dalle parole di Dante stesso nell’Inferno, fu maestro “di tanto in tanto”. La loro quindi fu una frequentazione saltuaria. Da altre testimonianze, provenienti da Dante da Maiano e da Boccaccio desumiamo un viaggio a Parigi di cui però non si hanno tracce certe ed un viaggio a Bologna, dove probabilmente Dante compose il sonetto detto della Garisenda.

In questi anni della giovinezza non si hanno notizie certe di un interessamento diretto di Dante alla vita politica della città. Sicuramente fu testimone degli eventi politici principali della città e ebbe la possibilità di conoscere i personaggi più rilevanti di quel periodo. Dalle tracce che ci ha lasciato nella Commedia, probabilmente Dante fu protagonista di alcune spedizioni militari; forse nell’autunno del 1285 prese parte ad una serie di spedizioni militari tra le quali ricordiamo la famosa battaglia di Campaldino, in cui Dante partecipò tra i feditori a cavallo. Nonostante ciò, tutto lascia pensare che l’esperienza militare di Dante fosse solo un episodio effimero della sua esistenza, perché si va rafforzando sempre più in lui il desiderio di far parte del mondo dei letterati e dei filosofi.  La morte di Beatrice, avvenuta nel 1290, provoca in Dante un profondo turbamento e non riuscendo a trovare sostegno nemmeno delle parole affettuose degli amici, il poeta si immerge nella lettura delle opere filosofiche. In particolare, sceglie Cicerone, probabilmente su consiglio di Brunetto Latini. Ed è qui che nasce in Dante l’amore profondo per la filosofia.

Nel Convivio Dante scrive “E da questo immaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole de li religiosi e a le disputazioni de lì filosofanti”. In questa dichiarazione noi riconosciamo la frequentazione delle tre scuole di filosofia fiorentine: quella di Santa Maria Novella presso il convento domenicano; quella di Santa Croce presso quello francescano e quella di Santo Spirito presso gli agostiniani. Qui si tenevano corsi per laici che Dante avrebbe frequentato tra la fine nel 1291 e il 1294-’95. Di questi tre conventi, Santa Maria Novella aveva carattere di Studium in theologia, piuttosto che in philosophia, famoso per gli studi su Alberto Magno e su Tommaso d’Aquino, che vi avevano soggiornato le 1272, e per la ricca biblioteca in cui certo non mancavano le opere di Aristotele e di Pietro Lombardo, di Alberto e di Tommaso, che ritroveremo poi nel bagaglio culturale di Dante. Ed è a questi anni che si può circoscrivere lo smarrimento che poi ritroveremo descritto in forma allegorica nella “selva oscura”, una sorta di crisi spirituale del poeta o, meglio, una profonda meditazione, una tormentosa riflessione introspettiva, che orienterà le scelte successive di vita e di scrittura del poeta. Collegata a questa crisi, potrebbe esserci anche la crisi che ad un certo punto esplode nei rapporti personali con Guido Cavalcanti. Tra la metà è la fine dell’ultimo decennio del secolo, la vita di Dante cambia. Se fino ad allora era rimasta privata e non apertamente legata alla vita politica della città, qualcosa succede e Dante diventa un personaggio pubblico e politico, con gli esiti negativi che conosciamo bene, ma sulla vicenda politica di Dante, vi rimando ad un nuovo appuntamento.

Il libro di riferimento è Dante di Enrico Malato, Salerno Editrice.

#INVIAGGIOCONUNLIBRO | Il mercante di Venezia di Shakespeare

La tappa di giugno di #inviaggioconunlibro prevedeva la lettura di un’opera teatrale inglese ed io ho letto Il mercante di Venezia di William Shakespeare.

Il mercante di Venezia è un’opera in cinque atti che fu composta, probabilmente, tra il 1596 e il 1598. Non è certa la datazione, ma alcuni riferimenti interni al testo, come la citazione della nave St. Andrew, che fu catturata dagli inglesi a Cadice nel 1596, permettono di individuare una forbice temporale in cui ascrivere la stesura del testo, che comunque non va oltre il 22 luglio 1598, data in cui fu registrata da James Roberts nel Register of the Stationers Company un’opera dal titolo The Merchant of Venice.

Come abbiamo detto, l’opera è suddivisa in cinque atti e comprende due trame che si incrociano. Da un lato si sviluppa la vicenda complicata di Antonio, il quale per aiutare l’amico Bassanio, si ritrova a dover affrontare un processo per una cambiale non onorata all’ebreo Shylock, il quale pretende per odio e invidia, di tagliare dal petto di Antonio una libbra di carne. Dall’altro lato, invece, si sviluppa la vicenda che vede la bella Porzia costretta a fronteggiare uno stuolo di pretendenti, ma uno soltanto è destinato a diventare suo marito e sarà colui che dei tre scrigni che gli si propongono, aprirà quello contenente l’immagine della donna.

Non è facile parlare di tutti gli aspetti essenziali di quest’opera, ma vorrei porre l’attenzione su due particolari. Il primo aspetto da notare riguarda una novità nel teatro e nell’opera shakespeariana. Mentre nel teatro inglese dell’epoca e nella commedia in particolare ad una vicenda principale se ne accostava un’altra secondaria, ora le due vicende sono entrambe principali e addirittura si intrecciano, risultando i personaggi coinvolti nella seconda fondamentali per la risoluzione del dramma.

Un altro aspetto interessante è legato al personaggio di Shylock, l’usuraio ebreo, che risulta essere l’emblema del negativo. Gli ebrei all’epoca non erano ben visti in Inghilterra e nel 1290 furono addirittura banditi dal paese tutti gli ebrei inglesi, che vi poterono ritornare solo nel 1656. L’ebreo quindi diviene un personaggio fisso su cui viene caricato ogni aspetto negativo e ad ispirare il personaggio di Shylock fu proprio un’ondata antisemita, che si diffuse in Inghilterra dopo la condanna a morte di Roderigo Lopez, ebreo portoghese convertito e medico personale di Elisabetta I, accusato di aver attentato alla vita della regina.

Questa vicenda ispirò l’opera di Marlowe (1589) L’Ebreo di Malta, che Shakespeare sicuramente conosceva. Anche se le due opere presentano differenze sostanziali, è innegabile che l’opera di Shakespeare si ponga su quella scia e che risenta di quella tendenza antisemita. C’è da aggiungere però che le recenti interpretazioni critiche leggono Shylock in positivo. Essendo l’opera una commedia in cui il tono usato, soprattutto nei confronti della giustizia, è abbastanza canzonatorio, non si esclude che il drammaturgo inglese abbia volutamente calcato la mano, creando, invece, un personaggio che in realtà suscita pietà e compassione. Questo sarebbe avvalorato dalla condizione sociale di Shylock e dalla battuta che pronuncia nelle prima scenda del terzo atto:

Egli m’ha vilipeso in tutti i modi, e una volta m’ha impedito di concludere un affare per un milione.
Ha goduto per le mie perdite e ha dileggiato i miei guadagni,
ha disprezzato la mia razza, ha intralciato i miei buoni affari,
ha allontanato da me i miei buoni amici e mi ha aizzato contro i nemici!
E tutto questo per quale ragione? Perché sono ebreo! E dunque?
Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni?
Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano?
Non viene ferito forse dalle stesse armi?
Non è soggetto alle sue stesse malattie?
Non è curato e guarito dagli stessi rimedi?
E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano?
Se ci pungete non versiamo sangue, forse?
E se ci fate il solletico non ci mettiamo forse a ridere?
Se ci avvelenate, non moriamo?
E se ci usate torto non cercheremo di rifarci con la vendetta?
Se siamo uguali a voi in tutto il resto, dovremo rassomigliarvi anche in questo.
Se un ebreo fa un torto a un cristiano, a che si riduce la mansuetudine di costui? Nella vendetta.
E se un cristiano fa un torto a un ebreo quale esempio di sopportazione gli offre il cristiano? La vendetta.
La stessa malvagità che voi ci insegnate sarà da me praticata,
e non sarà certo difficile che io riesca persino ad andare oltre l’insegnamento.

Insomma, si tratta di un personaggio molto complesso e che solo il genio di Shakespeare ha saputo concepire.

Le ‘illusioni perdute’ di Lucien de Rubempré

Le Illusioni perdute è un romanzo di Honoré de Balzac, pubblicato in tre parti (I due poeti; Un grande uomo di provincia; Eva e David) tra il 1837 e il 1843.

Dedicato a Victor Hugo, fa parte di quella che in un primo momento doveva chiamarsi “Studi Sociali”, ma che poi prende il nome ben più evocativo di Commedia umana, ovvero una raccolta di 137 opere di vario genere, che Barzac scrisse a partire dal 1835. Con la Commedia umana Balzac compie una grandissima operazione letteraria che lo portò ad intrecciare personaggi e vicende. Un esempio di questa modalità di scrittura è proprio Le illusioni perdute, che comprende tre parti, scritte in tempi diversi e collegate tra loro.

Honoré de Balzac

Ma di cosa parla questo romanzo? La vicenda si svolge durante il periodo storico della Restaurazione francese, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, e racconta del fallimento esistenziale di Lucien Chardon, giovane provinciale alla ricerca di amore e gloria. Per tentare l’ascesa nell’alta società Lucien sceglierà di usare il cognome della madre, de Rubempré, ma questo non basterà a fargli fare fortuna. Lucien si innamora, apparentemente riamato, della coltissima e nobile Madame de Bargeton, con la quale, agli inizi del secondo romanzo, medita una fuga a Parigi. Ben presto però emergono le differenze sociali, culturali ed economiche tra i due, così la perde e di seguito incappa in situazioni in ambito letterario e giornalistico che si riveleranno disastrose. Ritornerà al suo paese natale, dopo la morte improvvisa di Coralie, la donna di cui nel frattempo si è innamorato. Ad Angoulême le cose procedono sempre più nella direzione sbagliata, tant’è che ad un certo punto Lucien pensa al suicidio.

Lucien e Madame de Bargeton (fonte Wikipedia)

Insomma, quella di Lucien è una esistenza già segnata dal titolo della raccolta. Balzac con Lucien ci racconta la debolezza dell’uomo di provincia, di un uomo che aspira a grandi cose, ma non possiede i mezzi economici e culturali per poter fare il salto di qualità. Le sue ambizioni, all’inizio grandi, si mostreranno per quelle che sono, ovvero delle vane illusioni.

Altro personaggio importante nella vicenda è David Séchard, amico fraterno di Lucien di cui sposa la sorella Eva. David è un bel ragazzo e ha ambizioni da letterato. Suo padre, un vecchio avaro gli vende la propria attività a condizioni molto sfavorevoli; David, per incapacità, si trova ben presto sull’orlo della rovina. L’illusione di David è quella di cercare un metodo segreto per la produzione di carta a basso costo e nel contempo di miglior qualità. David riuscirà a trovare la “formula magica”, ma la concorrenza gli sottrae il brevetto e lo manda alla rovina. Finirà in carcere. Questo episodio spingerà Lucien al suicidio, ma un personaggio curioso, un misterioso sacerdote spagnolo di nome Carlos Herrera, gli impedisce di farlo, salvandogli così la vita. Inoltre offre a Lucien un’ampia disponibilità economica, insieme al successo e alla vendetta che questi desidera, a patto che gli ubbidisca ciecamente e senza mai discutere. Questo è un altro personaggio ricorrente nelle opere di Balzac e non è altro che l’avventuriero Vautrin, plasmato su una persona realmente esistita, ovvero il criminale francese Vidocq.

Lucien e David (fonte Wikipedia)

Le Illusioni perdute, ma l’intera Commedia umana, sono la migliore lettura che uno scrittore abbia potuto fare della Francia del XIX secolo. Balzac, nonostante la critica non sempre sia stata benevola con lui, è un acuto osservatore dei vizi, delle virtù, dei desideri della sua società. Ogni personaggio descrive un modello che lui trae dal mondo che lo circonda. Vautrin, ad esempio, è l’emblema del negativo, è tutto ciò che di corrotto e di criminale c’è nella società borghese. Balzac sa osservare anche le dinamiche sociali ed economiche della società in cui vive. La vicenda di David serve a Balzac per denunciare i meccanismi connessi alla nuova industria tipografica, come la crescente richiesta di carta o la necessità della innovazione tecnologica e chimica.

Balzac sa guardare il mondo con il microscopio e sa occultarlo con estrema maestria nelle sue storie. Molti lo hanno accusato di essere uno scrittore piatto, banale, costretto a scrivere per vivere, eppure Balzac, senza forzature, ci fa conoscere quella sua contemporaneità in una maniera così naturale che solo un grande scrittore può fare.

La “fanciulla” vinta raccontata da Matilde Serao

Il romanzo della fanciulla di Matilde Serao, edito da Artetetra Edizioni, è una raccolta di cinque novelle che la Serao pubblicò a partire dal 1884 su Nuova Antologia e poi raccolte  in un unico volume.

Protagoniste di questa storia sono le donne, giovani di varia estrazione sociale o dalla posizione economica precaria. In generale le opere della Serao sono caratterizzate dal protagonismo femminile e ci mostrano dinamiche sociali della piccola e media borghesia, con il suo tratto ideologico e morale, di una Napoli di fine ‘800. Quest’opera, in particolare, ci offre l’opportunità di capire anche il pensiero dell’autrice. Nella prefazione a questa nuova edizione, Nadia Verdile non lascia dubbi per qualsiasi altra interpretazione:

Matilde Serao scrisse di donne, per le donne e da donna, di loro raccontò i lavori, le idee, gli amori, le speranze e le disillusioni. Non fu, nè mai volle essere, femminista. Anzi, avversò idee e protagoniste di questo movimento nè mai volle sostenere le battaglie per il voto, per l’impegno politico e per il divorzio. Né da giovane né quando l’età matura e le esperienze sul campo avrebbero potuto offrirle nuovi possibili punti di vista. Era un ossimoro Donna Matilde, paladina degli ultimi, cronista lucida e appassionata, penna d’acciaio, pensiero di lava, nemica dell’emancipazionismo. Moderata, monarchica, borghese eppure tanto dentro le storie, le vite, gli umori degli universi umani più poveri, abbandonati, sfruttati.

Le cinque novelle di questa raccolta furono concepite fin dal principio come una serie organica ben equilibrata e nella sua prefazione la Serao scrive:

Vi do delle novelle senza protagonisti, o meglio, dove tutti sono protagonisti (…). Ho fatto delle novelle corali, ove il movimento viene tutto dalla massa, ove l’anima è nella moltitudine.

La coralità, come nel romanzo verghiano, è elemento fondamentale in questo libro, poiché permette di inquadrare le donne negli ambiti borghesi cittadini e provinciali e di far risaltare al tempo stesso la molteplicità dei tipi, la varietà di atteggiamenti, riflessioni intorno alla vita, ai destini e alle aspirazioni. Così si comprende il motivo per cui il sostantivo “fanciulla” è usato al singolare: la Serao fa riferimento ad una categoria ben precisa, ovvero le giovani donne in attesa del matrimonio.

Anche in questo c’è una corrispondenza con Verga. Le sue protagoniste sono delle “vinte”, donne che lottano per la vita, la cui unica occasione di riscatto è il matrimonio. La smania di queste fanciulle è quella di sistemarsi economicamente al fine di contrastare gli effetti di un destino durissimo. Questa è una lotta dura, ma intima e silenziosa. Esse celano al mondo il proprio reale desiderio e ciò le consente di nascondere anche debolezze e frustrazioni, ma queste piccole astuzie, insieme alla pazienza, sono anche punti di forza, che le permettono di continuare la loro battaglia.

Matilde Serao

La donna che ci presenta la Serao però non è una seduttrice, è tutt’altro, è pienamente una vinta nel momento in cui non sposandosi indossa la veste monacale. E se non diventa monaca, ricopre il ruolo di zitella, la vinta per eccellenza. Anche se nella zitella si intravede una sorta di magra consolazione, che consiste in una certa libertà di azione, in lei non c’è corrispondenza con l’emancipazione della donna, ma acquisisce il sapore amaro della sconfitta.

Fluttuano, le fanciulle seraiane, nelle onde agitate delle convenzioni, assalite dal bisogno di essere, sopravvivere o apparire. Sono quasi tutte vittime di un tempo e di una cultura misogina alla quale sfugge, non a caso, Caterina Borrelli, ovvero Matilde, che non cede, che osserva, che valuta, ride, sogghigna, consola, si allontana.

La storia editoriale di F. Scott Fitzgerald in Italia nel saggio di Antonio Merola

Nasce oggi una nuova sezione del blog dedicata ai saggi. In questo spazio prenderanno posto recensioni di saggi e libri di varia natura: studi storici o di carattere letterario, biografie, ma anche libri di ambito sociologico e antropologico.

Sono felice di partire con un testo dedicato ad uno scrittore americano: F. Scott Fitzgerald.

Il saggio in questione si intitola F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Giuliano Landolfi Editore, 2018) ed è stato scritto da Antonio Merola.

Si compone di tre sezioni in cui l’autore si sofferma sulla vicenda interpretativa di Fitzgerald in Italia. Lo scrittore americano, autore de Il Grande Gatsby, non ebbe grande fortuna di critica in Italia. Ad occuparsene furono grandi firme e personalità della cultura italiana come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Eugenio Montale, Fernanda Pivano per citarne solo alcuni, ma la vicenda editoriale di Fitzgerald in Italia è molto complessa e tra errori o sviste di traduzione e interpretazione non gli fu attribuito da subito il giusto merito.

F. Scott Fitzgerald

Antonio Merola, minuziosamente analizza e ricostruisce il percorso interpretativo di uno scrittore importante per la cultura americana, ma che viene definito, parafrasando Elio Vittorini, eccentrico e frivolo.

Lo stesso Vittorini sembra quasi totalmente disinteressato a Fitzgerald. Sarà Fernanda Pivano, ci informa sempre Merola, a leggerlo in maniera totalmente differente. La Pivano sarà, infatti, la prima persona a comprendere la profondità dell’opera dello scrittore americano, che non può essere letta ignorando il dato biografico. Infatti non va ignorata, ad esempio, la moglie Zelda, la quale influenzerà in maniera sostanziosa la produzione artistica dello scrittore.

Zelda e F. Scott Fitzgerald

L’opera di Fitzgerald appare così non solo come “lo specchio di una società, ma come il ritratto di un uomo che si muove in una determinata società”.

Con questo studio Antonio Merola ci fornisce un quadro preciso e dettagliato della fortuna (o forse dovremmo dire “sfortuna”) che Fitzgerald ebbe in Italia, ma allo stesso tempo ci fornisce uno studio importante per capire anche come si muoveva la critica e l’editoria italiana negli anni del regime fascista, per nulla favorevole alla pubblicazione e divulgazione di opere d’oltre oceano.

Grazie ad un ricco apparato bibliografico, alle note di approfondimento e alle citazioni testuali, il lettore segue passo dopo passo la storia editoriale in Italia di uno scrittore che forse ha saputo più di tutti evidenziare gli eccessi di una generazione figlia del denaro e del vizio.