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L’Epopea di Ghilgameš raccontata da Claudio Saporetti

Il libro che vi sto per presentare è prezioso e sarà apprezzato in particolar modo dagli amanti della storia antica, dell’archeologia e della mitologia. Non parlo però della mitologia greca e romana, ma di una cultura mitologica precedente, che fa capo al periodo medio-babilonese. Sto parlando dell’epopea di Ghilgameš, un personaggio a metà strada tra la storia e la mitologia. Questa storia ci è descritta nel libro di Claudio Saporetti, intitolato Ghilgameš. Il primo eroe della storia, edito da La Lepre Edizioni.

In questo libro l’autore traduce l’epopea di un personaggio che per alcuni è la rappresentazione di una divinità, mentre per altri è un uomo realmente vissuto, un re, la cui eroicità ha fatto sì che venisse divinizzato dai posteri. Sta di fatto che Ghilgameš è parte fondamentale della storia Assiro-Babilonese, che ce lo tramanda in tre modi differenti:

1. come divino sovrano di Uruk;
2. come divinità delle religioni mesopotamiche in diversi inni e iscrizioni, composti sia in lingua sumerica sia in lingua accadica;
3. come personaggio principale di alcune epopee religiose mesopotamiche composte sia in lingua sumerica sia in lingua accadica, e anche in altre lingue del Vicino Oriente antico.

Ghilgameš, bassorilievo. Identificazione incerta. Fonte Wikipedia.

L’Epopea di Ghilgameš è tramandata in numerose tavolette (dodici quelle proposte nel volume) rinvenute in vari luoghi, che si presentano spesso frammentarie, ma il libro di Saporetti colma le lacune e ci propone una traduzione che “è scrupolosamente letteraria ed è stata eseguita direttamente sul cuneiforme”.
La questione della traduzione è molto delicata e Saporetti la affronta con decisione e ferma consapevolezza:

Come si può vedere, nelle varie traduzioni del “Ghilgameš” ci può essere chi si limita a considerare quello che c’è, come abbiamo cercato di fare noi, chi invece ingentilisce il concetto con giri di parole, chi intorbida allungando il brodo giocando con la fantasia, chi trasformando il sottinteso in vera e propria traduzione di quel che non c’è. E possiamo assicurare che in altri e numerosi vari punti del nostro poemetto la fantasia dei traduttori (a volte traduttor dei traduttori) ha tracimato oltre gli argini, anche quelli del buon senso, specialmente là dove le macchie di lacune hanno scatenato i cavalli dell’immaginazione oltre il lecito (spesso molto oltre), alimentando il falso.

E ancora sulla questione della traduzione e della scelta della prosa scrive Saporetti:

La ragione del presente libro è quella di portare a conoscenza del lettore non solo la leggenda, la storia e le premesse letterarie del poema di Ghilgameš, ma la traduzione stessa di questo poema: una traduzione mia, che ovviamente non sempre coincide con altre, specie in qualche particolare per cui ho dovuto fare il punto, o scegliere, o proporre. (…) Per comodità questa traduzione, a cui ho cercato di dare la più seria base scientifica (non essendo un traduttor dei traduttori, sono ovviamente partito dal cuneiforme) è riportata in prosa, avulsa dalla divisione in “versi” come si trova invece nei testi mesopotamici. Essa segue la versione “classica”, quella conosciuta dalle dodici Tavole rinvenute nella Biblioteca del re Assurbanipal (VII secolo) a Ninive. È la versione similmente composta da Sîn-leqe-unninnī, un Omero mesopotamico che rielaborò composizioni preesistenti, in un periodo che probabilmente è quello medio-babilonese (c. XIV-XIII sec. a.C.).

Le dodici tavole sono proposte integralmente nel libro e sono seguite ognuna da un commento e da note dettagliate che permettono al lettore di cogliere non solo l’interpretazione della vicenda dal punto di vista letterario e simbolico, ma permettono di acquisite molte informazioni sul periodo storico in questione.
Ma l’epopea di Ghilgameš in cosa consiste? In sostanza è divisa in due momenti. Il primo momento “è una specie di Iliade fatta di imprese eroiche e vittoriose, la seconda una specie di Odissea in cui il nostro protagonista vaga tra pericoli ed avventure per arrivare ad una meta”, che è il desiderio di vincere la morte. Alla fine del suo viaggio Ghilgameš sembra aver raggiunto il suo scopo, si è impossessato di una pianta miracolosa che gli eviterebbe di invecchiare, ma gli viene rubata da un serpente e quindi tutto resta immutato.

Da queste storie mesopotamiche, (ne siamo convinti) anche quella leggenda di Alessandro Magno che tanto ha avuto successo nel Medioevo, è facile trarre la morale: avvicinarsi al dio è possibile, puntare al dio è auspicabile, ma cercare di diventare come dio è diabolico e catastrofico.

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Enrico VIII, la giovinezza del sovrano più famoso d’Inghilterra

Quando Enrico VIII venne alla luce a Greenwich il 28 giugno 1491, i genitori, Enrico VII ed Elisabetta di York, ordinarono che si iniziassero subito i preparativi per un battesimo memorabile, tant’è che la servitù addetta alla nursery fu ingrandita con nuovo personale. Enrico VIII ebbe molti tra fratelli e sorelle (Arturo, Margherita, Elisabetta, Maria, Edmondo, Caterina), ma sopravvissero solo tre, Arturo, Margherita e Maria. Erano tempi duri per i bambini; la cugina e compagna di giochi dei principi morì giovanissima soffocata da una lisca di pesce, mentre Enrico crebbe sano e forte.

Curiosità: la tradizione imponeva che il neonato fosse battezzato nel fonte battesimale della cattedrale di Canterbury, che fu perciò trasportato a Greenwich e installato per l’occasione nella chiesa dei francescani in posizione abbastanza elevata perché i nobili e i cittadini potessero assistere alla cerimonia senza avvicinarsi troppo all’officiante, in vescovo Fox.

Nell’autunno del 1494, all’età di tre anni, Enrico dovette partecipare ad una serie di estenuanti cerimonie, che si protrassero per ben tre giorni. Il primo giorno in groppa ad un enorme cavallo da battaglia, fu condotto a Westminster, dove ricevette, al termine di un vero e proprio rito di iniziazione, che durò diverse ore, il titolo di cavaliere dell’Ordine del Bagno. L’indomani gli furono consegnati gli speroni e il terzo giorno, dinanzi al re e ai nobili radunati nella sala del parlamento, fu nominato duca di York. Nei giorni successivi ricevette altri titoli e divenne cavaliere del famoso Ordine della Giarrettiera.

Fin da piccolo Enrico VIII mostrò di possedere una intelligenza vivace, fu musicista di precoce talento e fin da ragazzo ebbe a disposizione un’orchestra personale. Appena fu abbastanza grande da lasciare la nursery, il principe iniziò a prendere parte alla vita di corte. Non vi è dubbio sul fatto che all’età di otto anni Enrico fosse già in grado di leggere il latino e immaginiamo di comprenderlo. Il precettore di Enrico fu John Skelton, uno studioso di vasta dottrina, che diede al futuro re una cultura rigorosa e ampia, ma non solo questo. Skelton esercitò sul carattere di Enrico una notevole influenza in fatto soprattutto di amabilità. Anche Tommaso Moro conobbe il giovane Enrico, rimanendone estremamente colpito.

Curiosità: Erasmo da Rotterdam fu la figura più importante del mondo della cultura a frequentare l’ambiente reale e così Erasmo descrive il giovane Enrico:”già all’età di otto anni aveva un contegno regale, che rivelava una certa dignità unita ad una singolare amabilità”. 

La giornata di studio di Enrico era molto intensa e dava spazio tanto allo studio delle lettere, quanto all’azione pratica e alla cura dell’arte cortese. Uno spazio importante ebbe anche la caccia, che preparava l’individuo a vivere le condizioni possibili in un campo di battaglia. Oltre al suo precettore, onnipresente fu la nonna Margaret Beaufort, donna energica ed intelligente, che vide in Enrico da subito doti particolari, quelle stesse doti che gli permetteranno di essere il sovrano tra i più grandi della storia. Ad Enrico venivano affidati incarichi di corte e uno di questi fu l’accoglienza di Caterina d’Aragona, futura sposa del fratello Arturo, il quale morì però a pochi mesi dalle nozze. Caterina, la cui famiglia desiderava divenisse regina d’Inghilterra, rimase nella nuova terra e aspettò pazientemente, subendo anche l’ostracismo del suocero. Ma dopo la morte del sovrano, sposò Enrico VIII. Non si conoscono bene i contorni della vicenda, ma resta il fatto che Caterina divenne regina d’Inghilterra.

Caterina D’Aragona

Dopo la morte di Arturo, Enrico VIII, essendo il nuovo erede al trono, si attaccò molto al padre, imparando da lui il più possibile sull’arte del governare, ma per molti anni il giovane principe rimase quasi totalmente nell’ombra, temendo quasi di essere la causa della malattia del padre, che gli provocava fortissimi attacchi di collera. Probabilmente Enrico VII soffriva di schizofrenia, malattia che lo indusse, inconsciamente, a provare invidia e odio verso il figlio.

Divenuto sovrano d’Inghilterra, Enrico VIII nei primi tempi visse in bilico tra l’esaltante sensazione di potere e la consapevolezza della propria immaturità. Dubitava di sé, cercava la sua strada continuamente. Era un giovane di salda coscienza, ma di scarsa esperienza, tra cortigiani smaliziati, di dubbia moralità e indissolubilmente portati al vizio. Ma bastò poco perché Enrico trovasse la giusta misura, che lo ha trasformato nel più famoso dei sovrani d’Inghilterra.

Vi parlo di Enrico VIII perché ho aderito all’iniziativa #unannoconlastoria, promossa su Instagram da @samlibrary94 e @libriattraversolospecchio. Il mese di gennaio era dedicato ai Tudor e chi meglio di Enrico VIII li rappresenta?

Il libro di riferimento per me è stato: Il grande Enrico. Vita di Enrico VIII re d’Inghilterra, di Carolly Erickson.

Volgare eloquenza, come la politica ha cambiato le parole

Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica è un saggio di Giuseppe Antonelli, edito nella collana Economica di Laterza, in cui viene analizzato il cambiamento del linguaggio della politica nel tempo. In particolare, l’analisi di Antonelli prende le mosse dalla rivoluzione linguistica messa in atto da Berlusconi con la Seconda Repubblica.

È il 1994 l’anno della svolta, che coincide con la discesa in campo di Berlusconi. Da quel momento assistiamo ad un cambiamento nel modo di fare politica e di parlare alle masse. Se prima il linguaggio della politica era “alto”, accademico, ora è rivolto a tutti, è diretto e di facile comprensione e come scrive Antonelli abbiamo assistito ad una evoluzione (involuzione) che nel giro di pochi anni ha portato l’italiano della politica da una lingua artificialmente alta ad una lingua altrettanto artificialmente bassa. Una lingua basica, elementare, grossolana.

Il seguito allo svilupparsi dei social network si è ampliato lo spazio della politica. Se prima era limitato al talk show visto da un pubblico specifico, all’aula parlamentare o alla sede di partito per gli addetti ai lavori e al bar per il popolo, con i social questo spazio si è allargato dando accesso a tutti, nel bene e nel male. Infatti, scrive Antonelli:

Lo spazio delle parole si è ampliato a dismisura, ma nella stessa misura si è ridotto il tempo per il ragionamento e la discussione. Le uniche parole sono rimaste, così, parole d’ordine (o di disordine) ripetute all’infinito, riprese a voce sempre più alta per coprire la voce di chi in quelle parole non si riconosce. Alla partecipazione si è sostituita la condivisione. Un meccanismo che sfrutta la reticolare orizzontalità della rete, ma è in realtà verticale e verticistico. Perché trasforma ogni attivista in un passivo ripetitore impegnato a diffondere, rilanciandolo, un messaggio preconfezionato.

L’eloquenza che prima era sinonimo di qualcosa di puro e aulico, assume però un valore negativo e diviene volgare. Cosa si intende per Volgare Eloquenza, allora? Spiega Antonelli:

In latino il popolo si chiamava vulgus. Dunque volgare aveva in origine l’accezione di “popolare”, anche nel senso di “comune a tutti”. Il senso che oggi diamo alla parola – quello di rozzo, triviale – comincia a diffondersi solo da Cinquecento. Ecco perché Dante chiamava “volgare” la lingua parlata dal popolo: quella che nel De Vulgari Eloquentia considerava ormai abbastanza nobile da potersi sostituire al latino. Oggi, l’eloquenza di molti politici può essere definita “volgare” proprio a partire dall’uso distorto che fa della parola e del concetto di popolo.

E ancora Antonelli chiarisce cosa è il popolo oggi, o meglio esso come viene percepito dalla politica, che lo manovra a proprio vantaggio:

Nel momento stesso in cui si mitizza il popolo sovrano, lo si tratta in realtà come un popolo bue. Qualcuno a cui rivolgersi con frasi ed espressioni terra terra, cercando di risvegliarne bisogno e istinti primari. O tutt’al più come un popolo bambino: un capricciosissimo moccioso da viziare in ogni modo pur di portarlo dalla propria parte. Questa eloquenza è volgare perché da questa idea di popolo discende una lingua che è al tempo stesso paternalista e antipedagogica.

Antonelli con il suo studio ripercorre i momenti salienti di una politica che ha cambiato il modo di parlare al popolo di sé e della nazione. L’autore analizza quello che chiama Marketing elettorale e poi politico, gli slogan, i tweet, i post e i blog, ovvero tutti quei luoghi che la politica fino ad ora ha occupato e piegato ai propri bisogni. Antonelli spiega le origini di ogni atto comunicativo e come esso sia stato distorto; ci dice come ciò che era popolare sia diventato populista; come esso sia degenerato svuotandosi di valori reali. Come è possibile arginare tutto questo? Antonelli scrive:

Bisogna avere il coraggio di rifiutare la semplice logica del rispecchiamento. Andare oltre lo specchio (…) significa abbandonare l’idea che la politica debba limitarsi a ripetere la vox populi. (…) L’italiano populista ostenta una popolarità artificiale e orgogliosamente becera. Puntando sul politicamente e sul grammaticalmente scorretto, usa turpiloquio e strafalcioni come nella retorica classica si usavano gli ornamenti.

Per chiudere, possiamo affermare l’urgenza di ritrovare nella parola un contenuto che guardi concretamente al futuro del paese, attraverso la chiarezza di idee e la pulizia delle argomentazioni. e come diceva Catone il censore Rem tene, media sequetur.

San Francesco e il miracolo della liquefazione del sangue

Il libro di cui vi sto per parlare è sicuramente un libro diverso dal solito perché l’autore, Massimo Santilli, ci racconta un aspetto legato al poverello di Assisi che non è molto conosciuto. Il sangue di Francesco. Le reliquie di sangue di San Francesco d’Assisi e il prodigio della liquefazione (ed. EDT) racconta i luoghi e le reliquie più significativi legati a san Francesco.

Francamente ignoravo questo prodigio, credevo che appartenesse solo alla tradizione napoletana che in san Gennaro ha il suo illustre esempio. Invece, anche con san Francesco, Massimo Santilli ci dimostra esserci una tradizione simile. In questo caso non siamo di fronte ad una ampolla contenete un grumo di sangue – come quella di San Gennaro per intenderci – ma di porzioni di ossa o di pezzi di stoffa impregnati del sangue che il santo perdeva dalla piaga del costato e che nei secoli e in alcuni momenti si è ravvivato.

Il libro è preceduto dalla prefazione di Grado Giovanni Merlo, il quale scrive:

Il bel libro – bello anche dal punto di vista delle illustrazioni – di Massimo Santilli presenta più di un motivo di interesse. Innanzitutto, si segnala per l’originalità dei temi affrontati. Occuparsi delle “reliquie dei sangue di san Francesco d’Assisi” e del “prodigio della liquefazione” non è cosa comune, anche nel vastissimo panorama della sterminata produzione di scritti intorno al Poverello e al suo culto: produzione all’interno della quale l’Autore si muove con competenza e spirito critico.

Il libro di Santilli è un’interessante ricerca e una minuziosa analisi della storia di queste reliquie che un tempo avevano un fondamentale valore oltre che religioso anche politico. Scrive ancora Merlo nella prefazione:

Tra i molti meriti del libro di Massimo Santilli vi è dunque quello di aver evitato le facili e ideologiche semplificazioni e di aver dato l’esempio di una ricerca che ha tenuto sempre presente la complessità e, al tempo stesso, la peculiarità dei temi dei temi affrontati.

Il libro, in ogni capitolo, racconta una delle città che ospita una reliquia di san Francesco, da Assisi a Roma, da Padova a Castelvecchio Subequo. Nove città che custodiscono le sacre reliquie in un percorso che attraversa gli Appennini. Grande attenzione l’autore da a Castelvecchio Subequo, una cittadina dell’Abruzzo, in cui si è verificato il più recente episodio di fluidificazione del sangue stimmatizzato e i patronati esercitati dal santo. Perché l’attenzione verso questi fenomeni, seppur visti con scetticismo dalla scienza, destano ancora interesse? A questa domanda risponde Massimo Santilli nella sua riflessione conclusiva:

Nel sangue che si scioglie, insiste una morte che rinasce e nel suo significato allegorico persiste un segno di immortalità, di potenza spirituale e salvifica, di benevolenza alla comunità dei fedeli e quindi di forza superiore esercitata in favore del luogo che agisce a tutela e protezione dei suoi devoti rassicurandoli in continuità. La reliquia diviene in tal senso un’emanazione postuma delle virtù e dell’energia taumaturgica del santo. Tale segno, ribadito dal ripetersi del fatto prodigioso, è pertanto un avvento ierofanico, un atto di immanenza che rifonda una sacra intesa; un invito alla maturazione delle coscienze, un richiamo alla umiltà e un monito contro l’esaltazione del sé; un segnale, sì di vicinanza e protezione ininterrotta, ma anche di riflessione e ripensamento sul senso profondo del nostro fare di ogni giorno, rispetto alla volontà di Dio e alla parola del Vangelo per chi è credente, e rispetto a un’etica sociale e a una morale umana (perfettamente incarnata anche nel volto laico del frate ribelle) per chi ha una visione più secolarizzata della vita.

Il saggio di Massimo Santilli non è solo un libro per chi crede o segue gli insegnamenti di san Francesco, ma è anche un saggio storico, ben documentato dal carattere storico e sociologico. Ringrazio l’Ufficio Stampa Il Taccuino per questa lettura.

Le donne di Alessandro Magno | Il libro di Valeria Palumbo

Se amate la storia e le biografie non potete perdervi il libro di Valeria Palumbo, Le donne di Alessandro Magno, edito da Enciclopedia delle donne.

Questo libro in realtà è molto di più di un libro biografico, perché l’autrice, oltre a proporci i profili di persone che dal punto di vista affettivo hanno avuto a che fare con Alessandro, ci parla dei fatti storici e delle sue conquiste militari. L’aspetto assai originale del libro – che avevo già riscontrato il Io, Teodora, sempre edito Enciclopedia delle donne – è il fatto che i protagonisti di questo libro parlano in prima persona. Si tratta di un libro corale, tante voci a raccontare di sé e del mondo circostante. Infatti, attraverso queste dieci voci riusciamo a costruire le sfumature di un uomo, di un politico, di un condottiero che ha reso grande non solo se stesso, ma anche la Grecia.

Chi sono questi 10 personaggi? Di seguito in breve i dieci profili:

  1. Olimpiade
    Madre di Alessandro, moglie di Filippo II di Macedonia e principessa dell’Epiro. Favorì l’ascesa del figlio al trono, si occupò della Macedonia in sua assenza, continuò la battaglia per l’erede dopo la sua morte.

    Ada
  2. Ada
    Regina in esilio della Caria, in Asia minore. Ebbe indietro il trono da Alessandro che accettò di considerarla sua madre adottiva.

 

  1. Taide
    Taide e Alessandro mentre appiccano l’incendio

    Alessandro e Taide mentre appiccano l’incendio al palazzo di Persepoli
    Cortigiana ateniese. Si narra che provocò l’incendio del palazzo reale di Persepoli, per vendicare Atene. Divenne la concubina di Tolomeo, storico, generale e amico di Alessandro, oltre che fondatore della dinastia egizia dei Tolomei.

  2. Sisigambi
    Sisigambi prostrata davanti ad Alessandro

    Madre di Dario III, re dei persiani sconfitto da Alessandro. Fu fatta prigioniera ma Alessandro la chiamò “madre”, le concesse grandi onori e in seguito la liberò.

  3. Barsine
    Barsine

    Nobile persiana, sposa prima dei generali Mentore e Memnone, tra loro fratelli, e poi amante di Alessandro a cui diede un figlio, Eracle.

  4. Roxane
    Roxane e Alessandro

    Figlia di Ossiarte, signore della Battriana. Fu scelta come prima moglie da Alessandro che si innamorò di lei. Quando Alessandro morì, lei, che era in attesa di suo figlio, il futuro Alessandro IV, ne raccolse l’ultimo respiro.

  5. Statira
    Statira e Alessandro in un affresco di Pompei

    Figlia di Dario III, re dei persiani. Fu fatta prigioniera dai macedoni, con la madre e la nonna, dopo la battaglia di Isso. Nove anni più tardi sposò Alessandro.

  6. Candace
    Regina leggendaria di Kush, l’attuale Sudan. Secondo gli autori medievali sconfisse Alessandro e ne divenne amante.
  7. Efestione
    Ritratto marmoreo di Efestione

    Amico d’infanzia di Alessandro e compagno di tutte le sue battaglie, fu il grande amore della sua vita. Morì pochi mesi prima di lui, lasciando il re macedone nella più cupa disperazione.

  8. Cleopatra
    Figlia di Filippo II e di Olimpiade, quindi sorella di Alessandro. Sposò suo zio, Alessandro il Molosso, e lo sostituì alla guida del regno dell’Epiro. Dopo la morte di Alessandro tentò di salvare il trono della Macedonia.

Di questi dieci profili, quelli che più mi hanno colpita sono tre. Il primo è Olimpiade, madre naturale di Alessandro, donna ambiziosa e senza scrupoli. Pur di vedere il figlio governare non ha esitato a mettere in campo ogni tipo di strategia. La storia ce la consegna come manipolatrice e calcolatrice, ma a dobbiamo il merito di aver avuto il Grande Alessandro. La seconda figura è la madre di Dario III, Sisigambi. Dopo aver sconfitto l’esercito di Dario, Alessandro la chiamerà madre e in questa azione, che lei apprezzerà e in cui riconosce il valore di Alessandro, comprendiamo la lungimiranza politica di questo sovrano. Ultimo profilo è quello di Efestione, il vero amore di Alessandro. Uomo valoroso e profondamente legato al suo sovrano. Pare fosse addirittura più bello di lui, e il racconto della sua morte è veramente commovente. A parlare è Efestione:

Poi, l’epilogo. Era l’autunno del 324 ed eravamo a Hamadan, nella Media. Alessandro aveva organizzato un banchetto e si guardava intorno preoccupato: mancavo soltanto io. Avevo la febbre ed ero andato a letto. Il medico, Glauco, mi scrutava con un’ansia che non capivo.
Mi disse di non lasciare l’alloggio e di non toccare assolutamente nulla. Dopo di che se ne andò a teatro.
Avevo la febbre, ma non mi sentivo così male. In più avevo fame; minacciando il servo, mi feci portare del vino e un pollo lesso. Cose leggere, insomma. Mi sentii subito peggio e non riuscii neanche a capire che cosa mi dicesse il medico, tornato di gran carriera. Stetti così per sette giorni. Non miglioravo. Tutto, intorno, aveva il suono e il colore di certe nebbie sui nostri monti della Macedonia d’inverno. Alessandro non aveva voluto che si interrompessero i giochi che aveva organizzato, ma era angosciato. Mi veniva a trovare. Ci sorridevamo. E in quel sorriso c’era tutta la nostra vita.
L’ottavo giorno Alessandro presiedeva ai giochi. Corsero ad avvertirlo: peggioravo. Si precipitò. Arrivò troppo tardi. Non poté neanche rubare con un bacio la mia anima che fuggiva. Ma mi strinse, mi strinse, mi strinse tutta la notte e non volle lasciare il mio cadavere.
Fece impiccare il medico anche se ero stato io a disobbedire e non mangiò né bevve per tre giorni.

Insieme a questi ci sono gli altri profili più o meno noti, come Taide, che conosciamo per via di Dante poiché la inserisce all’Inferno e ognuno di essi ci restituisce un tassello importante non solo di un uomo che forse è stato tra i più grandi, ma anche della storia greca, di cui noi siamo gli eredi inconsapevoli.

La storia editoriale di F. Scott Fitzgerald in Italia nel saggio di Antonio Merola

Nasce oggi una nuova sezione del blog dedicata ai saggi. In questo spazio prenderanno posto recensioni di saggi e libri di varia natura: studi storici o di carattere letterario, biografie, ma anche libri di ambito sociologico e antropologico.

Sono felice di partire con un testo dedicato ad uno scrittore americano: F. Scott Fitzgerald.

Il saggio in questione si intitola F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Giuliano Landolfi Editore, 2018) ed è stato scritto da Antonio Merola.

Si compone di tre sezioni in cui l’autore si sofferma sulla vicenda interpretativa di Fitzgerald in Italia. Lo scrittore americano, autore de Il Grande Gatsby, non ebbe grande fortuna di critica in Italia. Ad occuparsene furono grandi firme e personalità della cultura italiana come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Eugenio Montale, Fernanda Pivano per citarne solo alcuni, ma la vicenda editoriale di Fitzgerald in Italia è molto complessa e tra errori o sviste di traduzione e interpretazione non gli fu attribuito da subito il giusto merito.

F. Scott Fitzgerald

Antonio Merola, minuziosamente analizza e ricostruisce il percorso interpretativo di uno scrittore importante per la cultura americana, ma che viene definito, parafrasando Elio Vittorini, eccentrico e frivolo.

Lo stesso Vittorini sembra quasi totalmente disinteressato a Fitzgerald. Sarà Fernanda Pivano, ci informa sempre Merola, a leggerlo in maniera totalmente differente. La Pivano sarà, infatti, la prima persona a comprendere la profondità dell’opera dello scrittore americano, che non può essere letta ignorando il dato biografico. Infatti non va ignorata, ad esempio, la moglie Zelda, la quale influenzerà in maniera sostanziosa la produzione artistica dello scrittore.

Zelda e F. Scott Fitzgerald

L’opera di Fitzgerald appare così non solo come “lo specchio di una società, ma come il ritratto di un uomo che si muove in una determinata società”.

Con questo studio Antonio Merola ci fornisce un quadro preciso e dettagliato della fortuna (o forse dovremmo dire “sfortuna”) che Fitzgerald ebbe in Italia, ma allo stesso tempo ci fornisce uno studio importante per capire anche come si muoveva la critica e l’editoria italiana negli anni del regime fascista, per nulla favorevole alla pubblicazione e divulgazione di opere d’oltre oceano.

Grazie ad un ricco apparato bibliografico, alle note di approfondimento e alle citazioni testuali, il lettore segue passo dopo passo la storia editoriale in Italia di uno scrittore che forse ha saputo più di tutti evidenziare gli eccessi di una generazione figlia del denaro e del vizio.