Il libro che vi sto per presentare è prezioso e sarà apprezzato in particolar modo dagli amanti della storia antica, dell’archeologia e della mitologia. Non parlo però della mitologia greca e romana, ma di una cultura mitologica precedente, che fa capo al periodo medio-babilonese. Sto parlando dell’epopea di Ghilgameš, un personaggio a metà strada tra la storia e la mitologia. Questa storia ci è descritta nel libro di Claudio Saporetti, intitolato Ghilgameš. Il primo eroe della storia, edito da La Lepre Edizioni.
In questo libro l’autore traduce l’epopea di un personaggio che per alcuni è la rappresentazione di una divinità, mentre per altri è un uomo realmente vissuto, un re, la cui eroicità ha fatto sì che venisse divinizzato dai posteri. Sta di fatto che Ghilgameš è parte fondamentale della storia Assiro-Babilonese, che ce lo tramanda in tre modi differenti:
1. come divino sovrano di Uruk;
2. come divinità delle religioni mesopotamiche in diversi inni e iscrizioni, composti sia in lingua sumerica sia in lingua accadica;
3. come personaggio principale di alcune epopee religiose mesopotamiche composte sia in lingua sumerica sia in lingua accadica, e anche in altre lingue del Vicino Oriente antico.

L’Epopea di Ghilgameš è tramandata in numerose tavolette (dodici quelle proposte nel volume) rinvenute in vari luoghi, che si presentano spesso frammentarie, ma il libro di Saporetti colma le lacune e ci propone una traduzione che “è scrupolosamente letteraria ed è stata eseguita direttamente sul cuneiforme”.
La questione della traduzione è molto delicata e Saporetti la affronta con decisione e ferma consapevolezza:
Come si può vedere, nelle varie traduzioni del “Ghilgameš” ci può essere chi si limita a considerare quello che c’è, come abbiamo cercato di fare noi, chi invece ingentilisce il concetto con giri di parole, chi intorbida allungando il brodo giocando con la fantasia, chi trasformando il sottinteso in vera e propria traduzione di quel che non c’è. E possiamo assicurare che in altri e numerosi vari punti del nostro poemetto la fantasia dei traduttori (a volte traduttor dei traduttori) ha tracimato oltre gli argini, anche quelli del buon senso, specialmente là dove le macchie di lacune hanno scatenato i cavalli dell’immaginazione oltre il lecito (spesso molto oltre), alimentando il falso.
E ancora sulla questione della traduzione e della scelta della prosa scrive Saporetti:
La ragione del presente libro è quella di portare a conoscenza del lettore non solo la leggenda, la storia e le premesse letterarie del poema di Ghilgameš, ma la traduzione stessa di questo poema: una traduzione mia, che ovviamente non sempre coincide con altre, specie in qualche particolare per cui ho dovuto fare il punto, o scegliere, o proporre. (…) Per comodità questa traduzione, a cui ho cercato di dare la più seria base scientifica (non essendo un traduttor dei traduttori, sono ovviamente partito dal cuneiforme) è riportata in prosa, avulsa dalla divisione in “versi” come si trova invece nei testi mesopotamici. Essa segue la versione “classica”, quella conosciuta dalle dodici Tavole rinvenute nella Biblioteca del re Assurbanipal (VII secolo) a Ninive. È la versione similmente composta da Sîn-leqe-unninnī, un Omero mesopotamico che rielaborò composizioni preesistenti, in un periodo che probabilmente è quello medio-babilonese (c. XIV-XIII sec. a.C.).
Le dodici tavole sono proposte integralmente nel libro e sono seguite ognuna da un commento e da note dettagliate che permettono al lettore di cogliere non solo l’interpretazione della vicenda dal punto di vista letterario e simbolico, ma permettono di acquisite molte informazioni sul periodo storico in questione.
Ma l’epopea di Ghilgameš in cosa consiste? In sostanza è divisa in due momenti. Il primo momento “è una specie di Iliade fatta di imprese eroiche e vittoriose, la seconda una specie di Odissea in cui il nostro protagonista vaga tra pericoli ed avventure per arrivare ad una meta”, che è il desiderio di vincere la morte. Alla fine del suo viaggio Ghilgameš sembra aver raggiunto il suo scopo, si è impossessato di una pianta miracolosa che gli eviterebbe di invecchiare, ma gli viene rubata da un serpente e quindi tutto resta immutato.
Da queste storie mesopotamiche, (ne siamo convinti) anche quella leggenda di Alessandro Magno che tanto ha avuto successo nel Medioevo, è facile trarre la morale: avvicinarsi al dio è possibile, puntare al dio è auspicabile, ma cercare di diventare come dio è diabolico e catastrofico.
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