Stefano Bessoni e le sue illustrazioni

La fata turchina (illustrazione tratta da Pinocchio di Stefano Bessoni, Logos ed.)
La fata turchina (illustrazione tratta da Pinocchio di Stefano Bessoni, Logos ed.)

Fin da piccola ho respirato aria di libri. Mia madre, oltre ai giochini vari, legava morbidi libri al seggiolone e io mi divertivo, stando a quanto mi viene raccontato, a lanciare questi morbidi e colorati libri dal ripiano del seggiolone, a tirarli su per lanciarli di nuovo. Con il passare del tempo la tipologia di libri cambiava e si adattava all’età. Così arrivarono le fiabe e i libri illustrati, che mi facevano viaggiare con la fantasia. Mi bastava chiudere gli occhi per ritrovarmi nel bosco di Cappuccetto rosso o nella casetta di marzapane. Ad un certo punto le favole hanno lasciato il posto ai romanzi giovanili e ai grandi autori. Ovviamente l’immaginazione e la fantasia sono rimaste e proprio alle illustrazioni e alle serate trascorse ad ascoltare la narrazione di storie che devo la passione per i libri. Da qualche tempo ho riscoperto il piacere del libro illustrato e ci tengo a segnalarvi i lavori di Stefano Bessoni.

Stefano Bessoni e alcune sue illustrazioni.
Stefano Bessoni e alcune sue illustrazioni.

Diverso e particolarmente interessante il suo punto di vista. Pinocchio e Alice sotto terra ne sono un esempio.

Il gatto (illustrazione tratta da Pinocchio di stefano Bessoni, Logos ed.)
Il gatto (illustrazione tratta da Pinocchio di stefano Bessoni, Logos ed.)
Il cappellaio matto (illustrazione tratta da Alice sotto terra di Stefano Bessoni, Logos ed.)
Il cappellaio matto (illustrazione tratta da Alice sotto terra di Stefano Bessoni, Logos ed.)

Le sue illustrazioni non ritraggono il classico personaggio di una favola a cui siamo abituati, ma esso viene interpretato in ben altra modalità. Il tema che domina e di cui si nutre la poetica di Bessoni trae ispirazione dall’anatomia umana e dalla zoologia. Strani animali, teschi e scheletri sostituiscono le consuete immagini che da bambini abbiamo imparato a conoscere. Dove nasce questo modo di leggere le fiabe ce lo dice lo stesso Bessoni. Infatti nel suo sito (stefanobessoni.wix.com/stefanobessoni) si legge

Sono attratto dal macabro, dal perturbante, da tutto ciò che è sinistro e mortifero. Mi piacciono le ballate macabre di Nick Cave e i film di Peter Greenaway. Le fiabe ed il mondo dell’infanzia sono un elemento fondamentale della mia poetica, oltre al mondo della scienza, in particolare l’anatomia umana, la zoologia e tutte le cosiddette ‘scienze inesatte’, o ‘anomale’.

Mi incanta la dimensione irreale delle fiabe, che trovo più reale del reale, dove tutto è possibile, ma non casuale. Il sogno si trasforma in incubo, il mite omino in orco, la tenera vecchina in strega. I bambini sono fatti a pezzi e divorati dai genitori per poi tornare come spettri vendicativi. Mi affascina tutto questo e mi piace lavorare sul potenziale iniziatico tipico della fiaba. La fiaba diviene l’immagine speculare del mondo reale dove i pericoli sono narrati per mettere in guardia il bambino ignaro che si prepara ad affrontare il mondo, e, perché no, anche l’adulto.

Sfogliando i suoi libri di certo non ci troviamo di fronte a immagini che esprimono serenità, ma se si legge il testo che accompagna le illustrazioni si coglie una rara ironia. Così li si inizia a guardare con simpatia e quello che normalmente poteva essere considerato bizzarro diviene consueto. Ne scaturisce un capovolgimento delle parti in seguito al quale ciò che è considerato normale diviene banale e l’immagine ritratta da Bessoni esprime una nuova realtà ben più significativa del consueto. Una rilettura di personaggi e vicende che rivela una natura che spesso si tende ad evitare. Un bel viaggio illustrato è quello che l’autore ci propone e che vi invito a percorrere e a vivere senza pregiudizi e timori.

Pinocchio (illustrazione tratta da Pinocchio di Stefano Bessoni, Logos ed.)
Pinocchio (illustrazione tratta da Pinocchio di Stefano Bessoni, Logos ed.)

Le notti bianche

Era una notte incantevole, una di quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani.

Questo è l’incipit di Le notti bianche di Dostoevskij, forse uno dei pochi incipit che subito coinvolgono il lettore – e non solo perché l’autore gli si rivolge velocemente – introducendolo non solo ad una nuova lettura, ma anche in nuovi luoghi, sentimenti e situazioni.

la notti bianche It

L’autore ci presenta due personaggi molto diversi tra loro: un uomo, di cui non conosciamo il nome, la cui caratteristica principale è quella di essere un sognatore, ma non di quelli che vivono nell’aspirazione di perseguire un obiettivo. Egli vive nel mondo, ma isolato – per timidezza o per scelta – privo di legami se non con i palazzi, i luoghi, i volti, che gli sono divenuti familiari per i fugaci incontri quotidiani e che prendono vita nella mente del protagonista; un mondo che non lo tradisce e non lo delude. Poi c’è una giovane donna, di lei sappiamo che si chiama Nastenn’ka. Anche lei è una sognatrice, ma in maniera diversa dall’uomo, perché lei è una sognatrice “romantica”, che sogna cose che possiamo definire “comuni”, ma non per questo il suo personaggio risulta banale, anzi è molto realistico e vicino a qualsiasi lettore.

I due si conosceranno per caso e inizieranno una frequentazione, che si articola in incontri notturni tra una panchina e una ringhiera, scambiandosi emozioni e confidenze. Così il lettore viene a conoscenza della vita dei due. Nastenn’ka rappresenterà per il nostro protagonista la possibilità di vivere attimi di vita reale, ma sarà deluso perché lei, interpretando bene le esperienze e i sentimenti giovanili, sceglierà di seguire un’altra strada. Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, che coinvolge e fotografa situazioni e sentimenti di intere generazioni. Una lettura necessaria per la formazione di generazioni e non solo di giovani, poiché la lettura di Dostoevskij, anche se ripetuta, arricchisce l’animo umano sempre di nuove sfumature.

Marcello Mastroianni e Maria Schell in una scena del film Le notti bianche di Visconti
Marcello Mastroianni e Maria Schell in una scena del film Le notti bianche di Visconti

Nel 1957 Luchino Visconti ne fa un film interpretato da Marcello Mastroianni e Maria Schell nei ruoli dei personaggi principali che, nelle strade di Livorno, interpretano le vicende di Mario e Natalia.

Dr. Wood

Così lo ricordano in molti, sdraiato su un’amaca del colore della sabbia, tra due palme da giardino, la cui chioma regalava l’ombra nel caldo pomeriggio di un agosto torrido. Uno sguardo sornione, pantalone scuro e camicia bianca, il pensiero abbandonato al vento, che dolce accompagna e accarezza i pensieri più profondi.

amaca

Quando morì, una folla ininterrotta si accostava a rendere omaggio al feretro del medico che per decenni era stato una sorta di santone, uno di quei guaritori che con il solo sguardo riesce a curare da un’oscura maledizione. Parole di circostanza, ma sentite, passavano di bocca in bocca e trovavano il consenso, l’approvazione soddisfatta di ognuno, nella convinzione di aver perduto una parte importante del paese. Tutti listati a lutto, gli uomini con il bottone nero appuntato all’occhiello della giacca, le donne, in abito scuro e veletta, portavano al viso un candido fazzoletto ricamato con fiori di lavanda e stringevano un rosario per affidare alla Vergine l’anima del pover’uomo, troppo presto strappato alla vita. Terminati i funerali, la grande casa colonica, con tante stanze una dentro l’altra, chiuse per sempre i suoi ampi finestroni alle stagioni del tempo. Ognuno ritornava nelle proprie abitazioni, con ancora nell’animo la sensazione del triste distacco e nella mente le parole di commiato delle autorità locali che dal pulpito della chiesa di San Lorenzo si alternavano per ricordare, con parole cariche di trasporto, la rettitudine, l’equilibrio e la dedizione di un uomo che aveva speso la propria vita per aiutare gli altri. I volti delle persone sedute tra le fila dei banchi erano tirati, affranti e accaldati per il caldo di una primavera inoltrata. Qualcuno si scambiava sguardi di approvazione per le frasi del sindaco che rievocavano la retorica del secolo passato, altri, invece, sussurravano al vicino brevi frasi sulla vita e sulla morte. In fondo alla chiesa gli uomini che rimanevano in piedi, lasciavano alle proprie donne la possibilità di occupare i banchi e qualcuna si girava di tanto in tanto per assicurarsi che il proprio compagno stesse seguendo la funzione religiosa e non distraendosi in chiacchiere inutili o addirittura uscendo dalla chiesa, producendo sul sagrato quel chiacchiericcio che tanto infastidiva il vecchio don Ignazio. Una strana atmosfera si era creata quella sera dopo i funerali, il cielo si era coperto di nuvole sottili, un venticello fresco si era alzato, regalando un po’ di respiro dopo l’inconsueta calura del giorno. Il paese era avvolto da una tenue luce che ispirava pensieri malinconici, il silenzio nelle strade era interrotto solo dai rumori provenienti dalle case. Un bambino, seduto sul gradino di una casa, aspetta i compagni per l’ultimo gioco, gli uomini si incamminano, come ogni sera, verso la piazza del paese, mentre alcune donne si raccolgono nell’aia di donna Maria. Le più anziane erano sedute sulle vecchie sedie impagliate, le più giovani, invece, sulla scala che portava ai piani superiori. Parlavano della giornata trascorsa, del lavoro che avrebbero dovuto fare l’indomani, delle rose del giardino, ma quella sera i discorsi assumevano un altro valore, erano più che mai carichi di circostanza. Nessuna aveva il coraggio di affrontare per prima quel discorso, come se fosse proibito parlare di chi non c’era più. Ma quando giunse la domestica che si occupava quotidianamente del medico fu facile iniziare il discorso. Si sedette tra le donne più anziane, in una posizione che quasi le permetteva di catturare l’attenzione di tutte, e iniziò a raccontare quelle due tristi ultime giornate trascorse a servire il medico del paese. Alle prime ore del mattino si era recata nella grande casa per sbrigare le faccende domestiche, la preparazione della colazione e l’avvio del pranzo, che il medico gradiva fare sempre allo stesso orario, alle dodici in punto così da garantirgli il riposino pomeridiano e poi le visite che ormai aveva diradato perché in pensione, ma che continuava a fare quando, di tanto in tanto qualcuno del paese ne aveva bisogno. Dopo la colazione, non avendolo ancora incontrato, la cameriera si recò nella sua stanza che trovò vuota e con il letto disfatto. Pensando fosse sveglio e magari in qualcuna delle tante stanze di cui la casa era composta, iniziò a chiamarlo, ma non ne ebbe risposta. Uno sguardo al giardino, nessuna traccia del medico. Allora pensò che fosse uscito per qualche urgente visita. Effettivamente c’era l’anziana madre del falegname in fin di vita, sicuramente era andato da lei. La domestica raggiunse poi la biblioteca, sarebbe stata la prima stanza da riassettare per la partita di poker che il medico aveva in programma per quella sera. Come di consueto pochi erano gli amici, tre in totale, che amavano, tra gli scaffali colmi fino al soffitto di libri che avevano l’odore del tempo e dei sigari, quel luogo come una tana sicura. Lo aveva trovato lì, seduto sulla sua poltrona dietro la grande scrivania. Disse di aver creduto che stesse dormendo. Spesso il sonno lo coglieva durante una lettura serale, ma quando si accostò per svegliarlo si accorse che ormai la sua esistenza si era conclusa quella notte. Stranamente non provò spavento, nessun grido, nessun tentativo di riportarlo alla vita, come se fosse normale che il medico morisse in quella maniera, come se fosse solo una questione di tempo. Continuava il racconto la cameriera, il tono della voce era pacato, degno del miglior narratore. Il medico era morto, non aveva moglie, non aveva figli ne fratelli e non sapendo a chi rivolgersi, la cameriera si diresse al telefono nell’ampio corridoio per chiamare il maresciallo dei carabinieri, uno dei tre amici del poker. Aprì la porta di casa e attese il suo arrivo seduta sulla panca all’ingresso. Fu il maresciallo a chiamare il medico legale. La morte era sopraggiunta per un infarto, il cuore si era praticamente spezzato in due; il povero medico non avrebbe avuto nessuna possibilità di sopravvivere, nemmeno se con lui ci fosse stato qualcuno a soccorrerlo. Il maresciallo, amico sincero del defunto si occupò dell’organizzazione del funerale, aveva avvertito tutto il paese come se fosse morto un suo familiare, era lui ad accogliere le persone alla camera ardente e a ricevere le condoglianze. Fu lui a far cadere la prima manciata di terra sulla bara calata nella fossa e a lasciare per ultimo il piccolo cimitero del paese. A questo punto si interruppe il racconto della cameriera, il resto si era svolto alla vista di tutti. Ma le donne, che nel frattempo continuavano nelle loro faccende, il ricamo o un rammendo, misero da parte la piccola attività e rivolsero alla cameriera lo sguardo di chi vuole sapere altro. Allora la donna senza farsi pregare, iniziò a raccontare la storia del medico del paese. Figlio unico visse fin da piccolo nell’apprensione dei genitori, che vedevano in ogni angolo un pericolo per la sua salute, che pur essendo solida, ai loro occhi era minacciata anche da un raggio di sole al tramonto. Visse nella casa paterna fino ai tempi del liceo, che nonostante le apprensioni dei genitori, frequentò in una città a pochi chilometri di distanza. Terminati gli studi liceali, si iscrisse alla facoltà di medicina perché quella era la carriera che il padre aveva scelto per lui. Nonostante la passione per l’astronomia, il giovane portò a temine la carriera universitaria con il massimo dei voti, divenendo in poco tempo uno dei migliori medici della zona. La posizione che aveva raggiunto non tardò a trasformarlo in un buon partito. Molte furono le proposte di matrimonio, alcune delle quali anche di ottimo livello, che avrebbero migliorato anche la sua posizione sociale. In fin dei conti proveniva da una famiglia borghese; il padre era proprietario terriero e molte delle terre che possedeva erano state vendute proprio per pagare gli studi del figlio, ma ciò non bastò all’anziana madre per individuare una buona moglie per il figlio. Medico affermato e giovane di sane intenzione, ma di certo non era uno di quei ragazzi la cui bellezza rimaneva impressa. Nonostante ciò, la donna non riuscì a trovare in nessuna delle pretendenti le giuste qualità che, secondo il suo parere di madre attenta ed amorevole, potevano soddisfare il carattere del figlio. Nessuna donna era all’altezza del figlio. Le risultavano interessate solamente alla posizione sociale che il figlio aveva raggiunto, o erano troppo sciocche o poco signorili. Per non parlare di quelle che erano troppo audaci e che sicuramente lo avrebbero condotto in qualche torbida situazione, screditandone il buon nome. Insomma, se il medico non si era sposato era colpa della madre e del carattere debole del figlio, che non riuscì ad imporsi quando incontrò la figlia del professore di lettere, verso la quale provava un amore sincero. Una giovane dai modi gentili, viso delicato, ma che per la madre di lui aveva il grande difetto di non essere abbastanza ricca. Era stata inserita, con un giudizio sommario, nella categoria di quelle donne che mirano solo agli averi senza provare vero affetto per il futuro marito. In breve tempo si sarebbe rivelata un’arpia e non una compagna amorevole. Così il giovane medico rimase senza moglie e quando morirono i genitori, fu completamente solo. Si dedicò alla medicina e alla cura dei malati. I primi tempi sembrò essere sereno, ma con il passare del tempo iniziò a condurre una vita sempre più isolata. Aveva abbandonato le sue letture, gli amici si erano diradati, solo in tre erano rimasti per la partita settimanale di poker, forse più per abitudine che per amicizia. Più passava il tempo e più il suo modo di comportarsi e di pensare regrediva. È come se si fosse lasciato andare diceva qualcuno, in realtà stava solamente mostrando il suo vero modo di essere, da uomo misantropo che non sa far altro che osservare la vita dall’angolo di una stanza, con le spalle al coperto, senza riuscire a fare un passo in avanti e buttarsi nella mischia. La paura di commettere un errore, il terrore di prendere la decisione sbagliata lo aveva fatto morire solo nel suo studio che odorava di libri vecchi e di tabacco.

Sei la mia vita

Mi sono imbattuta in questo libro casualmente. Mi trovavo a Viterbo per trascorrere qualche giorno nello splendido centro medievale e proprio il giorno in cui sono arrivata coincideva con la chiusura di un festival che aveva attirato nella cittadina tantissime persone e artisti di notevole livello. Quella sera era prevista la presentazione di Sei la mia vita, l’ultimo libro di Ferzan Ozpetek (www.ferzanozpetek.com) edito da Mondadori.

Copertina di Sei la mia vita di F. Ozpetek (Mondadori ed.)
Copertina di Sei la mia vita di F. Ozpetek (Mondadori ed.)

Andai più per la curiosità di vedere un volto noto che per il libro. La piazza era piena di persone e l’aria un po’ meno afosa rispetto alla mattina. Ovviamente acquistai il libro e già il volto dell’autore in quarta di copertina mi aveva strappato un sorriso e mitigato un po’ l’animo inquieto. Nell’attesa dell’inizio della serata sfoglio il libro, ne annuso l’odore della carta misto a quello dell’inchiostro, leggo la biografia dell’autore e l’incipit del romanzo: Sei la mia vita! Penso: però non perde tempo, già nella prima fase e nel titolo preannuncia che si parlerà di vita vera.

Torno indietro e leggo la citazione dal film La finestra di fronte:

Ho ancora bisogno di una tua parola, Davide, di un tuo sguardo, di un tuo gesto. Ma poi all’improvviso sento i tuoi gesti nei miei, ti riconosco nelle mie parole. Tutti quelli che se ne vanno, ti lasciano sempre addosso un po’ di sé. È questo il segreto della memoria? Se è così allora mi sento più sicura, perché so che non sarò mai sola.

Si fa ancora più interessante… ok, mi sta convincendo!

Ecco che inizia la serata, arriva il regista e scopro una persona speciale: un uomo ironico, rispettoso, umile, generoso e disponibile. Quando mi avvicino a lui per la firma sul libro vedo occhi dolci, semplici e veri; occhi di chi ha vissuto una vita fatta di gioie e di dolori, di presenze e di assenze, di esperienze che lo hanno reso una grande persona.

Leggere questo libro mi ha emozionata, mi ha lasciato la voglia di vivere in pienezza ogni momento della vita. Ve lo consiglio!

Il silenzio è quello che vorrei

Parole urlate, promesse vane, realtà caotiche… il silenzio è quello che vorrei. Non assenza di suono, ma spazio per il pensiero, per quello che eravamo, per quello che saremo. Un sentimento: amarezza per il tempo perduto.

Bambini festanti riempivano le strade con il loro vociare allegro. Lo ricordo bene, se chiudo gli occhi li rivedo sotto lo sguardo rassicurante degli anziani appagati da una vita di fatiche: c’è chi diventa adulto saltando la corda, i più grandi si rincorrono, si nascondono e giocano a campana; le più piccole inventano storie e rendono vive le loro bambole di pezza.

giochi

La strada era la nostra casa, un luogo sicuro e incoraggiante e quel gioco ci rendeva migliori; quel gioco inventato, quel gioco costruito con il poco che avevamo era la nostra identità, era il desiderio di vivere una vita autentica. Cosa ci è rimasto di tutto questo?

Ora scendo in strada e c’è solo il rumore di auto, suoni che provengono da cellulari che squillano… volti chini su schermi che promettono chissà cosa, schiavi del nulla. Non ci sono più i bambini! Allora li cerco (i bambini) e li trovo nelle loro case, fermi davanti le televisioni, la testa appoggiata ad un braccio o immersi nei videogiochi, proiettati in una realtà finta, subìta, che non lascia alcuna possibilità di scelta. Lo sguardo è triste, ha perso la profondità di chi costruisce con volontà la propria vita, di chi combatte le piccole battaglie per trovare il proprio posto nel mondo.

Oggi dove sono i bambini con la spada di legno? Dove sono le bambine con la bambola di pezza? Quali sono le vie piene di gente?

Per favore ditemelo, ditelo ai vostri figli! Non lasciamo che tutto sia perduto… o, forse, già lo è.

Sirene

È nel XII canto dell’Odissea di Omero che, per la prima volta, le sirene fanno la loro apparizione in un’opera letteraria. Intorno a queste figure leggendarie si sono sviluppati miti che, fin dall’antichità, hanno alimentato l’immaginazione dell’uomo, al punto da condurlo a renderle degli esseri quasi reali. A loro si attribuiscono doti ammaliatrici; ascoltando il loro canto nessun essere umano riuscirebbe a resistere, cadendo, inevitabilmente, nella loro trappola. Seguendo il loro canto sensuale, il malcapitato andrebbe incontro solo alla morte. Pochi sono gli uomini sopravvissuti al loro richiamo.

Ulisse e le Sirene. Decorazione di un vaso ateniese, tardo VII-primo V secolo a.C. British Museum, Londra
Ulisse e le Sirene. Decorazione di un vaso ateniese, tardo VII-primo V secolo a.C. British Museum, Londra

Oltre ai leggendari Argonauti, l’episodio più famoso è quello di Ulisse che, seguendo il consiglio della maga Circe, riempì di cera le orecchie dei suoi compagni e facendosi legare all’albero della nave, riuscì a superare la tentazione di buttarsi in mare per seguirle. Nonostante la voce incantatrice, le sirene non avevano un aspetto così piacevole. L’idea che oggi abbiamo di una sirena corrisponde ad una immagine gradevole: una bella ragazza con una voce e un corpo seducente, sebbene abbiano, al posto delle gambe, la coda di un pesce. Esse vivrebbero nei mari caldi, pronte ad allietare con canti i marinai che attraversano i luoghi in cui dimorano. In origine, però, l’aspetto delle sirene non era poi così grazioso: il fascino della loro voce non corrispondeva ad un aspetto altrettanto affascinante. Nel mito greco esse sono delle creature composte dal corpo di un uccello e dalla testa di donna, ma non è finita qui. Le sirene non erano esseri benevoli, anzi erano divinità dei morti come le Arpie o le Erinni, potevano favorire chi era in grado di placarle, ma, in generale, cercavano di indurre i malcapitati marinai, che si trovavano a navigare nelle loro acque, a raggiungere il mondo dei morti, l’oltretomba. C’è chi sostiene che l’aspetto di uccello, che la cultura greca attribuisce alle sirene, sia stato ispirato dalla raffigurazione egizia di Ba, ovvero l’anima dei morti che cercava di attirare a sé l’anima dei vivi. Dagli egizi, infatti, essa è rappresentata con il corpo di uccello e testa umana. È nel Medio Evo che si modifica l’iconografia della sirena. Essa diventa una creatura marina come è descritta nel Liber Monstrorum (Libro dei mostri), un bestiaio, ovvero un libro nel quale sono indicati, con la relativa rappresentazione iconografica, tutti i mostri della tradizione popolare. L’opera fu scritta nell’VIII secolo circa e l’autore risulta anonimo, anche se c’è chi lo ha attribuito al monaco inglese Aldelmo di Malmesbury. L’origine della sirena, come la conosciamo noi oggi, risalirebbe quindi alle leggende celtiche o anglosassoni. Qualsiasi sia la loro origine e la loro attività, le sirene hanno conquistato il nostro immaginario, trasmettendoci valori positivi.

E. Munch, La donna del Mare
E. Munch, La donna del Mare

Esse hanno ispirato artisti in ogni epoca e nei diversi campi, come Petrarca, Bembo, Shakespeare, Wagner, Munch e non ultimo Andersen, grazie al quale abbiamo la famosa favola della Sirenetta che ha ispirato il celebre capolavoro della Walt Disney.

Helen Stratton, Illustrazione del 1899
Helen Stratton, Illustrazione del 1899

A chi voglia intraprendere un viaggio in mare e desidera ascoltare il bellissimo canto delle sirene, suggeriamo di recarsi nei pressi delle Isole Sirenuse, che da secoli sono considerate la loro dimora. Buona navigazione!

La donna seduta alla finestra

La luce del sole giungeva dalla finestra sulla destra e le colpiva il viso e parte del corpo. Non doveva essere molto caldo, anche se era estate e lo deducevo per via della maglia che le lasciava le braccia completamente scoperte. Guardava fuori, come se stesse accadendo qualcosa di importante, cosa stava avvenendo oltre la finestra? A vederla bene il suo sguardo non osservava niente di preciso. Stava pensando, ma a cosa? La potevo vedere di profilo, era seduta su una sedia semplice e poggiava le braccia sul tavolo nudo che le era davanti.

Picasso, La Donna seduta alla Finestra
Picasso, La Donna seduta alla Finestra

Un libro chiuso e qualcos’altro, forse una tazza non ricordo bene, gli unici oggetti ad occupare la superficie del tavolo. I capelli raccolti in una coda, la pelle tradiva una età avanzata, avevo l’idea di avere di fronte una donna che aveva lavorato duramente nella vita, ma l’espressione del volto era serena, distesa, come a denunciare la soddisfazione di aver vissuto una vita piena, senza pretese, ma soddisfacente. Perché non le ho parlato? Una tenda ci divideva, una tela dipinta tradiva la sua vitalità.

Fante d’Italia

È ancora nitido il ricordo dell’ultima notte trascorsa nel letto di casa. L’indomani la partenza. Il tepore del camino, il profumo del pane appena sfornato, le raccomandazioni di mia madre, la paura della morte accompagnano questa notte insonne. La patria chiama e l’uomo risponde. Una pedina mossa su una scacchiera per grandi giocatori. La patria chiama e il soldato risponde.

trincea

L’alba è ormai vicina, prendo lo zaino, un amore alle spalle, un ultimo abbraccio, destinazione Gorizia. È gennaio, l’aria è gelida, le mani sono livide, ma la patria ha bisogno di soldati, giovani vite nelle trincee, che cercano di sopravvivere  falciando altre vite.

La guerra si fa serrata, il mio compagno muore, l’altro è ferito. A me la stessa sorte è destinata. Mentre lo sguardo di uno è fisso al cielo e le grida dell’altro si fanno più forti degli del rumore della guerra, sento il fuoco che mi brucia la gamba. La guardo, è ferita, sanguina. Torno a casa. Una licenza di un mese per trovare riposo lontano dalla morte. Di nascosto mi faccio medicare, ma una bambina scopre il mio segreto, che resta il nostro segreto. La patria chiama e il soldato risponde.

Riparto per l’Italia, per la bambina perché possa vedere il domani. Destinazione Plava, Gorizia. In prima linea, nella trincea guardo i colpi cadere dal cielo, mi squarciano il corpo. Ora il mio nome è su una lapide, “fante d’Italia che né fiumi né monti fiaccarono l’animo”.

Ricordi di viaggio

Sto seduta tra i soliti amici, ma con lo sguardo rivolto altrove e sul viso un sorriso. Chi mi sta vicino mi guarda con circospezione e mi chiede perché rido.

Io rispondo con un gesto della mano, come per dire: “Niente di importante!”

La realtà è ben diversa: non posso rispondere perché non ci sono parole per descrivere le emozioni di un viaggio. Un viaggio è un’esperienza unica e irripetibile, appartiene solo a chi lo compie come qualcosa di intimo e può essere compreso in pieno solo dai propri compagni di viaggio.

SAM_1875

Non c’è valigia più ricca di quella che ho riportato dalla Grecia: sono rientrata a casa con l’animo ricco di esperienza e il cuore gonfio di gioia! Non dimenticherò il vento che forte attraversava le possenti colonne del Partenone e ci investiva con il suo carico di storia, le austere rovine di Micene dove, ancora oggi, è possibile respirare il mito che si trasforma in storia, il teatro di Epidauro che con la sua acustica perfetta fa vivere la leggenda.

Se chiudo gli occhi rivivo il movimento dolce delle onde e vedo la scia della nave che lascia in me la malinconia di una separazione, ma che allo stesso tempo mi dona lo slancio verso una nuova avventura con altri luoghi da vivere, cibi da assaporare e persone nuove da incontrare.

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