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La trappola, una storia di inganni e trasformismo

È da un bel po’ di tempo che non mi occupavo più del mio blog, che non pubblicavo più una recensione e questo perché da febbraio non riuscivo più a leggere nulla.

Blocco del lettore? Non direi, piuttosto diversi impegni e accidenti vari mi hanno tenuta lontano dai miei amati libri e da interessi letterari.

Questo periodo complicato sembra in qualche modo passato e riprendo così a parlarvi attraverso i miei articoli.

Oggi vi parlo del primo dei libri che ho letto per voi.

Si tratta de La trappola di G. B. Thistle.

Con questo romanzo, il primo di una trilogia, entriamo in una vicenda dai toni crime, come la definisce l’autore stesso, e in contatto con il mondo delle truffe.

La protagonista della nostra storia è Beatrix Ives-Pope, una donna affascinante e intelligente, che ha scelto di dedicare la sua vita proprio alla truffa.

Lo scopo del suo “lavoro”, però, è colpire personaggi dell’alta finanza o comunque soggetti senza scrupoli, che con la loro attività hanno arrecato un danno a chi è più debole e onesto.

La sua missione è colpire la stupidità, la disonestà e la cupidigia di uomini d’affari senza scrupoli.

Ci troviamo di fronte, potremmo dire, ad un Robin Hood che sottrae ai ricchi, anche se non si può affermare che a beneficiare delle sue azioni siano i poveri.

Accanto a lei, tre colleghi di truffa – Henry, Daniel e Pat – ognuno con una specifica competenza e una caratterialità ben definita.

La vicenda che il lettore si trova a seguire ruota intorno alla storia messa in moto dal detective Jensen, un poliziotto corrotto, il quale decide di ingaggiare con il ricatto la banda di Beatrix.

Jensen ha il triplice scopo di arrestare un truffatore, intascare una somma di denaro illecitamente e incastrare la nostra protagonista.

Beatrix sarà indotta a fare il gioco di Jensen, ma nel finale il lettore, che avrà seguito la vicenda con il fiato sospeso, assisterà a un colpo di scena inaspettato.

Ma chi è veramente Beatrix?

Lo scopriamo man mano che procediamo nella lettura e iniziamo a capire perché una donna giovane, brillante e soprattutto con una bambina piccola, decide di condurre una vita così rischiosa.

Un passato difficile, che nelle ultime pagine inizia a svelarsi e che ci fa attendere con trepidazione il secondo libro di questa trilogia.

Un mondo cinico, corrotto, personaggi trasformisti popolano una città che la prosa limpida di G.B. Thistle ci fa vedere con chiarezza e disinvoltura.

Giorno della Memoria: il racconto di Marisa Errico Catone

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

Questa frase di Primo Levi ci introduce al libro Non avevo la stella di Marisa Errico Catone, edito da Nuova dimensione editore. L’autrice ci narra una storia vera, che l’ha vista protagonista del più cupo avvenimento della storia del ‘900. All’età di otto anni la piccola Marisa, con i suoi genitori, vive la tragedia della deportazione nazista. Da Treviso passerà nei campi di concentramento di Bolzano, Innsbruck e Vienna fino alla deportazione e all’internamento in vari campi di concentramento boemi, tra cui Theresienstadt e Brandsdorf.

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Marisa Errico Catone non è ebrea e il motivo del suo arresto è dovuto ad un errore. Il cognome della madre è confuso con quello di un intellettuale ebreo antinazista, Franz Werfel, che all’epoca dei fatti era emigrato in Francia e poi negli Stati Uniti. Il cognome del nonno paterno era invece Worfel. Il racconto di Marisa Errico Catone è appassionante quanto commovente e tragico. A quasi settanta anni di distanza ha descritto con lucida partecipazione gli orrori che visse nel periodo che va dal 18 febbraio 1944 al 15 luglio 1945. Nel prologo dichiara le motivazioni per cui fino al 2011, anno della pubblicazione del libro, non aveva mai raccontato la sua vicenda. Il tentativo di rimozione della memoria delle sofferenze patite, l’incredulità degli interlocutori quando tentava di raccontare e il senso di colpa sono i principali motivi. Ma la molla che la spinse a raccontare in un libro le nefandezze di cui fu testimone, è rappresentata dall’atteggiamento negazionista e riduzionista di chi ha avuto il coraggio di negare l’esistenza delle camere a gas o di sminuire la portata di uno sterminio come quello perpetrato nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Due bambine si accostarono e cominciarono a parlarmi in tedesco. Una delle due mi chiese perché non avessi anch’io una stella cucita sul vestito. Rimasi perplessa a quella domanda e naturalmente non fui in grado di fornire risposta. Quando ritornai alla baracca, chiesi a mia madre come mai non avessi la stella gialla come quelli dall’altra parte del campo. Mamma sembrò imbarazzata, ma senza esitazione alcuna mi rispose: “Sarà perchè non siamo ancora abbastanza importanti. Quando lo diventeremo ne daranno una anche noi…”. L’indomani mi azzardai a spiegare la cosa alla ragazzina ebrea: restò pensierosa per un istante, ma poi il suo sguardo si illuminò all’idea di essere “importante”. Quando tempo dopo seppi il significato della stella gialla applicata sul vestito, mi resi conto che ai bambini gli adulti non avevano rivelato il triste destino a cui quel simbolo era collegato.

 

Questa citazione dal racconto dell’autrice ci indica l’equilibrio e la dolcezza con cui i fatti vengono narrati, fatti che apprendiamo attraverso l’occhio di una bambina inconsapevole, dotata di quella ingenuità tipica dell’età infantile e di un altruismo che la porta ad abbattere le barriere, le differenze, a fidarsi senza pregiudizi di sorta.

La vita da deportata nel campo è difficile per Marisa e per gli altri, bambini e adulti, unico conforto è rappresentato dalla marionetta Bibì, amica, confidente che utilizza per animare e strappare un sorriso o un balzo di gioia agli altri bambini all’interno dei reticolati. La narrazione dei fatti appesantisce il cuore e fa soffrire il lettore, ma è carica di speranza e di determinazione.

Scrive Aldo Cazzullo nella prefazione:

Il libro di Marisa Catone è particolarmente prezioso. Perché, oltre a essere un racconto drammatico e avvincente, ha un grande pregio storiografico: ci ricorda che, senza nulla togliere all’immane tragedia del popolo ebraico negli anni delle Seconda guerra mondiale, la campana della Shoah suona e ancora suona anche per noi. Che nessuno può chiamarsi fuori. Che vi sono ovunque, anche in Italia, “volenterosi carnefici” e vittime innocenti. Che la bufera ha sommerso in modo a volte indiscriminato, e i salvati a volte non furono più fortunati di chi venne inghiottito subito dai flutti.

Per ascoltare il racconto direttamente dall’autrice clicca sul seguente link:

https://www.youtube.com/watch?v=jputYf4sa_I