Oggi ricorre il compleanno di Giacomo Leopardi, che nacque a Recanati proprio il 29 giugno 1798. Leopardi è un poeta che non si smetterà mai di studiare non solo per l’immensità del suo pensiero, ma per la persona stessa: fragile e disillusa quanto tenace e sognatrice.

Non è facile scrivere di Leopardi, ma in questo giorno tento di ricordarlo sottolineando alcune caratteristiche che lo rendono così vicino ad ognuno di noi, ovvero parlando di quel sentimento di delusione che egli provò quando, nel soggiorno romano, si vide smarrito e spiazzato da una città che si dimostrò molto al di sotto delle sue aspettative. Non si sentano offesi Roma e i romani, ma il quadro che Leopardi ci ha lasciato del suo soggiorno nella Città eterna non è affatto lusinghiero. Leopardi si recò a Roma nel novembre 1822 e vi soggiornò fino all’aprile 1823 nel tentativo di allontanarsi da Recanati e raggiungere una certa indipendenza che gli garantisse di trovare un personale posto nel mondo. Roma, tuttavia, si rivelò da subito una delusione. Deludenti furono i luoghi, le persone, ma anche i familiari che lo ospitarono. Leopardi non celò mai la sua delusione, che espresse chiaramente e senza censure nelle lettere inviate ai suoi familiari e amici. In una delle prime lettere inviata all’amato fratello Carlo scrive:
Delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno. (…).
Come abbiamo visto nella lettera del 25 novembre, subito la malinconia e la noia si impadroniscono del suo animo avvezzo a numerosi e alti stimoli culturali. Nemmeno i giorni successivi e nuovi incontri riuscirono a fargli cambiare idea. Nella stessa lettera scrive:
Ieri fui da Cancellieri, il quale è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; (…) In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia (…) m’abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch’io non sono più buono da niente (…).
E più avanti:
Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia.
Sempre a proposito delle donne, il 6 dicembre scrive a Carlo in questi termini:
È così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagion dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femmine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come.
Roma si mostra a Leopardi come una città vuota, infatti scrisse a Monaldo:
Le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io mi aspettassi.
Lo stesso giudizio Leopardi riserva agli uomini. Dice alla sorella Paolina in una lettera datata 3 dicembre:
Parlando sul serio, tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in folio.
Qualche giorno dopo, scrivendo sempre al padre sotto sua richiesta, si esprime in tal senso sul mondo intellettuale romano:
Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un gioco di fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenente a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana.
Leopardi è in seria difficoltà a Roma, non trova ciò che si aspetta e la delusione diviene in lui noia, apatia, malinconia, disprezzo, tant’è che a Pietro Giordani, il 1° febbraio 1823, scrive:
La letteratura romana, come tu sai benissimo, è così misera, vile, stolta, nella, ch’io mi pento d’averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustane della letteratura, e il disprezzo e la compassione che ho per loro, ridonda nell’animo mio a danno del gran concetto e del grande amore ch’io aveva delle lettere.
Insomma, il soggiorno romano di Leopardi è un disastro. Vi ritornerà nell’ottobre 1831 accompagnato dall’amico Ranieri e nonostante sia ormai un poeta affermato, abbia più esperienza del mondo e maggiore sicurezza, la delusione per Roma rimarrà invariata. Roma lo ha deluso molto, come direbbe uno dei protagonisti del film La grande bellezza, ed è qui che si rafforza quell’idea di infelicità a cui l’uomo è sottoposto in qualunque regime o situazione si trovi. Uno stato d’animo che Leopardi non nasconde nel suo epistolario e di cui si potrebbe parlare molto, ma questa è, forse, un’altra storia e che rimando ad nuovo articolo. Intanto, buon compleanno Giacomo!
