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Il soggiorno romano di Leopardi tra delusione e malinconia

Oggi ricorre il compleanno di Giacomo Leopardi, che nacque a Recanati proprio il 29 giugno 1798. Leopardi è un poeta che non si smetterà mai di studiare non solo per l’immensità del suo pensiero, ma per la persona stessa: fragile e disillusa quanto tenace e sognatrice.

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Incisione del 1830 su rame di Gaetano Guadagni di un ritratto di Leopardi realizzato da Luigi Lolli nel 1826.

Non è facile scrivere di Leopardi, ma in questo giorno tento di ricordarlo sottolineando alcune caratteristiche che lo rendono così vicino ad ognuno di noi, ovvero parlando di quel sentimento di delusione che egli provò quando, nel soggiorno romano, si vide smarrito e spiazzato da una città che si dimostrò molto al di sotto delle sue aspettative. Non si sentano offesi Roma e i romani, ma il quadro che Leopardi ci ha lasciato del suo soggiorno nella Città eterna non è affatto lusinghiero. Leopardi si recò a Roma nel novembre 1822 e vi soggiornò fino all’aprile 1823 nel tentativo di allontanarsi da Recanati e raggiungere una certa indipendenza che gli garantisse di trovare un personale posto nel mondo. Roma, tuttavia, si rivelò da subito una delusione. Deludenti furono i luoghi, le persone, ma anche i familiari che lo ospitarono. Leopardi non celò mai la sua delusione, che espresse chiaramente e senza censure nelle lettere inviate ai suoi familiari e amici. In una delle prime lettere inviata all’amato fratello Carlo scrive:

Delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno. (…).

Come abbiamo visto nella lettera del 25 novembre, subito la malinconia e la noia si impadroniscono del suo animo avvezzo a numerosi e alti stimoli culturali. Nemmeno i giorni successivi e nuovi incontri riuscirono a fargli cambiare idea. Nella stessa lettera scrive:

Ieri fui da Cancellieri, il quale è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; (…) In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia (…) m’abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch’io non sono più buono da niente (…).

E più avanti:

Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia.

Sempre a proposito delle donne, il 6 dicembre scrive a Carlo in questi termini:

È così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagion dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femmine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come.

Roma si mostra a Leopardi come una città vuota, infatti scrisse a Monaldo:

Le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io mi aspettassi.

Lo stesso giudizio Leopardi riserva agli uomini. Dice alla sorella Paolina in una lettera datata 3 dicembre:

Parlando sul serio, tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in folio.

Qualche giorno dopo, scrivendo sempre al padre sotto sua richiesta, si esprime in tal senso sul mondo intellettuale romano:

Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un gioco di fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenente a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana.

Leopardi è in seria difficoltà a Roma, non trova ciò che si aspetta e la delusione diviene in lui noia, apatia, malinconia, disprezzo, tant’è che a Pietro Giordani, il 1° febbraio 1823, scrive:

La letteratura romana, come tu sai benissimo, è così misera, vile, stolta, nella, ch’io mi pento d’averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustane della letteratura, e il disprezzo e la compassione che ho per loro, ridonda nell’animo mio a danno del gran concetto e del grande amore ch’io aveva delle lettere.

Insomma, il soggiorno romano di Leopardi è un disastro. Vi ritornerà nell’ottobre 1831 accompagnato dall’amico Ranieri e nonostante sia ormai un poeta affermato, abbia più esperienza del mondo e maggiore sicurezza, la delusione per Roma rimarrà invariata. Roma lo ha deluso molto, come direbbe uno dei protagonisti del film La grande bellezza, ed è qui che si rafforza quell’idea di infelicità a cui l’uomo è sottoposto in qualunque regime o situazione si trovi. Uno stato d’animo che Leopardi non nasconde nel suo epistolario e di cui si potrebbe parlare molto, ma questa è, forse, un’altra storia e che rimando ad nuovo articolo. Intanto, buon compleanno Giacomo!

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Roma, veduta dello scavo del Foro Trajano, incisione realizzata da Luigi Rossini – 1823

Ugo Foscolo, scrittore epistolare

Subito dopo la morte di Ugo Foscolo, avvenuta il 10 settembre 1827 nel villaggio di Turnham Green, ove visse gli ultimi suoi anni in compagnia della figlia, si accese fortissimo l’interesse verso la vita del poeta.

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Ritratto di Ugo Foscolo (particolare del dipinto realizzato da Fabre nel 1813)

Videro la luce opere riguardanti la biografia di Foscolo che, come era prevedibile, fecero reagire in vario modo amici e familiari. Nel 1829 e nel 1830 furono pubblicati a Lugano due opere: la prima Ragguagli intorno Ugo Foscolo di Michele Leoni e la seconda Vita di Ugo Foscolo di Giuseppe Pecchio. A quest’ultimo Giulio Foscolo, fratello del poeta, indirizzò una lettera aperta in risposta alla sua opera e tanti altri opposero testimonianze e prove di vario genere per proteggere da falsità ed erronee mitizzazioni la vita del poeta del carme Dei Sepolcri. In tempi recenti l’opera del Pecchio, allora definito un detrattore della figura eroica di Foscolo, viene considerata la prima e vera biografia dell’autore nella quale è evidente una lettura non mitografica della vicenda biografica del poeta, ma evidentemente alcuni toni e affermazioni dovettero infastidire e urtare coloro che nutrivano un affetto parentale e non solo nei confronti di Foscolo.

Tutto ciò diede il via ad una vera e propria caccia alle lettere che Foscolo aveva negli anni scritto ad amici, familiari e alle donne verso le quali nutriva un sentimento amoroso. Ne vennero così una serie di edizioni che nel corso del tempo videro appendici e riedizioni, fino ad assumere quella forma che oggi è contenuta nell’opera completa del Foscolo e racchiusa sotto il titolo di Epistolario. L’Epistolario fa parte dell’Edizione Nazionale delle Opere di Foscolo edita da Le Monnier (1933-1994), occupandone sei volumi e racchiudendo le lettere che il poeta scrisse dal 1794 fino alla morte. La maggior parte del corpus delle lettere è composto da epistole inviate, mentre in numero assai inferiore sono quelle ricevute dal poeta. Nonostante l’Epistolario sia un’opera di notevoli dimensioni e di spiccato interesse culturale perché da esso è possibile comprendere il pensiero politico e letterario di Foscolo, esso risulta purtroppo incompleto.

Nelle ore che precedettero la sua fuga da Milano, il Foscolo evidentemente non ebbe il tempo di mettere in ordine le sue cose e depose i suoi oggetti personali e i libri in bauli che fece consegnare ad amici per salvarli da eventuali perquisizioni. Al suo fidato amico Silvio Pellico fece recapitare dei bauli di libri e di lettere, infatti scrive così Pellico in una lettera a Foscolo:

Due giorni dopo la tua partenza venne Giulio a Milano, che non sapeva niente. Gente di polizia fece ricerca della tua roba. I tuoi libri erano già presso di me; i bauli etc. in una casa ove Agapito ha stanza, e donde tuo fratello diede ordine a Ottolini di ritirarli. (Epistolario, VI p. 21)

Tuttavia il baule contenente alcune epistole e volumi andò perduto, tante altre lettere del Foscolo e molte delle risposte che ricevette non sono mai stare recuperate.

Leggere l’epistolario foscoliano ci rende in un certo senso spettatori dello svolgersi di una vicenda umana che ci è narrata direttamente dal protagonista; vicenda che mette in evidenza oltre che l’intimità familiare, anche quelle che erano le posizioni di uno dei maggiori autori italiani tra il ‘700 e l’800. Proprio di questo Foscolo, evidentemente, era consapevole; tant’è che le sue lettere non risultano mai di un moto spontaneo e improvviso. Così qualcuno ha inteso vedere nella scrittura epistolare un uso consapevole del ‘doppio’ da parte di Foscolo. Insomma possiamo azzardare nel dire che Foscolo avesse ben chiara la possibilità che dalle sue lettere “private” potesse uscirne un profilo “pubblico”.

Sicuramente per Foscolo la forma epistolare è un genere a lui congeniale – non dimentichiamo il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis – tant’è che nel suo esilio inglese pensò di comporre un’opera, rimasta incompiuta, a cui oggi è dato il titolo di Lettere scritte dall’Inghilterra. In esse il Foscolo voleva trattare una sorta di confronto tra il mondo anglosassone e quello italiano. Immaginando di rivolgersi ad un gruppo di amici italiani, Foscolo rende conto in maniera divertita delle usanze quotidiane anglosassoni. L’opera rimase incompiuta, molte lettere solo abbozzate, altre mai riviste; forse l’autore, colpito dalle sventure dell’esilio, fu distolto dalla composizione.

Molta critica, soprattutto subito dopo la morte di Foscolo, ha letto nel suo modo di scrivere e soprattutto nelle lettere una tendenza all’eroico, alla mitizzazione. Questo può essere possibile per le ragioni dette in precedenza, ma tale atteggiamento cade completamente in alcune lettere che Foscolo scrisse ai familiari. Una su tutte ci colpisce profondamente. In essa si coglie la sofferenza che nasce dal distacco forzato dagli affetti più cari, da una terra verso la quale si è legati e che come sappiamo Foscolo non vedrà più.

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Lettera manoscritta di Ugo Foscolo

La lettera a cui facciamo riferimento fu scritta poco prima di imbarcarsi per l’Inghilterra ed è indirizzata ai familiari. In essa si legge una sorta di congedo, anche se forte è la speranza di tempi e condizioni migliori che possano far ritornare lo scrittore alla sua normale vita. In essa c’è già la sofferenza di una precarietà di vita che diverrà ancora più aspra in futuro. Ma la benedizione che un figlio chiede ad una madre, anche se a distanza, rappresenta un caldo abbraccio in una terra straniera:

Francofort sul Meno 30 Agosto 1816.

Miei cari

spero che, dopo gli avvisi miei, la mancanza delle mie lettere non vi avrà afflitto. Ho scritto a voi ed al cavalier Naranzi da Basilea. Da Ostenda, ove m’imbarcherò per Londra, potrò scrivervi un’altra volta, ma, perch’io viaggio economicamente, vi vorranno ancora otto o dieci giorni innanzi ch’io sia alla riva del mare; e poi le lettere tarderanno forse tre settimane a giungere a voi. Però non v’affannate invano. Ora che Giulio è con voi me ne vado con l’animo quieto; e vedrò, se il Cielo m’assiste, di procurarmi tanto danaro da potere o venire a star con voi, o chiamarvi meco. Ma di queste cose tocca al tempo a disporre. Intanto pregate Iddio per me, e state certi ch’io sto benissimo di salute, e che vado in Inghilterra con ottime speranze, e a cose ben preparate. Intanto addio, addio miei cari; addio dal fondo dell’anima mia. Addio; e tu, madre mia, mandami la tua santa benedizione. Ugo