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In viaggio con Leopardi da Recanati a Napoli

Quando vado in libreria per “dare solo un’occhiata” capita sempre che qualche libro mi cade tra le mani. Questo acquisto casuale procede verso due direzioni: verso un romanzo insolito, che nessuno conosce e di cui anche l’autore stesso si è dimenticato, oppure su un saggio.

È quello che è esattamente accaduto con il libro di cui vi sto per parlare: In viaggio con Leopardi di Attilio Brilli, ed. Il Mulino.

Ed eccomi di nuovo a parlarvi di Giacomo Leopardi. La volta precedente mi soffermai su un volumetto che raccoglieva la corrispondenza che il poeta marchigiano inviava ai parenti nel periodo in cui ha compiuto i sui viaggi per l’Italia (leggi qui l’articolo).

Il saggio di oggi ci mostra, tappa dopo tappa, quelle che sono le città che Leopardi ha visitato, partendo dalla sua Recanati, fino ad approdare a Napoli, dove la morte lo colse.
Leopardi non fu un grande viaggiatore, usci da Recanati ormai adulto, ma il suo desiderio di vedere il mondo fu un vero e proprio atto di ribellione, per conoscere dal vero ciò che aveva solo visto attraverso i libri e tanto idealizzato.

Visitò le maggiori città italiane, tra cui Roma, Bologna, Milano, Pisa, Firenze, ma non possiamo parlare di Leopardi come di un turista, nonostante abbia ripercorso i tragitti e toccato le tappe obbligate del tanto famoso Gran Tour.

Qual è l’indizio che ci suggerisce che in Leopardi non c’è voglia di Gran Tour? Il fatto che Leopardi non tiene un diario di viaggio, nella sua corrispondenza epistolare non sono descritti i luoghi che visita, né le opere d’arte che ammira. Accenna solo a quelli che sono i suoi spostamenti o da giudizi lapidari, e quasi tutti negativi, delle città e dei costumi di chi le abita.

Giacomo Leopardi. Fonte Wikipedia

Leopardi investe il viaggio di una valenza metaforica; il viaggio è qualcosa che lo libera dalla “gabbia” recanatese, ma esso non rappresenta mai un approdo definitivo e rassicurante:

Nel novero dei suoi viaggi Leopardi non conosce approdo effettivo, poiché i luoghi nei quali soggiorna esistono non in sé e per sé, con le loro fisionomie e le loro caratteristiche, ma come lacerazione e distacco del luogo natìo e quindi come manifestazione della sua mancanza.

Le città che visita si rivelano una delusione. Troppo grandi, generano spaesamento e solitudine. Chi le abita è privo, seppur con le dovute eccezioni, di quella profondità necessaria ad appagare il suo spirito. In breve tutto gli viene a noia.

Ovunque vada, con una significativa eccezione, il poeta avverte che fra lui e la città in cui risiede si frappone una distanza incolmabile che determina un reciproco senso di estraneità, che inibisce il pur effimero contatto.

Lo stesso conflitto si genera in Leopardi nei confronti della sua Recanati: ogni ora mi par mill’anni di fuggir via da questa porca città.

Casa Leopardi a Recanati

Leopardi crede di poter trovare altrove quella libertà che tanto aveva sognato, ma ben presto si rende conto che lo spaesamento della nuova città è generato da un’idea di città stessa che è venuta a modellarsi sul proprio luogo di origine. Ovunque andrà, cercherà quel modello recanatese che, seppur con connotati negativi, non riesce a ritrovare, creando così un ulteriore distacco tra sé e il mondo circostante.

Abbiamo detto precedentemente che Leopardi non ci racconta nulla, non ci descrive il viaggio in sé per sé, eppure Brilli ci racconta le tappe del viaggio leopardiano in Italia.

Per far questo, per mostrarci cosa il poeta ha potuto vedere e sentire, ricorre alle narrazioni di altri viaggiatori che poco prima o subito dopo, e qualche volta contemporaneamente, hanno toccato gli stessi luoghi visitati da Leopardi.

Pagine di diari ci aiutano a comprendere le difficoltà di un viaggio in carrozza o nel trovare un alloggio spesso non all’altezza del rango sociale; i disagi dovuti al caldo o al freddo nel corso delle stagioni; i continui pedaggi che si dovevano versare; i controlli, ma anche i timori di attacchi di briganti e malviventi.

In questo breve e intenso saggio ciò che più ci colpisce è sempre lui, Leopardi, che con il suo sottile intelletto in poco tempo sa, e con poche e semplici pennellate, cogliere l’essenza vera di un luogo e di coloro che lo abitano.

La statua di Leopardi a Recanati

Il soggiorno romano di Leopardi tra delusione e malinconia

Oggi ricorre il compleanno di Giacomo Leopardi, che nacque a Recanati proprio il 29 giugno 1798. Leopardi è un poeta che non si smetterà mai di studiare non solo per l’immensità del suo pensiero, ma per la persona stessa: fragile e disillusa quanto tenace e sognatrice.

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Incisione del 1830 su rame di Gaetano Guadagni di un ritratto di Leopardi realizzato da Luigi Lolli nel 1826.

Non è facile scrivere di Leopardi, ma in questo giorno tento di ricordarlo sottolineando alcune caratteristiche che lo rendono così vicino ad ognuno di noi, ovvero parlando di quel sentimento di delusione che egli provò quando, nel soggiorno romano, si vide smarrito e spiazzato da una città che si dimostrò molto al di sotto delle sue aspettative. Non si sentano offesi Roma e i romani, ma il quadro che Leopardi ci ha lasciato del suo soggiorno nella Città eterna non è affatto lusinghiero. Leopardi si recò a Roma nel novembre 1822 e vi soggiornò fino all’aprile 1823 nel tentativo di allontanarsi da Recanati e raggiungere una certa indipendenza che gli garantisse di trovare un personale posto nel mondo. Roma, tuttavia, si rivelò da subito una delusione. Deludenti furono i luoghi, le persone, ma anche i familiari che lo ospitarono. Leopardi non celò mai la sua delusione, che espresse chiaramente e senza censure nelle lettere inviate ai suoi familiari e amici. In una delle prime lettere inviata all’amato fratello Carlo scrive:

Delle gran cose che io vedo, non provo il menomo piacere, perché conosco che sono meravigliose, ma non lo sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno. (…).

Come abbiamo visto nella lettera del 25 novembre, subito la malinconia e la noia si impadroniscono del suo animo avvezzo a numerosi e alti stimoli culturali. Nemmeno i giorni successivi e nuovi incontri riuscirono a fargli cambiare idea. Nella stessa lettera scrive:

Ieri fui da Cancellieri, il quale è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; (…) In somma io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno: e questa malinconia (…) m’abbatte, ed estingue tutte le mie facoltà in modo ch’io non sono più buono da niente (…).

E più avanti:

Le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia.

Sempre a proposito delle donne, il 6 dicembre scrive a Carlo in questi termini:

È così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto di più, a cagion dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femmine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e il divertirsi non si sa come.

Roma si mostra a Leopardi come una città vuota, infatti scrisse a Monaldo:

Le dirò che ho trovato in Roma assai maggiore sciocchezza, insulsaggine e nullità, e minore malvagità di quella ch’io mi aspettassi.

Lo stesso giudizio Leopardi riserva agli uomini. Dice alla sorella Paolina in una lettera datata 3 dicembre:

Parlando sul serio, tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggior dose di buon senso che il più savio e più grave Romano. Assicuratevi che la frivolezza di queste bestie passa i limiti del credibile. S’io vi volessi raccontare tutti i propositi ridicoli che servono di materia ai loro discorsi, e che sono i loro favoriti, non mi basterebbe un in folio.

Qualche giorno dopo, scrivendo sempre al padre sotto sua richiesta, si esprime in tal senso sul mondo intellettuale romano:

Quanto ai letterati, de’ quali Ella mi domanda, io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso. Secondo loro, il sommo della sapienza umana, anzi la sola e vera scienza dell’uomo è l’Antiquaria. Non ho ancora potuto conoscere un letterato Romano che intenda sotto il nome di letteratura altro che l’Archeologia. Filosofia, morale, politica, scienza del cuore umano, eloquenza, poesia, filologia, tutto ciò è straniero in Roma, e par un gioco di fanciulli, a paragone del trovare se quel pezzo di rame o di sasso appartenente a Marcantonio o a Marcagrippa. La bella è che non si trova un Romano il quale realmente possieda il latino o il greco; senza la perfetta cognizione delle quali lingue, Ella ben vede che cosa mai possa essere lo studio dell’antichità. Tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano ne’ giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana.

Leopardi è in seria difficoltà a Roma, non trova ciò che si aspetta e la delusione diviene in lui noia, apatia, malinconia, disprezzo, tant’è che a Pietro Giordani, il 1° febbraio 1823, scrive:

La letteratura romana, come tu sai benissimo, è così misera, vile, stolta, nella, ch’io mi pento d’averla veduta e vederla, perché questi miserabili letterati mi disgustane della letteratura, e il disprezzo e la compassione che ho per loro, ridonda nell’animo mio a danno del gran concetto e del grande amore ch’io aveva delle lettere.

Insomma, il soggiorno romano di Leopardi è un disastro. Vi ritornerà nell’ottobre 1831 accompagnato dall’amico Ranieri e nonostante sia ormai un poeta affermato, abbia più esperienza del mondo e maggiore sicurezza, la delusione per Roma rimarrà invariata. Roma lo ha deluso molto, come direbbe uno dei protagonisti del film La grande bellezza, ed è qui che si rafforza quell’idea di infelicità a cui l’uomo è sottoposto in qualunque regime o situazione si trovi. Uno stato d’animo che Leopardi non nasconde nel suo epistolario e di cui si potrebbe parlare molto, ma questa è, forse, un’altra storia e che rimando ad nuovo articolo. Intanto, buon compleanno Giacomo!

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Roma, veduta dello scavo del Foro Trajano, incisione realizzata da Luigi Rossini – 1823

Giacomo Leopardi ci salva la vita. La sua forza raccontata da Alessandro D’Avenia

Ogni volta che si pensa a Giacomo Leopardi naturalmente tornano alla mente gli studi scolastici e una certa visione negativa della vita e dell’esistenza di uno dei poeti più grandi della letteratura italiana. Come dimenticare le fasi del pessimismo e le difficoltà dovute ai problemi fisici; tuttavia esiste un Leopardi diverso dal cliché che ci è stato propinato a scuola e fortunatamente negli ultimi tempi si sta facendo più forte l’interesse verso altri aspetti della personalità leopardiana. Una certa popolarità gli è dovuta anche grazie ad un recente film Il giovane favoloso, diretto da Mario Martone e interpretato da Elio Germano, e all’ultimo libro di Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili, edito da Mondadori.

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Già la copertina risulta interessante: vi troviamo una farfalla adagiata su una luna sospesa. Quest’ultima, che ci ricorda il dolce componimento leopardiano Alla luna, sembra quasi cullare la farfalla, la quale evoca quella fragilità indicata nel titolo. Una fragilità dell’esistenza, che Leopardi visse personalmente, ma che tuttavia diviene elemento positivo per noi. Il sottotitolo, infatti, dice “come Leopardi può salvarti la vita”. A scuola nessuno ci ha mai detto che Leopardi, quel poeta sfortunato e tormentato, poteva salvarci la vita… Ora a dircelo, e anche a gran voce, è un professore di liceo, giovane e appassionato, il quale da adolescente conosce un Giacomo diverso e proprio grazie a lui scoprirà il metodo della felicità.

Leopardi è spesso frettolosamente liquidato come pessimista e sfortunato. Fu invece un giovane affamato di vita e di infinito, capace di restare fedele alla propria vocazione poetica e di lottare per affermarla, nonostante l’indifferenza e perfino la derisione dei contemporanei.

Quindi D’Avenia ci parla di un Leopardi diverso, di un giovane poeta tanto geniale quanto coraggioso e lo fa in un modo direi classico e originale allo stesso tempo. Sceglie il racconto epistolare, tanto caro alla letteratura italiana e attraente per il lettore. L’idea nasce, dice l’autore, dall’opera che Leopardi aveva in mente di scrivere, una Lettera a un giovane del ventesimo secolo. Egli immagina di essere il destinatario di quella lettera, dando così l’input per la scrittura di una lunga serie di “epistole” che si dividono in quattro parti dedicate ognuna ad una fase della vita:

  • adolescenza o l’arte di sperare
  • maturità o l’arte di morire
  • riparazione o l’arte di essere fragili
  • morire o l’arte di rinascere

In esse si leggono, come in una sorta di confessione/espiazione i tormenti che sono propri di una generazione. Essi non vengono trattati in modo astratto o generico, ma in maniera concreta e realistica. Infatti l’autore parla della sua esperienza di uomo innanzitutto, e poi di docente alle prese con i problemi dei giovani, non trascurando anche i vari accidenti della vita. Ogni tema viene trattato in maniera consapevole e direi “densamente”.

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Monumento a Giacomo Leopardi – Recanati

Il discernimento, che passa attraverso citazioni dalle opere e dagli scritti di Leopardi, ci fa fermare e riflettere sui veri valori della vita. D’Avenia e Leopardi ci parlano di speranza anche dove la speranza proprio sembra non aver spazio. Ma tutto è possibile se il “seme spera nella luce”. Questo libro tiene compagnia, va letto con calma e meditato per conoscere meglio Giacomo Leopardi e forse noi stessi. Oggi sembra anacronistico desiderare di conoscere Leopardi, ma approfondirlo al di là dei programmi scolastici non credo sia un atto di coraggio, anzi è un dovere se non altro per non avere un debito culturale. Come avvicinarsi a questo autore? Oltre a leggere il libro di Alessandro D’Avenia, vi invito a visitare i luoghi in cui Leopardi è vissuto: la bella Recanati, dove è possibile scoprire i luoghi che hanno ispirato i versi delle più famose poesie di Leopardi, la fantastica biblioteca di Monaldo, che ancora oggi conserva lo scrittoio di Giacomo accostato a quella finestra dalla quale vedeva la donzelletta e Silvia, e poi il colle dell’Infinito, con la sua siepe e il panorama che spinge l’occhio fino e oltre il mare. Quei luoghi, vi assicuro, vi rimarranno nel cuore e vi faranno sentire Leopardi, che da lì chiamerete familiarmente Giacomo, più vicino a voi di quanto possiate immaginare.

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Il colle dell’Infinito – Recanati