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Segnalazione | La fame, il nuovo romanzo del regista Matteo Tarasco

“La fame”, il nuovo romanzo del regista Matteo Tarasco è “una storia di guerra, di riscatto e di liberazione, una storia d’amore e di umana fraternità”.

Continuano le segnalazioni ad inizio 2021 con il romanzo del regista Matteo Tarasco, intitolato La fame ed edito da Scatole Parlanti.

Comunicato stampa:

Roma. «Da bambino ascoltavo le storie di guerra che mio padre mi raccontava come fiabe, mischiandole abilmente con l’“Iliade” e l’“Odissea” generando nella mia mente un cortocircuito tra fantasia e realtà, tra mito e storia, tra vita vissuta ed epica, tanto che ero convinto che mio padre avesse combattuto accanto a Ulisse» racconta Matteo Tarasco, regista teatrale e drammaturgo, membro del Lincoln Center Theater di New York. «Ho iniziato a scrivere “La fame” molti anni fa, ripensando a quelle storie, mentre, mangiando sazio e annoiato delle patate fritte, mi tornò in mente un aneddoto: mio padre, che combatté giovanissimo in Grecia, mi raccontò che aveva trascorso un inverno intero mangiando soltanto una patata cruda a settimana. Ho pensato che l’abbondanza, la ricchezza, il benessere in cui la mia generazione è cresciuta era il frutto del sacrificio di molti che avevano fame. Ho pensato che la fame, grazie a quel benessere, era diventata appetito. E allora mi sono domandato di che cosa l’essere umano ha avuto fame nel corso della storia? Abbiamo avuto fame di cibo, e poi di esperienze, fame di sapere, e fame di cose da accumulare; abbiamo avuto fame di nuovi confini; fame di scoprire il mondo e poi l’universo ignoto. La fame è iscritta nel nostro istinto di sopravvivenza come pulsione primaria e, in alcuni momenti della storia del mondo, ci ha trasformato in spietati assassini. Da tutto questo è nato il mio primo romanzo». Edito da Scatole Parlanti (collana Voci, pp. 104, euro 13), “La fame” ha per protagonista Salvatore, rinchiuso in manicomio dal 1944. Soltanto molti anni dopo, la notte dell’11 luglio 1982, mentre l’Italia sfida la Germania Ovest nella finale del Mundial, riuscirà a raccontare per la prima volta la sua storia alla dottoressa Arianna, una giovane psicologa, che lo aiuterà a riappropriarsi del doloroso passato, aprendo uno squarcio sul nostro Paese ferito da una guerra che molti uomini e donne hanno combattuto, pur senza mai prendere in mano un’arma.

L’autore:

Matteo Tarasco ha lavorato a New York, Londra, Atene, Tokyo e Roma. È visiting artist all’Università di Harvard. “La fame” è il suo primo romanzo.

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SEGNALAZIONE | “Segni indelebili” di Andrea Visone

Nuova segnalazione! Oggi vi suggerisco la lettura del libro di Andrea Visone, Segni indelebili, edito da La Lepre Edizioni.

Sinossi:

“Segni indelebili” è un romanzo ambientato in un Paese dell’America Latina negli anni ’70, sconvolto da un sanguinoso colpo di Stato. Il protagonista, attaché dell’Ambasciata italiana, ci racconta il suo incontro e il suo amore per Camila, vicepresidente di un collettivo politico e i rastrellamenti, le violenze, le torture, le uccisioni e i rapimenti destinati a coinvolgere anche la ragazza che ama, che scomparirà misteriosamente. L’Ambasciata deciderà di ospitare alcuni ricercati politici, che vi si erano rifugiati per sfuggire alla polizia. Rientrato in patria, dopo cinquant’anni il protagonista avrà una grande sorpresa, destinata a riaccendere il fuoco di un amore che non era mai riuscito a dimenticare.

L’Autore:

Andrea Edoardo Visone è nato e vive a Roma. Ha diretto per molti anni l’Archivio storico del Ministero degli Esteri ed ha curato la pubblicazione della collana: I Documenti Diplomatici Italiani. Autore di articoli e saggi di carattere storico negli ultimi anni si è dedicato alla narrativa e ha pubblicato i romanzi Si era fatta sera, (Enter 2011), Convergenze parallele (Italic 2012), I giorni prima dell’alba (Italic 2013) e Chiedi agli anni lontani (Enter 2015).

Il racconto del lunedì: Fadi

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Era stata una notte come tante altre, l’ennesimo barcone era arrivato a ridosso delle coste siciliane. La Guardia Costiera era riuscita a mettere in salvo tutti quei volti disperati, che su un barcone scolorito avevano riposto la loro personale idea di futuro. Con i guanti bianchi di lattice e le mascherine verdi gli operatori sanitari avevano fatto una prima ispezione medica e, tranne una donna incinta al settimo mese che per precauzione era stata portata in ospedale, tutti sembravano in piena salute.

Tra questi c’erano molti bambini che, per la prima volta, erano giunti a destinazione tutti in vita. I bambini sono sempre speciali, nonostante le estreme difficoltà del viaggio riescono ad adattarsi ad ogni ambiente. Appena giunti nel campo di accoglienza i loro sguardi non sembrano dire qualcosa di diverso da quello degli adulti: dove siamo? Chi siete? Cosa ne sarà di noi? Ma basta una piccola attenzione a stemperare la tensione nei loro occhi e a far ripartire il loro desiderio di spensieratezza. Molti di loro partono con i loro familiari, ma quella notte tra gli ottocento disperati ce n’era uno, solo, senza nessuno che gli stringesse la mano.

Si chiamava Fadi. Il mediatore e lo psicologo che si occuparono di lui capirono che era quello il suo nome, tra l’altro era l’unica parola che erano riusciti a fargli dire. Non aveva documenti, nessuno sapeva dire nulla di lui, solo una donna raccontò che il bambino, che aveva all’incirca otto anni, era siriano e al momento dell’imbarco era stato portato da un uomo molto anziano, forse un parente. Nei mesi a seguire il bambino, in attesa che la questura decidesse la sua destinazione, trascorreva le giornate solo, lontano dagli altri bambini ed evitava gli adulti che parlavano la sua lingua. Solo quando riusciva a impossessarsi di un pallone da calcio, faceva qualche tiro contro il muro che recintava il centro di accoglienza. Quando pioveva il pallone lasciava la sua sagoma impressa sul muro e in quel momento Fadi si sedeva a terra e rimaneva per ore a osservare quelle macchie sul muro. Era allora che il bambino sembrava vulnerabile, così uno dei volontari del centro gli si avvicinò e, sedendosi accanto a lui, aspettò in silenzio che Fadi parlasse. Dopo un po’ avvenne il miracolo, perché Fadi, seppur in un inglese stentato, iniziò a parlargli di quelle macchie. Ad ognuna assegnava un nome e aggiungeva una piccola descrizione.

Così parlò del nonno che lo aveva lasciato su quella barca e se ne era andato via senza una spiegazione, dei suoi amici e dei suoi cugini, della maestra che, al suono della sirena che annunciava un nuovo bombardamento, scappò via dalla classe e non se ne seppe più nulla. Infine, indicandone una più grande come la più bella, disse che quella rappresentava la sua mamma. Di lei ricordava il bacio della buonanotte, il suo odore di fiori che gli era rimasto addosso la notte in cui lo aveva stretto a sé, proteggendolo dalle schegge delle bombe. Si sentiva colpevole, era il motivo della morte della madre e se lui non ci fosse stato, lei sarebbe ancora viva. Con gli occhi pieni di lacrime, ma con la voce ferma, Fadi chiese di poter ritornare a casa, ad Aleppo, era lì il suo futuro e il suo destino e non in un paese che non avrebbe mai compreso in pieno il dramma di un popolo barbaramente massacrato.

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Fotografia di Carmine Petruccelli

Miss Peregrine e i suoi ragazzi speciali

Un romanzo fantastico, un racconto per ragazzi ma anche per adulti è Miss Peregrine. La casa dei ragazzi speciali di Ransom Riggs, edito da Rizzoli.

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Copertina del libro

Jacob è il protagonista di questa storia fantastica in cui bambini con doti particolari e straordinari anelli temporali ci catapultano in una dimensione parallela. Quando il giovane Jacob si trova di fronte all’assurda morte del nonno Abraham, è costretto a fare i conti con una realtà incapace di credergli e che si scoprirà essere obiettivo di preoccupanti minacce. Desideroso di sapere cosa e chi ha provocato la morte del nonno e di capire quanto di vero c’è dietro le storie che raccontava sulla sua fuga dai nazisti e dai campi di concentramento, Jacob decide di intraprendere un viaggio alla scoperta della verità in quei luoghi che sembravano solo il frutto di un delirio.

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Foto d’epoca che nel romanzo rappresenta il bambino invisibile

Partendo da vecchie foto e dalla descrizione di una casa, il nostro protagonista scopre che il racconto del nonno era vero e lui stesso, avendo ereditato un dono speciale, è in pericolo di vita. Arrivato su un’isola sperduta visita la casa descritta dal nonno e oltrepassa uno strano varco temporale che lo catapulta in un preciso giorno, il 3 settembre 1940, che da allora si ripete quasi identico, proteggendo i bambini speciali che Abraham aveva conosciuto e descritto.

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Foto d’epoca presente nel romanzo

Quello che fino ad allora era stato considerato solo il frutto di un disturbo mentale, diviene reale: i bambini speciali esistono davvero. Bambini con la forza sovrumana, bambini invisibili, bambini che levitano e tanti altri popolano la casa rossa diretta dall’austera Miss Peregrine. Ma un pericolo incombe sulla casa e sui ragazzi e Jacob è l’unico a poterli aiutare.

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Foto d’epoca che nel romanzo rappresenta Miss Peregrine

Così tra descrizioni e vicende rocambolesche, mostruose creature e misteri,  si giunge alla fine di una avventura che non si conclude, ma che rimanda al secondo volume. Questa storia, a parte le veste grafica del tutto particolare, è accompagnata da un corredo fotografico composto da foto d’epoca, proprietà privata di vari collezionisti, appositamente ritoccate per renderle adatte alla narrazione dei fatti. Quando leggiamo la descrizione dei bambini speciali e vediamo le loro foto – al di là dei ritocchi – vengono in mente i circhi o i baracconi tipici dell’’800 in cui venivano mostrate le doti di persone “speciali”, ingannevoli meraviglie di un’epoca che vuole mostrare ciò che di spettacolare e unico la vita può riservare. Il successo del romanzo è indiscusso, sancito anche dalla trasposizione cinematografica di Tim Burton, che ne ha garantito un buon seguito di pubblico.

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Locandina del film di Tim Burton

Giorno della Memoria: il racconto di Marisa Errico Catone

Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

Questa frase di Primo Levi ci introduce al libro Non avevo la stella di Marisa Errico Catone, edito da Nuova dimensione editore. L’autrice ci narra una storia vera, che l’ha vista protagonista del più cupo avvenimento della storia del ‘900. All’età di otto anni la piccola Marisa, con i suoi genitori, vive la tragedia della deportazione nazista. Da Treviso passerà nei campi di concentramento di Bolzano, Innsbruck e Vienna fino alla deportazione e all’internamento in vari campi di concentramento boemi, tra cui Theresienstadt e Brandsdorf.

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Marisa Errico Catone non è ebrea e il motivo del suo arresto è dovuto ad un errore. Il cognome della madre è confuso con quello di un intellettuale ebreo antinazista, Franz Werfel, che all’epoca dei fatti era emigrato in Francia e poi negli Stati Uniti. Il cognome del nonno paterno era invece Worfel. Il racconto di Marisa Errico Catone è appassionante quanto commovente e tragico. A quasi settanta anni di distanza ha descritto con lucida partecipazione gli orrori che visse nel periodo che va dal 18 febbraio 1944 al 15 luglio 1945. Nel prologo dichiara le motivazioni per cui fino al 2011, anno della pubblicazione del libro, non aveva mai raccontato la sua vicenda. Il tentativo di rimozione della memoria delle sofferenze patite, l’incredulità degli interlocutori quando tentava di raccontare e il senso di colpa sono i principali motivi. Ma la molla che la spinse a raccontare in un libro le nefandezze di cui fu testimone, è rappresentata dall’atteggiamento negazionista e riduzionista di chi ha avuto il coraggio di negare l’esistenza delle camere a gas o di sminuire la portata di uno sterminio come quello perpetrato nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

Due bambine si accostarono e cominciarono a parlarmi in tedesco. Una delle due mi chiese perché non avessi anch’io una stella cucita sul vestito. Rimasi perplessa a quella domanda e naturalmente non fui in grado di fornire risposta. Quando ritornai alla baracca, chiesi a mia madre come mai non avessi la stella gialla come quelli dall’altra parte del campo. Mamma sembrò imbarazzata, ma senza esitazione alcuna mi rispose: “Sarà perchè non siamo ancora abbastanza importanti. Quando lo diventeremo ne daranno una anche noi…”. L’indomani mi azzardai a spiegare la cosa alla ragazzina ebrea: restò pensierosa per un istante, ma poi il suo sguardo si illuminò all’idea di essere “importante”. Quando tempo dopo seppi il significato della stella gialla applicata sul vestito, mi resi conto che ai bambini gli adulti non avevano rivelato il triste destino a cui quel simbolo era collegato.

 

Questa citazione dal racconto dell’autrice ci indica l’equilibrio e la dolcezza con cui i fatti vengono narrati, fatti che apprendiamo attraverso l’occhio di una bambina inconsapevole, dotata di quella ingenuità tipica dell’età infantile e di un altruismo che la porta ad abbattere le barriere, le differenze, a fidarsi senza pregiudizi di sorta.

La vita da deportata nel campo è difficile per Marisa e per gli altri, bambini e adulti, unico conforto è rappresentato dalla marionetta Bibì, amica, confidente che utilizza per animare e strappare un sorriso o un balzo di gioia agli altri bambini all’interno dei reticolati. La narrazione dei fatti appesantisce il cuore e fa soffrire il lettore, ma è carica di speranza e di determinazione.

Scrive Aldo Cazzullo nella prefazione:

Il libro di Marisa Catone è particolarmente prezioso. Perché, oltre a essere un racconto drammatico e avvincente, ha un grande pregio storiografico: ci ricorda che, senza nulla togliere all’immane tragedia del popolo ebraico negli anni delle Seconda guerra mondiale, la campana della Shoah suona e ancora suona anche per noi. Che nessuno può chiamarsi fuori. Che vi sono ovunque, anche in Italia, “volenterosi carnefici” e vittime innocenti. Che la bufera ha sommerso in modo a volte indiscriminato, e i salvati a volte non furono più fortunati di chi venne inghiottito subito dai flutti.

Per ascoltare il racconto direttamente dall’autrice clicca sul seguente link:

https://www.youtube.com/watch?v=jputYf4sa_I

Satyricon a Napoli ’44

Il commento di Vergine di Norimberga ad un mio post su Napoli mi ha fatto tornare in mente un libro che ho letto qualche tempo fa.

Parlo di Satyricon a Napoli ’44 di Roberto De Simone.

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Quando si legge Roberto De Simone, qualsiasi cosa scriva, si legge Napoli, si odora Napoli, si ascolta Napoli, si vede Napoli… si vive Napoli. Satyricon a Napoli ’44, edito da Einaudi, ha un sottotitolo “Fra Santa Chiara e San Gregorio Armeno”. Già da questo è chiara la formula autobiografica. Infatti, l’autore ci racconta gli avvenimenti che lo hanno visto protagonista in un anno ben preciso: il 1944.

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Sono gli anni della guerra, gli anni in cui Napoli diviene lo scenario di ogni tipo di mortificazione che una guerra può produrre. Così assistiamo alla distruzione della Chiesa di Santa Chiara, un emblema importante per la città e per la popolazione napoletana. Il suo sgretolarsi è infatti percepito come uno svuotamento di identità.

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Non c’è solo questo: nel libro c’è molto di più.

Le vicende personali del giovanissimo Roberto che si incrociano e si scontrano con quelle dei suoi familiari e compagni, rappresentano le difficoltà, le amarezze, i desideri e le aspirazioni di un’intera generazione. Gli anni della guerra e il dopoguerra hanno messo a dura prova la città e la popolazione. Ma con estrema dignità e con un equilibrio narrativo, che si mostra quasi in bilico tra la rassegnazione e l’accettazione di una realtà di fatto, vengono narrati eventi, situazioni che oggi sono considerate inaccettabili. Piccoli furti, contrabbando, lavori sottopagati, ma soprattutto gli abusi che divengono cosa quotidiana e quasi normale.

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Le giovani donne che si concedono per denaro così come i giovani con i soldati americani, che come tutti i liberatori si dimostrano degli oppressori.

Tutto questo accade in quella che oggi chiamiamo omertà. Tutti sanno, ma nessuno denuncia o fa qualcosa perché ciò possa fermarsi. A volte la vendetta prende il sopravvento e si paga con la vita. Quando parlo di omertà non lo faccio nell’accezione contemporanea, in cui il termine ha assunto il significato di viltà, ma nel senso di accettazione di una realtà presente che rappresenta l’unica opportunità per superare le difficoltà iniziali. Ovviamente questi aspetti tristi non appartenevano a tutta la popolazione, ma erano comunque presenti e De Simone li descrive con obiettività e senza porre giudizi di sorta.

Con uno stile ricercato, carico di citazioni colte, l’autore ci parla di Napoli, dei suoi vizi come dei suoi sapori, odori, profumi e della sua cultura, riuscendo a farci entrare in una città che fece da sfondo naturale a tanti film neorealisti.

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Cara madre

Cara madre,

sono mesi che non ti scrivo, posso farlo solo ora, e me ne dispiaccio. L’idea di aver creduto che io e Emete avessimo perduto la vita in mare mi procura una profonda sofferenza. Ora stiamo bene, abbiamo raggiunto una terra nuova, anche se non è una patria e le speranze che tutti noi nutrivamo si stanno dissolvendo. Il ricordo di quella mattina tremenda riaccende un dolore forzatamente sopito.

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In questo cielo non si vedono le stelle come dal nostro giardino e ho perduto anche la stella che guardavamo insieme, sentendomi ancora più solo e disperato. Le giornate sono dure, abbiamo trovato lavoro, non il lavoro per il quale abbiamo studiato, ma quello che altri non vogliono occupare. Non è questo a far male, ma l’essere guardato come diverso, come qualcosa che non ha dignità e valore. Eppure la mia vita è vita come quella di un altro uomo, come quella del vicino di casa o del proprietario del negozio di animali. La notte è lunga da far passare. La stanchezza ci fa crollare, ma imperioso ritorna nei sogni il rumore degli spari, di quegli spari che hanno tolto la vita al tuo sposo e nostro padre. Il suo sangue sacrificato per una ignobile convinzione mi macchia ancora gli occhi, ma non me li accende di odio. Non posso odiare perché non mi hai insegnato a farlo… Se ora odiassi colui che ci ha causato tanto dolore sarei esattamente come lui meschino, malvagio, corrotto. Non è questo ciò che voglio essere. Quando racconto la mia storia, non tanto per compassione ma per buttare fuori la rabbia, vengo visto come un narratore triste che racconta una storia altrettanto triste. Eppure la sofferenza che abbiamo nell’animo è tanta e forse non la si può descrivere. Non è facile esprimersi in una lingua che non è la tua. Come si fa a far capire che ci si sente come prede braccate da cani feroci in una fuga senza armi di difesa? Mi meraviglia la superficialità di tanti che non apprezzano ciò che possiedono. Ho capito il valore delle cose solo quando i miei averi consistevano solo in quello che indossavo e la mia identità in un pezzo di carta. Come far capire che ciò che fa paura è attraversare il mare in tempesta su una barca di fortuna ed essere buttati nell’acqua gelida e non un fantasma costruito per noia.

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Solo il tuo cuore di madre può capire. Mi manca il tuo abbraccio tenero e l’odore dolce della tua pelle. Non voglio rattristarti, abbiamo incontrato persone buone che ci aiutano e sono certo di poterci rivedere presto. Ti penso tutti i giorni, sogno di ritornare, di rivedere i colori caldi della nostra terra, di ricostruire la nostra casa ridotta in macerie, di rimettere insieme i tasselli di una vita sfaldata. Perché ci è capitato tutto questo? Emete mi ripete in continuazione di non pensarci, di andare avanti e rifarci una vita nuova qui in Europa, ma come si può dimenticare la propria patria…è come rinnegare se stessi. Forse non sarei dovuto partire o forse ha ragione Emete: questa è la mia vera patria, questa è la vita che devo vivere.

Ti abbraccio e ti bacio, tuo Ferhat.

Fante d’Italia

È ancora nitido il ricordo dell’ultima notte trascorsa nel letto di casa. L’indomani la partenza. Il tepore del camino, il profumo del pane appena sfornato, le raccomandazioni di mia madre, la paura della morte accompagnano questa notte insonne. La patria chiama e l’uomo risponde. Una pedina mossa su una scacchiera per grandi giocatori. La patria chiama e il soldato risponde.

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L’alba è ormai vicina, prendo lo zaino, un amore alle spalle, un ultimo abbraccio, destinazione Gorizia. È gennaio, l’aria è gelida, le mani sono livide, ma la patria ha bisogno di soldati, giovani vite nelle trincee, che cercano di sopravvivere  falciando altre vite.

La guerra si fa serrata, il mio compagno muore, l’altro è ferito. A me la stessa sorte è destinata. Mentre lo sguardo di uno è fisso al cielo e le grida dell’altro si fanno più forti degli del rumore della guerra, sento il fuoco che mi brucia la gamba. La guardo, è ferita, sanguina. Torno a casa. Una licenza di un mese per trovare riposo lontano dalla morte. Di nascosto mi faccio medicare, ma una bambina scopre il mio segreto, che resta il nostro segreto. La patria chiama e il soldato risponde.

Riparto per l’Italia, per la bambina perché possa vedere il domani. Destinazione Plava, Gorizia. In prima linea, nella trincea guardo i colpi cadere dal cielo, mi squarciano il corpo. Ora il mio nome è su una lapide, “fante d’Italia che né fiumi né monti fiaccarono l’animo”.