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Gunnarsson e il suo pastore islandese

Settembre è il mese dell’anno che più amo, la calura estiva si è ormai attenuata e inizia a sentirsi l’aria autunnale, che dà vigore e voglia di intraprendere nuove avventure, soprattutto letterarie. Settembre per me è partito proprio bene, con un libro “invernale”. Ho letto, infatti, Il pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson (ed. Iperborea). Questo romanzo breve, ma intenso, che ho inserito nella challenge #inviaggioconunlibro, ci racconta di Benedikt e del suo modo per nulla convenzionale – almeno per noi abitanti dell’Europa dal clima mite – di trascorrere il periodo di Avvento e il Natale.

La trama

“Benedikt è un pastore islandese e ogni anno, la prima domenica di Avvento, si mette in cammino per portare in salvo le pecore smarrite tra i monti, sfuggite ai raduni autunnali delle greggi. Nessuno osa sfidare il buio e il gelo dell’inverno islandese per accompagnarlo nella rischiosa missione, o meglio nessun uomo, perché Benedikt può sempre contare sui suoi fedeli “compari”: il cane Leó e il montone Roccia. Comincia così il viaggio dell’inseparabile terzetto, la “santa trinità”, come li chiamano in paese, attraverso l’immenso deserto bianco, contro la furia della tormenta che morde le membra e inghiotte i contorni del mondo, cancellando ogni certezza e ogni confine tra la terra e il cielo”.

Il pastore d’Islanda e il suo protagonista Benedikt ci raccontano una storia semplice, ma profonda e ricca di spunti di riflessione. Il nostro pastore si immerge nella natura, una natura ostile, difficile da fronteggiare, ma in questo trova il motivo per uscire dai suoi limiti; supera la paura della morte e della vita, che è sempre carica di avversità e aspettative. Trova un equilibrio ben preciso e trascorrere quel periodo tra le difficoltà gli fa, in qualche modo, far pace con sé stesso e con il resto dell’umanità. Questo è forse il motivo per cui sceglie di compiere questo percorso in assenza dell’uomo, percorso che potremmo definire “rigenerativo”. Altro elemento significativo è il periodo in cui compie il viaggio, ovvero l’Avvento, il quale si configura come il simbolo della perseveranza umana, del cammino che conduce ad una vita ritrovata. Abbiamo detto che con Benedikt ci sono due compagni di viaggio, un cane e un montone, che non sono due semplici personaggi, come scrive Jòn Kalman Stefànsson nella postfazione al romanzo, ma sono altri simboli ben precisi: lealtà, infaticabilità, prontezza, forza, coraggio… Questi due protagonisti rappresentano quegli elementi fondamentali nella vita dell’individuo per poter affrontare l’esistenza. A tal proposito è bello citare una delle tante riflessioni presenti nel romanzo:

Una candela solitaria è quasi come una persona, un’anima abbandonata al dubbio, che inaspettatamente si trasforma quando qualcuno si avvicina, quando non è più sola.

Benedikt è solo con sé stesso, con le sue paure e illusioni, ma quando ha accanto figure importanti, Leó e Roccia, il suo animo, come la fiamma della candela, si modifica, si adatta al cambiamento, diventa più forte, trovando la sua nuova fisionomia. Si cambia continuamente nella vita, spesso si assumono i contorni del mondo che ci circonda, così come Benedikt ha saputo trovare il suo spazio, la sua dimensione. Il pastore d’Islanda è una storia apparentemente semplice, ma è dispensatrice di riflessioni senza essere leziosa. Lo stile di Gunnarsson è molto semplice e sobrio, che sa descrive con concretezza e realismo le avversità climatiche che il protagonista deve superare:

Un realismo onirico, una narrazione poetica, di natura quieta, eppure capace di contenere l’urlo che Edvard Munch catturò sulla tela, una posatezza che è una sorta di apatia, probabilmente scaturita dalla depressione. Non domina il buio in questo stile, e nemmeno la luce, forse una sorta di crepuscolo.

Questo romanzo, che chiude la produzione in lingua danese di Gunnarsson, ha alla sua origine una storia realmente accaduta:

Il 10 dicembre 1925 un gruppo di uomini sale sui monti della regione orientale per cercare le pecore, uno di loro si chiama Benedikt Sigurjònsson, detto Fjalla-Bensi. Sei anni dopo, su una rivista, viene pubblicata la cronistoria delle peripezie di Fjalla-Bensi, raccontando come abbia proseguito da solo per cercare prima i cavalli poi le pecore, mentre i suoi compagni avevano fatto ritorno con alcuni ovini alle aree abitate il 13 dicembre; come sia tornato nel consorzio civile il giorno dopo Natale, in seguito a varie traversie, quando la gente dei casali vicini già cominciava a organizzare le ricerche per recuperarlo. Gunnar legge il resoconto mentre si trova in Danimarca e quando la rivista Julesne gli chiede di scrivere una storia che si svolga in Islanda, elabora Il buon pastore dal testo su Fjalla-Bensi. (…) Poi passano cinque anni. Dopo di che la casa editrice tedesca Reclam contatta Gunnar chiedendogli di scrivere un breve romanzo, una novella, per la collana Universal Bibliothek e così nasce Il pastore d’Islanda. Benedikt e la sua ricerca delle pecore nelle aree desertiche degli altipiani interni nel mese più crudele dell’inverno islandese trovano quindi le loro radici in ciò che chiamiamo realtà, per distinguerlo dalla finzione letteraria, benché il confine tra le due cose sia più ambiguo di quanto molti ritengono, così ambiguo che se tenti di tracciarlo con una linea netta puoi mettere seriamente a rischio la tua salute mentale.

Gunnar Gunnarsson è stato uno scrittore rappresentativo dell’Islanda e spesso candidato al Nobel. Si dice, ma non se ne ha la certezza, che Il pastore d’Islanda abbia ispirato Hemingway per il suo Il vecchio e il mare.

La vita

Gunnar Gunnarsson nacque nel 1889 in una fattoria dell’est dell’Islanda, non molto lontano dal più grande ghiacciaio dell’isola. Gunnar seguì la famiglia in diversi spostamenti in varie fattorie dell’Islanda, dove si occupavano di agricoltura e allevamento. Si tratta sempre di piccole comunità rurali che spesso non raggiungevano i cento abitanti e dove la povertà era assai diffusa. Questa vita isolata e che procede a stento resterà molto impressa nella memoria di Gunnarsson e non mancherà di riportarla in numerosi scritti. Fin da giovane nei desideri di Gunnarsson c’è la voglia di farsi strada nel mondo della letteratura, così dopo una formazione da autodidatta o acquisita in piccole scuole rurali riesce ad accedere, all’età di diciotto anni, ad una scuola superiore in Danimarca. Il distacco dall’Islanda sarà forte e rappresenterà una vera frazione spirituale, che lo trasporta dall’età infantile a quella adulta. La frattura è anche linguistica, infatti Gunnarsson sceglie di usare la lingua danese per i suoi lavori e l’adotterà fino alla Seconda Guerra Mondiale. È in questo periodo che raggiunge il grande successo, probabilmente perché al pubblico danese piace l’atmosfera che Gunnarsson sa ricreare, vedendo in esso la possibilità di potersi riappropriare di quel contatto con gli elementi della natura, ovvero un mondo che a causa dello sviluppo industriale stava scomparendo. Il primo conflitto mondiale colpisce Gunnarsson in maniera particolare, tant’è che vede nella guerra l’apoteosi della distruzione in contrapposizione con il vivere armonico tra gli esseri umani e la natura. Nel corso degli anni Venti e Trenta, Gunnar diviene il paladino del verbo panscandinavo, a cui dedicherà numerose conferenze e interventi sulla stampa. E su questa scia, negli anni Trenta, si dedica alla scrittura di un discreto numero di romanzi storici, che richiamano vicende islandesi del passato. Nel 1939 ritorna in Islanda, in una fattoria, ma il Dopoguerra presenta un tessuto sociale mutato, così con la moglie decide di trasferirsi a ReyKjavìk, dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 1975, all’età di 86 anni.

Gli esseri umani hanno molti modi di vivere la vita. Alcuni parlano, altri tacciono. Certi devono essere circondati dai loro simili per stare bene. Altri non si sentono compiuti se non sono totalmente soli, almeno di tanto in tanto.