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RECENSIONE | Il Sogno, un racconto gotico di Mary Shelley

Il sogno è un racconto gotico di Mary Shelley, ambientato nella Francia del XVII secolo. Lo trovate con il testo inglese a fronte in una gradevole edizione della casa editrice La Vita Felice. Nell’introduzione, a cura di Franco Venturi, troviamo delle informazioni riguardo la stesura dell’opera.

[Il racconto fu] pubblicato per la prima volta sull’annuario letterario The Keepsake nel 1832. Era accompagnato da una illustrazione dipinta da Louisa Sharpe e incisa da Charles Heath. Da allora è stato ristampato in diverse antologie. La riproduzione olografica del manoscritto del racconto, conservata nella Carl H. Pforzheimer Library di New York, mostra come Mary Shelley abbia modificato la versione originale del racconto per adattare meglio il personaggio di Constance all’illustrazione di Louisa Sharpe.

Constance nell’illustrazione di Louisa Sharpe

Il racconto narra la vicenda tragica di Constance, contessa di Villeneuve, innamorata di Gaspar de Vaudemont. L’amore tra i due però non può avere un lieto fine a causa dell’odio che i genitori di entrambi provano l’uno verso l’altro. In uno scontro, a cui prende parte anche l’amato Gaspar, i due uomini si uccidono reciprocamente. Constance è quindi combattuta a causa dell’amore che prova per Gaspar, ma anche per il senso di onore che ha verso il padre e i fratelli, anch’essi vittime dell’infame conflitto. Interviene nella vicenda anche il re di Francia, Enrico VII, che è deciso a far sposare il suo prode cavaliere con la bella Constance. Quest’ultima dopo aver trascorso un anno di lutto strettissimo, lontana dal mondo e dedita solo al dolore alle lacrime, ha deciso di recarsi nel famoso giaciglio di Santa Caterina per trascorrere lì una notte intera. Constance è certa che nel sonno la santa le suggerirà la giusta cosa da fare, anche se rischia la sua vita addormentandosi su una sporgenza rocciosa, che sovrasta la Loira. A vegliare sul suo sonno, però, c’è il suo amato Gaspar, che la salva dal pericolo giusto in tempo. Il racconto si chiude, ovviamente, con le nozze tra i due. Si legge ancora nell’introduzione:

Il sogno è più ambiguamente gotico di alcuni degli altri racconti di Shelley, ma contiene tutti i più comuni temi del genere, quali l’amore contrastato, le visioni nei sogni e le visioni dei fantasmi. La storia potrebbe essere stata influenzata da The Eve of St. Agnes di John Keats, un poema narrativo romantico di 42 strofe spenseriane ambientato nel Medioevo. Composto da John Keats nel 1819 e pubblicato nel 1820, venne considerato da molti dei contemporanei dell’autore e dai successivi poeti vittoriani uno dei migliori, al punto da influenzare tutta la letteratura del XIX secolo. Keats basò l’opera sulla credenza popolare secondo la quale una ragazza poteva vedere il suo futuro marito in sogno se eseguiva certi riti proprio alla vigilia di Sant’Agnese, la notte tra il 20 e il 21 gennaio.

La differenza con l’opera di Keats e le diverse stesure per adattare il testo all’incisione della Sharpe non hanno influito sulla pregevolezza di questo racconto, che ci fa amare sempre di più la nostra cara Mary Shelley.

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J.-A. Barbey D’Aurevilly tra dandismo e horror

Poco conosciuto in Italia, Barbey D’Aurevilly è un autore francese del XIX secolo, che ho incontrato durante gli studi universitari.

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J.-A- Barbey D’Aurevilly

Jules-Amédée Barbey nasce nel 1808 a Contentin (Normandia) e solo successivamente aggiunse al suo nome il titolo D’Aurevilly, che la famiglia possedeva dal 1756, quando il nonno dell’autore se lo procurò. Studiò legge all’Università di Caen e negli anni della gioventù si fece fervente rappresentante di opinioni anticlericali e repubblicane. Fu autore di numerosi racconti e opere di narrativa, tra questi Un prete sposato e La Stregata, ma fu anche autore di un volumetto sul dandismo e su George Brummell. Il dandismo fu per Barbey D’Aurevilly una vera e propria ossessione. Cercò di vivere alla maniera del dandy, avendo come modello Brummell che tuttavia non incontrò mai personalmente, ma che conobbe attraverso le descrizioni dell’amico Guillaume-Stanislas Trébutien. Si trasferì definitivamente a Parigi nel 1833 (dove vi morì nel 1889), vivendo agli inizi lontano dal mondo letterario e giornalistico, ma subendo il fascino degli ambienti aristocratici e di personaggi d’oltremanica come Lord Byron e Scott. Visse nell’agio, sperperando parte degli averi per conformarsi a quell’idea di dandy che si era costruito. Ritornò alle sue origini cattoliche, monarchiche e aristocratiche, divenendo sostenitore di Napoleone III. In realtà egli risultò sempre contraddittorio sia come cattolico che come dandy. Come dicevamo in precedenza, D’Aurevilly fu scrittore di numerosi racconti, i quali rispecchiano pienamente il suo tempo. L’opera più conosciuta forse è Le diaboliche, una raccolta di sei racconti in cui l’autore mostra tutta la sua arte nel porgere e mostrare una storia.

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Chi oggi intraprende la lettura dell’opera di D’Aurevilly potrebbe stancarsene subito. Infatti, la caratteristica principale del nostro autore è un gusto nel raccontare e descrivere gli antefatti che rallentano la narrazione della vicenda. Questa tipologia di scrittura è certamente figlia di un’epoca che amava ascoltare, soffermarsi sui particolari e trascorrere il tempo nei caffè a leggere e scrivere. C’era un certo piacere narcisistico nel narrare e nell’ascoltare, piacere che lo stesso D’Aurevilly descrive nei racconti, quando le vicende sono narrate da un personaggio/narratore ad ascoltatori in un salotto o ad un singolo interlocutore, come avviene nei racconti A un pranzo di atei o La tenda cremisi.  Le lunghe introduzioni servono al nostro autore anche ad aumentare la curiosità del lettore, il quale al termine del racconto si sarà fatto un’idea del protagonista, ma avrà sempre una sensazione di incompletezza dovuta a quella capacità di D’Aurevilly di attribuire il mistero alla vicenda o intorno al personaggio. Le protagoniste di Le diaboliche – titolo non casuale – sono donne avvenenti, spregiudicate, calcolatrici, diaboliche appunto. Quell’aura di mistero che l’autore costruisce intorno a personaggi spregiudicati, capaci di commettere ogni tipo di azione o di provare sentimenti forti come l’odio e la vendetta fino agli estremi termini, aiuta l’autore a mettere insieme un percorso di narrazione che conduce il lettore alla sorpresa e alla meraviglia.

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Quando parliamo di sorpresa o meraviglia ovviamente facciamo riferimento non ad una azione spettacolare ma ad una caratteristica specifica. Mi spiego meglio: oggi potrebbe risultare alquanto macabro custodire il cuore essiccato di un figlio morto prematuramente, o fare a pezzi il corpo di un contendente in amore e darlo in pasto ai cani può apparire alquanto orribile… invece tutto questo è presente nei racconti di D’Aurevilly e viene narrato con una naturalezza tale da apparire quasi la normalità. Questo è l’origine della meraviglia, di cui si è persa l’essenza vera, ma che possiamo riscoprire grazie ad autori come D’Aurevilly. Egli ci narra storie semplici ma che sottendono a qualcosa di mostruoso. Forse in esse è possibile vedere quel gusto per l’horror o la letteratura gotica tanto in voga nella seconda metà del Settecento fino all’Ottocento inoltrato e che di sicuro non sfuggirono a D’Aurevilly.