Archivi tag: Parigi

Le ‘illusioni perdute’ di Lucien de Rubempré

Le Illusioni perdute è un romanzo di Honoré de Balzac, pubblicato in tre parti (I due poeti; Un grande uomo di provincia; Eva e David) tra il 1837 e il 1843.

Dedicato a Victor Hugo, fa parte di quella che in un primo momento doveva chiamarsi “Studi Sociali”, ma che poi prende il nome ben più evocativo di Commedia umana, ovvero una raccolta di 137 opere di vario genere, che Barzac scrisse a partire dal 1835. Con la Commedia umana Balzac compie una grandissima operazione letteraria che lo portò ad intrecciare personaggi e vicende. Un esempio di questa modalità di scrittura è proprio Le illusioni perdute, che comprende tre parti, scritte in tempi diversi e collegate tra loro.

Honoré de Balzac

Ma di cosa parla questo romanzo? La vicenda si svolge durante il periodo storico della Restaurazione francese, dopo la caduta di Napoleone Bonaparte, e racconta del fallimento esistenziale di Lucien Chardon, giovane provinciale alla ricerca di amore e gloria. Per tentare l’ascesa nell’alta società Lucien sceglierà di usare il cognome della madre, de Rubempré, ma questo non basterà a fargli fare fortuna. Lucien si innamora, apparentemente riamato, della coltissima e nobile Madame de Bargeton, con la quale, agli inizi del secondo romanzo, medita una fuga a Parigi. Ben presto però emergono le differenze sociali, culturali ed economiche tra i due, così la perde e di seguito incappa in situazioni in ambito letterario e giornalistico che si riveleranno disastrose. Ritornerà al suo paese natale, dopo la morte improvvisa di Coralie, la donna di cui nel frattempo si è innamorato. Ad Angoulême le cose procedono sempre più nella direzione sbagliata, tant’è che ad un certo punto Lucien pensa al suicidio.

Lucien e Madame de Bargeton (fonte Wikipedia)

Insomma, quella di Lucien è una esistenza già segnata dal titolo della raccolta. Balzac con Lucien ci racconta la debolezza dell’uomo di provincia, di un uomo che aspira a grandi cose, ma non possiede i mezzi economici e culturali per poter fare il salto di qualità. Le sue ambizioni, all’inizio grandi, si mostreranno per quelle che sono, ovvero delle vane illusioni.

Altro personaggio importante nella vicenda è David Séchard, amico fraterno di Lucien di cui sposa la sorella Eva. David è un bel ragazzo e ha ambizioni da letterato. Suo padre, un vecchio avaro gli vende la propria attività a condizioni molto sfavorevoli; David, per incapacità, si trova ben presto sull’orlo della rovina. L’illusione di David è quella di cercare un metodo segreto per la produzione di carta a basso costo e nel contempo di miglior qualità. David riuscirà a trovare la “formula magica”, ma la concorrenza gli sottrae il brevetto e lo manda alla rovina. Finirà in carcere. Questo episodio spingerà Lucien al suicidio, ma un personaggio curioso, un misterioso sacerdote spagnolo di nome Carlos Herrera, gli impedisce di farlo, salvandogli così la vita. Inoltre offre a Lucien un’ampia disponibilità economica, insieme al successo e alla vendetta che questi desidera, a patto che gli ubbidisca ciecamente e senza mai discutere. Questo è un altro personaggio ricorrente nelle opere di Balzac e non è altro che l’avventuriero Vautrin, plasmato su una persona realmente esistita, ovvero il criminale francese Vidocq.

Lucien e David (fonte Wikipedia)

Le Illusioni perdute, ma l’intera Commedia umana, sono la migliore lettura che uno scrittore abbia potuto fare della Francia del XIX secolo. Balzac, nonostante la critica non sempre sia stata benevola con lui, è un acuto osservatore dei vizi, delle virtù, dei desideri della sua società. Ogni personaggio descrive un modello che lui trae dal mondo che lo circonda. Vautrin, ad esempio, è l’emblema del negativo, è tutto ciò che di corrotto e di criminale c’è nella società borghese. Balzac sa osservare anche le dinamiche sociali ed economiche della società in cui vive. La vicenda di David serve a Balzac per denunciare i meccanismi connessi alla nuova industria tipografica, come la crescente richiesta di carta o la necessità della innovazione tecnologica e chimica.

Balzac sa guardare il mondo con il microscopio e sa occultarlo con estrema maestria nelle sue storie. Molti lo hanno accusato di essere uno scrittore piatto, banale, costretto a scrivere per vivere, eppure Balzac, senza forzature, ci fa conoscere quella sua contemporaneità in una maniera così naturale che solo un grande scrittore può fare.

L’ultimo fiore che ho in me, il romanzo d’esordio di Alexandre Zappalà 

Si dice che ogni essere umano nel corso della sua vita debba vivere dei momenti di profondo buio. Dei momenti di grande dolore, di infinita solitudine. Dei momenti in cui l’anima sembra perdere ogni traccia d’ossigeno, in cui manca il respiro, in cui il cuore lacerato non riesce neanche a trovare la forza di gridare, perché il dolore ha eliminato anche quello.

Così si apre il romanzo d’esordio di Alexandre Zappalà L’ultimo fiore che ho in me, edito da Epsil.

Ho scoperto questo romanzo grazie all’autore stesso che mi ha gentilmente inviato in lettura i primi due capitoli. Leggendoli veniamo presi dalla curiosità. La vicenda si sviluppa per archi temporali e luoghi diversi. Dal 24 ottobre 2012 facciamo un salto di due anni nel passato viaggiando tra Parigi, Mosca e poi Roma. Conosciamo così quelli che sono i personaggi principali: Elisabeth e Mark.

Elisabeth ha 27 anni e deve “fare i conti con l’inferno dei dolori più grandi: la morte”. Mark invece ha 32 anni, insegna letteratura in un liceo parigino, è appassionato di poesia e di libri con un passato di abbandono, che però non ha scalfito il suo buon carattere. I due si conoscono in una libreria e da lì che inizia un percorso coinvolgente per entrambi. Oltre ai due protagonisti, l’autore ci presenta anche altri personaggi che ruotano nella vicenda, la cui presenza non è affatto casuale. Conosciamo allora Helene, una adolescente che vive a Mosca perché il padre lavora lì come diplomatico, e un uomo misterioso che la salva da un tentativo di stupro ad opera di giovani balordi. Insomma, l’intreccio si fa interessante e la struttura del racconto, con lo stile dell’autore, è sicuramente accattivante e la struttura costruita su diversi passaggi di luogo e vicende parallele tiene il lettore incollato alla scrittura per conoscere l’esito della vicenda, che si configura come un percorso di sofferenza, con la morte che incombe e un destino che sembra prendersi gioco della vita stessa. Volete sapere come andrà a finire tra Mark ed Elisabeth? Beh, acquistate il libro e lo scoprirete, se non altro per incoraggiare il lavoro di un esordiente che ama il proprio lavoro e crede fortemente nella potenza della scrittura.

Alexandre Zappalà

J.-A. Barbey D’Aurevilly tra dandismo e horror

Poco conosciuto in Italia, Barbey D’Aurevilly è un autore francese del XIX secolo, che ho incontrato durante gli studi universitari.

ibarbea001p1
J.-A- Barbey D’Aurevilly

Jules-Amédée Barbey nasce nel 1808 a Contentin (Normandia) e solo successivamente aggiunse al suo nome il titolo D’Aurevilly, che la famiglia possedeva dal 1756, quando il nonno dell’autore se lo procurò. Studiò legge all’Università di Caen e negli anni della gioventù si fece fervente rappresentante di opinioni anticlericali e repubblicane. Fu autore di numerosi racconti e opere di narrativa, tra questi Un prete sposato e La Stregata, ma fu anche autore di un volumetto sul dandismo e su George Brummell. Il dandismo fu per Barbey D’Aurevilly una vera e propria ossessione. Cercò di vivere alla maniera del dandy, avendo come modello Brummell che tuttavia non incontrò mai personalmente, ma che conobbe attraverso le descrizioni dell’amico Guillaume-Stanislas Trébutien. Si trasferì definitivamente a Parigi nel 1833 (dove vi morì nel 1889), vivendo agli inizi lontano dal mondo letterario e giornalistico, ma subendo il fascino degli ambienti aristocratici e di personaggi d’oltremanica come Lord Byron e Scott. Visse nell’agio, sperperando parte degli averi per conformarsi a quell’idea di dandy che si era costruito. Ritornò alle sue origini cattoliche, monarchiche e aristocratiche, divenendo sostenitore di Napoleone III. In realtà egli risultò sempre contraddittorio sia come cattolico che come dandy. Come dicevamo in precedenza, D’Aurevilly fu scrittore di numerosi racconti, i quali rispecchiano pienamente il suo tempo. L’opera più conosciuta forse è Le diaboliche, una raccolta di sei racconti in cui l’autore mostra tutta la sua arte nel porgere e mostrare una storia.

9788807822650_quarta

Chi oggi intraprende la lettura dell’opera di D’Aurevilly potrebbe stancarsene subito. Infatti, la caratteristica principale del nostro autore è un gusto nel raccontare e descrivere gli antefatti che rallentano la narrazione della vicenda. Questa tipologia di scrittura è certamente figlia di un’epoca che amava ascoltare, soffermarsi sui particolari e trascorrere il tempo nei caffè a leggere e scrivere. C’era un certo piacere narcisistico nel narrare e nell’ascoltare, piacere che lo stesso D’Aurevilly descrive nei racconti, quando le vicende sono narrate da un personaggio/narratore ad ascoltatori in un salotto o ad un singolo interlocutore, come avviene nei racconti A un pranzo di atei o La tenda cremisi.  Le lunghe introduzioni servono al nostro autore anche ad aumentare la curiosità del lettore, il quale al termine del racconto si sarà fatto un’idea del protagonista, ma avrà sempre una sensazione di incompletezza dovuta a quella capacità di D’Aurevilly di attribuire il mistero alla vicenda o intorno al personaggio. Le protagoniste di Le diaboliche – titolo non casuale – sono donne avvenenti, spregiudicate, calcolatrici, diaboliche appunto. Quell’aura di mistero che l’autore costruisce intorno a personaggi spregiudicati, capaci di commettere ogni tipo di azione o di provare sentimenti forti come l’odio e la vendetta fino agli estremi termini, aiuta l’autore a mettere insieme un percorso di narrazione che conduce il lettore alla sorpresa e alla meraviglia.

d'Aurevilly

Quando parliamo di sorpresa o meraviglia ovviamente facciamo riferimento non ad una azione spettacolare ma ad una caratteristica specifica. Mi spiego meglio: oggi potrebbe risultare alquanto macabro custodire il cuore essiccato di un figlio morto prematuramente, o fare a pezzi il corpo di un contendente in amore e darlo in pasto ai cani può apparire alquanto orribile… invece tutto questo è presente nei racconti di D’Aurevilly e viene narrato con una naturalezza tale da apparire quasi la normalità. Questo è l’origine della meraviglia, di cui si è persa l’essenza vera, ma che possiamo riscoprire grazie ad autori come D’Aurevilly. Egli ci narra storie semplici ma che sottendono a qualcosa di mostruoso. Forse in esse è possibile vedere quel gusto per l’horror o la letteratura gotica tanto in voga nella seconda metà del Settecento fino all’Ottocento inoltrato e che di sicuro non sfuggirono a D’Aurevilly.