Aveva poco più di vent’anni quando Matilde Serao pubblicò il suo quarto libro Leggende napoletane. Il volumetto è la raccolta di circa quindici leggende che fanno parte di quello straordinario sostrato culturale che rende unica Napoli e la sua storia.

Ad introdurre ogni singolo capitolo troviamo un breve scritto che la Serao utilizza per rivolgersi al lettore o per introdurre la narrazione e che dovrebbe incuriosire il lettore, curiosità che però non viene poi soddisfatta del tutto. Lo stile della Serao risulta in questo scritto un po’ noioso e banale, forse dovuto alla giovane età e quindi a una non piena maturità stilistica. In esso si intravede ancora una certa tendenza romantica, che non ancora ha niente a che vedere con quel verismo che le è stato attribuito per Il ventre di Napoli o per la sua attività giornalistica. La Serao, in questa sua raccolta di leggende, ci racconta di Virgilio mago, del Munaciello, di fantasmi e di tante altre storielle legate a palazzi, personaggi o luoghi di Napoli.

Nonostante l’autrice si sforzi di raccontare, non riesce a nostro avviso a raggiungere i livelli di una narrazione come potrebbe essere quella di Benedetto Croce, il quale in maniera alquanto sublime raccolse un volume prezioso di storie e leggende napoletane. Un lavoro, quello di Croce, durato una vita intera e realizzato da chi conosceva profondamente Napoli e ne assaporava odori e sapori, atmosfere e sfumature, possiamo dire, in maniera verace. La Serao sa vedere Napoli, a lei è attribuita una nuova capacità di analisi, quasi psicologica, ma le manca la napoletanità. Non dimentichiamo le origini greche della scrittrice, la quale giunse a Napoli nel 1861. In Leggende napoletane la Serao è frettolosa, quasi frammentaria; è come se si limitasse ad appuntare una storia ascoltata senza volerne comprendere l’identità vera e sostanziale. È spesso scettica e distaccata nella narrazione sia qui che in altre opere; è vero che si tratta di vicende fantastiche, ma esse fanno parte della storia di una città che vive al limite tra reale e fantastico e per essere così com’è ha bisogno di credere che ‘O Munaciello esiste o che da qualche parte, nelle fondamenta di Castel dell’Ovo, ci sia un uovo nascosto da Virgilio. Napoli ha la sua mitologia che va rispettata e compresa, così come i Greci credevano ai loro miti.

Con Il ventre di Napoli, la Serao ritorna a descrivere Napoli, a parlare dei vicoli, della quotidianità, di quel ventre in cui il popolo partenopeo trova alimento. Nonostante la critica ne parli bene, non possono non sfuggirci alcuni passaggi in cui – visto il carattere della scrittrice che Scarfoglio definì “donna tanto convenzionale e pettegola e falsa tra la gente e tanto semplice, tanto affettuosa, tanto schietta nell’intimità, tanto vanitosa con gli altri e tanto umile meco, tanto brutta nella vita comune e tanto bella nei momenti dell’amore, tanto incorreggibile e arruffona e tanto docile agli insegnamenti” – emerge una certa tendenza della Serao a porre giudizi nelle sue descrizioni:
Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi. (Il Ventre di Napoli)
Risulta evidente lo stereotipo tipico del napoletano o del pulcinella famelico. Questo aspetto forse, ci azzardiamo a dire, trascura una condizione di povertà della popolazione non solo napoletana. Infatti Antonio Pascale, nella sua introduzione all’opera dice che la Serao non fa altro che descrivere – inconsapevolmente forse – la condizione di gran parte del popolo meridionale e non solo.
La superstizione del popolo napoletano – oh, povera gente che è vissuta così male e con tanta bonarietà, che muore in un modo così miserando, con tanta rassegnazione! – la superstizione di questo popolo ha fatto una dolorosa impressione a tutti! (Il Ventre di Napoli)
Colpisce molto l’espressione “dolorosa impressione”, come se il popolo napoletano vivesse in una condizione di non ritorno… Ritornano in mente le parole di Pier Paolo Pasolini, il quale però parla del popolo napoletano in termini ben diversi:
Benchè sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono, appunto, in concreto, e per di più ideologicamente, simpatiche. Essi infatti non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo per me è molto importante (…). Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della repubblica italiana. (Gennariello)
Insomma la Serao guarda il ventre di Napoli, lo descrive, ma con distacco, come se stesse su un’altura e attraverso il filtro di un binocolo. Non riesce a lasciarsi andare, si ferma in un angolo ad osservare uno spettacolo che poi trascrive su carta. E questo forse è il motivo che la avvicina al verismo, ma risulta lontana mille miglia dal verismo autentico di Verga, Capuana, De Roberto. Questo sarà il motivo per cui la Serao è caduta nel dimenticatoio. Carducci disse di lei come “la più forte prosatrice d’Italia”, ma ciò non bastò a offuscare il giudizio di Scarfoglio che, nonostante il legame che i due ebbero, non la giudicò una scrittrice di particolare spessore.