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Il racconto del lunedì: Speranza

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Ogni mattina quando si svegliava era come se dovesse partire per affrontare la più grande delle battaglie. Diceva tra sé che la sua vita era una canzonatura fin dalla nascita e aveva avuto il sigillo della beffa quando i suoi genitori le assegnarono il nome: Speranza.
Grandi aspettative erano caricate su di lei: era la speranza di mamma e papà, la speranza delle maestre di vedere i frutti del loro lavoro, era la speranza del datore di lavoro, era la speranza di un mondo migliore…
Ma Speranza l’aveva persa la speranza!
Aveva raggiunto un livello di frustrazione che non la faceva più dormire. Ogni sera si infilava esausta nel suo letto, ma appena poggiava la testa sul cuscino si sentiva come il cellulare messo in carica: i suoi occhi si sbarravano e il sonno andava via… Anche il sonno scappava da lei, prima la fiaccava poi se ne andava chissà dove.
Così trascorreva le notti a ripensare ai momenti salienti della sua vita. Ognuno ha dei ricordi indelebili, momenti di festa, giornate trascorse con la famiglia e gli amici, o forse no? Sì, anche Speranza ce li aveva: ricordava bene il giorno della sua prima comunione. Tutte le bambine erano vestite da sposine, con il bouquet di roselline bianche… come erano belle! Le ricordava ad una ad una soprattutto quando si rivolgevano a lei chiamandola “Suor Speranza”, perché sua mamma aveva deciso che sarebbe stato opportuno metterle il vestito da suora, il velo e il crocifisso sul petto. Alla fin dei conti non importava, pensava Speranza, oggi incontrerò Gesù e a lui non interessa cosa indosso, ma le risatine non se le era dimenticate negli anni, come non aveva dimenticato la bella festa al ristorante. Ogni tavolo sembrava un mondo a sé, tutti i parenti litigati tra di loro e il fatto che fossero costretti a stare seduti tutti in una sola stanza aveva alimentato un astio proprio verso Speranza, che era il motivo di quella convivenza forzata. Ma Speranza era troppo piccola per poter capire certe dinamiche e di certo non riusciva a comprendere perché la nonna le dicesse che il pranzo offerto era paragonabile al cibo per maiali… Ma non importava nemmeno questo a Speranza, anche se non aveva dimenticato quel tono di voce aspro con cui la nonna si rivolgeva a lei. Non aveva dimenticato le cattiverie delle cugine che le rubavano ogni cosa e quando rompevano un oggetto a casa della nonna davano sempre la colpa a lei. Non aveva dimenticato che alle sue feste di compleanno nessuno era mai andato e finiva per giocare da sola e spegnere le candeline con quel magone in gola che faceva un gran male.
Ormai era grande, aveva superato tutte quelle sciocchezze, tutte quelle piccole cattiverie e angherie che era costretta a sopportare gratuitamente. Era certa che sarebbe arrivato il giorno in cui tutto le sarebbe stato restituito, tutta la sua disponibilità, tutta la sua voglia di aiutare, ma ogni giorno sembrava allontanare sempre di più questa idea. Il colpo di grazia le arrivò quando conobbe Ivan, un ragazzo di bell’aspetto, gentile, affettuoso che non mancava di confessarle quanto le volesse bene, quanto lei fosse importante per lui. Ma un giorno Speranza perse anche la speranza in Ivan, ciò avvenne quando capì che lui voleva bene a Speranza, ma fino ad un certo punto, che Speranza era importante per lui, ma fino ad un certo punto. Insomma, Speranza era importante per Ivan per tutto quello che lei era in grado di dargli, ma lui non ricambiava nemmeno con un caffè fatto in ufficio… Per lei non c’era mai, aveva sempre qualcosa da fare o qualcuno da raggiungere in qualche posto. Ben presto Speranza capì che bisognava dare una svolta alla sua vita e la prima cosa che decise di fare era cambiare il suo nome. In una di quelle notti insonni decise di farsi chiamare Bellezza, perché lei, nonostante gli altri, voleva continuare a vivere e a farlo nella bellezza contro la bruttezza del mondo.

 

Il racconto del lunedì: Volti

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“Spesso capita di rivedere luoghi o persone che un tempo trasmettevano particolari emozioni e che a distanza di anni sembrano o perdute o appaiono esagerate perché amplificate da occhi infantili o cuori giovanili”.

Questa citazione che aveva letto in un libro di Modiano, lo ossessionava. Sembrava essergli attaccata addosso come la sua ombra; non riusciva a liberarsi dai ricordi. Capitava che a fine giornata si sentisse completamente privo di forze. Sembrava che i suoi pensieri per realizzarsi e per continuare a rimanere vivi gli consumassero tutte le energie. La sua mente era stanca, il suo corpo senza energie, i suoi occhi non erano più in grado di vedere. La mente mischiava il ricordo al desiderio, l’esperienza ad una realtà deludente, producendo sentimenti che lo portavano allo sconforto e all’incapacità di reagire. Era stanco di lottare, era stanco di sperare che il domani potesse riservagli qualcosa di migliore perché le sue attese erano sempre e puntualmente smentite. I principi di lealtà, di sincerità, di altruismo in cui credeva venivano, ogni volta, schiacciati dalla prevaricazione, dall’incompetenza, dall’ignoranza viziata di chi riusciva a trovare una via di uscita o una via privilegiata per ottenere ciò che non gli spettava.

Tutto questo, insieme alla incapacità degli altri di capire la sua vera natura, portarono Benjamin a isolarsi, ad allontanarsi da quel mondo che non sentiva più suo. La piazza in cui da bambino aveva giocato, in cui aveva trascorso le estati a chiacchierare con gli amici, in cui si era innamorato ora sembrava il luogo del patibolo, in cui passando si viene additati, giudicati e condannati. Le persone sembravano cambiate, intente a tessere le trame esclusivamente dei propri interessi… forse erano sempre state così, ma solo ora le aveva viste oltre la loro maschera.

Le giornate sembravano trascorrere sempre uguali, a cambiare erano solo le stagioni, ma, come le ore, ritornavano simili a se stesse, con le loro imperfezioni e bellezze. Non c’era possibilità di cambiare le cose, l’unica alternativa erano le escursioni in quei luoghi che gli permettevano di capire la verità delle cose. Gli bastava uno sguardo, un gesto di un uomo anziano, le grida al mercato di chi vendeva la verdura a dargli la speranza che la vita è qualcosa di concreto, di sensato e non un accidente capitato per caso. Fu in una di quelle strane passeggiate che raccolse, in uno scatto fotografico, gli occhi di un bambino che lo guardavano con meraviglia, con il desiderio di sapere e di conoscere.

Fu quella la scintilla che riaccese la voglia di tornare a sperare, di uscire dall’immobilismo. La pubblicazione di quella fotografia su una community di fotografi gli diede una notorietà inaspettata e la possibilità di intraprendere un nuovo percorso professionale. Quando tenne la sua prima intervista ad un giornale che si occupava di fotografia internazionale, alla domanda sul perché avesse iniziato a fotografare volti, rispondeva: nei volti e negli occhi delle persone ritrovo la speranza e la possibilità di dare un senso alla mia esistenza; la fotografia è una via d’uscita, la mia via d’uscita.

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Foto di Carmine Petruccelli

Il racconto del lunedì: Contro la mafia

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Era un giorno come tanti e la vita aveva preso il suo nuovo corso regolarmente. Da quando era partita da Palermo molte cose erano cambiate. Non aveva più contatti con la sua vita passata. Nessuna telefonata, nessuna visita, nessuna traccia della sua nuova esistenza. Questo era il prezzo da pagare per aver denunciato e testimoniato in un processo di mafia. Quando Anna decise di denunciare tutte le cose orribili che suo marito commetteva, non era pienamente consapevole di ciò che le sarebbe accaduto, ma se voleva che i suoi figli vivessero una vita onesta, non poteva fare diversamente. La mattina in cui si recò al commissariato di polizia era un ricordo ancora vivo, come vivo era il ricordo della paura di essere scoperta e delle conseguenza delle sue azioni.
Quando entrò nel commissariato il suo arrivo non passò inosservato. D’altronde era la moglie del boss, di uno dei principali esponenti del clan Ussaro, che da diversi anni iniziava a controllare il territorio imponendo il proprio traffico di droga e eliminando senza scrupoli ogni ostacolo. Fu un discorso del marito fatto al primogenito, un bambino di appena 3 anni, il primo giorno di asilo a far prendere la decisione ad Anna di denunciare lui e tutto il clan.
“Figliolo, oggi per te è un giorno importante. Ricorda sempre che tu sei il figlio di Giovanni Ussaro e se qualcuno dovesse darti fastidio, penserà tuo padre a mettere le cose al loro posto. Un giorno tu erediterai il mio ruolo e le mie ricchezze, non dovrai temere nessuno, ma saranno gli altri a dover temere te. Vai, fatti rispettare e non dimenticare chi sei e da dove vieni.”
Anna capì che il destino dei figli era già deciso, ad aspettarli c’era una esistenza fatta di sangue, di morte, di orrore e non poteva accettarlo. Aveva sposato quell’uomo costretta dal padre. Aveva 17 anni quando suo padre, un piccolo commerciante di quartiere, le diede la notizia che di lì a un anno sarebbe diventata la “Signora Ussaro”. Nulla valsero le sue proteste, era la sola ad opporsi a quel matrimonio, se sua mamma fosse stata ancora viva, forse non si sarebbe ritrovata sola e avrebbe avuto la possibilità di ribellarsi. Anna era stata scelta per la sua bellezza e forse anche per la sua intelligenza, era la migliore della scuola e gli insegnanti le ripetevano che avrebbe fatto sicuramente carriera se avesse continuato gli studi. E quello era il suo sogno, andare all’università e diventare insegnante di lettere, ma quel matrimonio aveva distrutto ogni speranza di un futuro diverso. Il rapporto con il padre si era ormai logorato, lui le ripeteva che quello era per il suo bene, che non avrebbe sofferto la povertà e i sacrifici, non c’era altra possibilità per lei perché era stata scelta proprio dal boss, il quale non avrebbe accettato un rifiuto. Dal matrimonio nacquero due bambini, Rocco e Beatrice, che al momento della denuncia di Anna, avevano rispettivamente 3 e 1 anno.
Quando entrò nel commissariato, timidamente si guardava intorno, cercando un volto che le desse sostegno, ma notò lo stupore del poliziotto che la accolse all’ingresso. Effettivamente la moglie del boss era andata alla polizia e aveva chiesto di parlare con il commissario. Da quel momento aveva avuto inizio un altro incubo. I suoi figli erano stati prelevati al nido e all’asilo e con loro Anna aveva iniziato a vivere in una città sicura e sotto scorta. Aveva iniziato a parlare di suo marito, dei suoi traffici, degli omicidi commessi, fornendo prove concrete che portarono all’apertura di un processo e allo smantellamento dell’intero clan. Il marito, Giovanni Ussaro, fu condannato a tre ergastoli e tutta la sua famiglia, i fratelli e i cugini, incarcerati con altre pesanti condanne.
Fu molto difficile per Anna iniziare a vivere in una nuova città, fidarsi delle persone, passeggiare con i figli senza avere il sospetto di essere seguita, non raccontare a nessuno la sua storia e parlare della sua vera identità. L’idea di aver fatto la cosa giusta per il suoi figli la confortava e le dava la forza per andare avanti, ma il terrore si riaffacciò nella sua vita improvvisamente. Nella cassetta della posta trovò una cartolina a lei indirizzata, proveniva da L’Aquila, la città in cui il marito stava scontando la sua pena. C’era scritto:
“Non si possono cancellare le proprie radici, i figli ritornano sempre nei luoghi dove sono nati per ritrovare le proprie radici e continuare il lavoro dei padri”.
Anna si sentì gelare il sangue nelle vene. La prima reazione fu quella di guardarsi intorno, poi scappò in casa per chiamare la polizia. Il giorno successivo erano in un’altra città, stavolta all’estero. Bisognava ricominciare tutto daccapo, forse sarebbe stato così per tutta la vita.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

Il racconto del lunedì: I peggiori bar di Caracas

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Anche quella notte trascorreva insonne. Era da diversi mesi che non riusciva a dormire più con tranquillità. Da quando Mary se ne era andata senza dargli una spiegazione, Daniel non riusciva più a essere sereno in nulla. Le giornate trascorrevano come sempre tra lavoro, casa, qualche distrazione; era riuscito anche ad accettare quell’abbandono improvviso e senza nemmeno una spiegazione, dandosi la colpa di tante cose che tra lui e Mary non erano andate bene. Ma la notte lo tormentava, la notte era il momento peggiore. Era costretto a restare solo con se stesso, a fare i conti con le proprie azioni, i propri pensieri, i propri desideri. In quei momenti avrebbe voluto perdere la memoria, non ricordare ciò che di bello aveva vissuto nella sua vita e che sembrava non potesse più tornare. Quando i pensieri si facevano pesanti a tal punto da non permettergli di stare fermo, sentiva la necessità forte di uscire e girare per le strade senza una meta fissa. L’aria fresca della notte gli dava un po’ di pace e lo risvegliava da quel torpore indolente in cui la sua anima era caduta da tempo.

Fu in una di quelle passeggiate notturne che nacque l’abitudine di Daniel di frequentare quelli che lui chiamava “i peggiori bar di Caracas”. Non erano molti i bar aperti tutta la notte, ma a lui bastavano per soddisfare quella sua strana necessità. A volte girava con la macchina anche ore per poterne scovare uno nuovo e trovare proprio quello che soddisfaceva le sue esigenze.  Non si accontentava di un bar qualsiasi, ma doveva avere un aspetto anni ’80, con il rivestimento delle sedie in plastica intrecciata, il legno e gli specchi alle pareti, il ventilatore al soffitto e se c’era anche un biliardo in una saletta fumosa e senza finestre era perfetto.

Quella sera, una come tante negli ultimi tempi, Daniel decise di non andare lontano e si recò a piedi al bar che distava solo due isolati da casa sua. Erano le due di notte e il bar, come al solito, si presentava quasi vuoto. Si avvicinò al bancone senza salutare e chiese al barista, mezzo addormentato, una birra fredda. Con straordinaria lentezza, il barista si distolse dal suo dormiveglia e prese dal frigo la birra, la stappò e, accompagnandola con la mano, la fece scivolare sul bancone in direzione di Daniel, che la prese accennando un grazie con la testa. Il barista ritornò al suo sgabello, cadendo nuovamente nel suo stato di sonnolenza. Daniel rimase a guardarlo per qualche minuto. Si chiese che vita potesse avere quell’uomo dall’aspetto trasandato e quasi sgradevole, magari di giorno era tutt’altra persona. Lasciando in sospeso quel pensiero, prese la sua birra e si andò a sedere ad una delle sedie di fronte il bancone. Sul tavolino c’era ancora il giornale del giorno, lo scostò per poggiare la birra.

Alzò lo sguardo e iniziò ad osservare le vite di quegli uomini soli. Quella sera ce n’erano solo due al bar, il primo poteva avere una cinquantina di anni e da quando frequentava quel locale, lo ricordava sempre impegnato a giocare con una delle due macchinette mangiasoldi che da qualche anno erano presenti in quasi tutti i bar. Una notte, rivolgendosi proprio a Daniel, dopo che questi gli aveva offerto una birra, gli disse di essere certo che presto avrebbe vinto una grande somma di denaro, così avrebbe potuto riconquistare la fiducia dei suoi figli e dimostrare alla ex moglie di non essere un perdente.

Ad un tavolo poco distante c’era, quella sera, anche un uomo anziano, sembrava quasi un barbone, forse lo era. Ed era proprio la persona di cui Daniel aveva bisogno. Gli occhi di quell’uomo lo colpirono come un pugno in pieno stomaco. Erano chiari, umidi, malinconici. In quegli occhi Daniel leggeva la solitudine, la necessità di affetto, di attenzione. Erano quelle le persone che cercava nei peggiori bar di Caracas, casi umani che lo aiutavano a tirare fuori tutta la sua inquietudine, tristezza e amarezza. Solo così riusciva a toccare il fondo, ad abbandonare ogni forza e perdersi nella sua sofferenza. Sapeva di farsi del male, ma aveva bisogno di soffrire, di vivere il dolore, il degrado, la solitudine in cui il mondo costringeva l’uomo. Solo così poteva convincersi di non essere l’unico a soffrire e a sentire meno il peso dell’abbandono.

Il racconto del lunedì: Caffè Kingston (seconda parte)

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Leggi la Prima Parte del racconto.

IV Capitolo

Appena fui per strada, una leggera folata di vento mi diede una sensazione di leggerezza, ma quello che avevo appena vissuto mi aveva lasciato una profonda tristezza. Mentre percorrevo la strada che mi avrebbe riportata in ufficio, ripensavo a quel ragazzo e al suo tormento. Non avevo il diritto di infilarmi nella sua vita, ma qualcosa mi attirava a lui, forse era la semplice curiosità di conoscere le ragioni di quel pianto. Arrivata in ufficio, l’editore mi invitò a pranzare insieme, così l’avrei informato sull’esito della riunione. Avevo completamente rimosso la riunione e non avevo nemmeno voglia di andare a pranzare fuori, ma la trattoria che il capo aveva scelto era molto confortevole e l’atmosfera quasi casalinga mi mise a mio agio. Alle 17:00, come ogni giorno, terminava il lavoro di ufficio. Quel giorno non c’erano presentazioni di libri e incontri con gli autori, così avrei potuto trascorrere qualche ora al Caffè Kingston, persa nei miei pensieri.  Raccolsi le mie cose e in pochi minuti mi ritrovai al Caffè, che quel pomeriggio era particolarmente affollato, ma il mio tavolo, fortunatamente, era libero. Con un cenno della mano salutai il cameriere, che dopo un po’ mi portò il mio tè e qualche biscotto al burro. Quasi non me ne accorsi, perchè ero già a lavoro. Le pagine del mio taccuino si riempivano di parole, qualche cancellatura e delle briciole dei biscotti. Scrissi l’ultimo pensiero della giornata che completava il mio taccuino, questa volta lo avevo riempito in brevissimo tempo, soprattutto di ricordi e delle descrizioni di odori e rumori di un tempo che ormai era passato e non c’era più. Lo chiusi e posai la penna al suo fianco, provavo una sorta di soddisfazione ogni volta che ne terminavo uno, sensazione che si aggiungeva ad una sorta di euforia infantile per la scelta del nuovo quaderno e di un nuovo percorso di scrittura. Rimasi qualche momento immobile, guardai fuori ma non riuscivo a pensare a niente in particolare, mi sentiva quasi svuotata. Mi sforzai di pensare a qualcosa, così mi dissi che l’indomani sarei andata a comprare il nuovo taccuino e che forse ne avrei preso uno con in copertina i girasoli di Van Gogh e fu in quel momento che mi ricordai di Andrea. Gli avevo dato appuntamento al Caffè, ma non si era presentato. Effettivamente dovevo aspettarmelo, non aveva avuto una mattinata tranquilla e poi era stato chiaro dicendomi che non se la sentiva di uscire. Chissà come stava, se era riuscito a trovare un po’ di pace… con questi pensieri uscii dal Caffè e feci ritorno a casa.

V Capitolo

Allora abitavo al secondo piano, in una palazzina di inizio Novecento, che negli anni aveva subito diversi lavori di ristrutturazione, ma l’ascensore continuava ad essere la cosa più vecchia che avessi mai visto lì dentro. Scelsi di fare le scale e di evitare l’ascensore, temevo che un giorno io o qualcuno dei condomini ne sarebbe rimasto ostaggio per ore e, chissà, per un giorno intero. Ad accogliermi in casa c’era solo il silenzio. Gli unici rumori erano le voci che provenivano dalla strada, i clacson delle automobili o le sirene delle ambulanze, il frigorifero che sembrava dirmi “ah, visto che sei tornata fammi lavorare e tenere al fresco le poche cose che mi hai affidato”. Buttai le chiavi sul tavolino all’ingresso. Avevo comprato uno svuotatasche proprio per raccogliere le chiavi e ritrovarle subito, ma continuavo ad abbandonarle ovunque. Lasciai la borsa sulla sedia accanto al tavolino e, mentre avanzavo in casa, mi tolsi il giubbino che lasciai cadere sulla poltrona del salotto, come se non ci fosse già abbastanza confusione. “Devo assolutamente mettere ordine, altrimenti finirò sommersa dalle cose” dissi tra me, ma c’era tempo per farlo. Entrai in cucina, accesi la luce e vidi sul tavolo libri, appunti, lavori da svolgere. “Devo assolutamente iniziare a portare a termine qualcosa, a rendere concreto qualche progetto. – continuai a parlare con me stessa – Ma cosa? E se tutto questo fosse inutile? Se la mia strada fosse un’altra?” Buttai lo sguardo su quella ricerca iniziata tempo fa e mai completata. “No, non ne ho voglia, ci vuole calma per fare questo”. Andai oltre con lo sguardo e c’era un testo da correggere, ma non avevo voglia di fare nemmeno quello. Forse avrei dovuto abbandonare tempo fa quei progetti e dedicarmi ad altro, a qualcosa che mi facesse sentire bene veramente. In fin dei conti si può sempre ricominciare. Decisi di farmi un bagno caldo, avevo accumulato un po’ di stanchezza nella giornata, magari dopo sarei riuscita a concludere qualcosa. Il calore del bagno mi aveva fatto bene e mi aveva anche fatto venire fame. Preparai la cena, un toast al prosciutto e una mela. Seduta sul divano, decisi di terminare la lettura del romanzo iniziato parecchio tempo prima. Non sapevo il perché, ma quella storia non riusciva ad andare avanti. Lo aprii dove il segno mi suggeriva il punto in cui avevo interrotto la lettura. Erano trascorsi molti mesi dall’ultima volta che lo avevo aperto, ma ricordavo perfettamente la vicenda. Ne ricordavo i personaggi, i sentimenti e le descrizioni. Iniziai a leggere le prime righe, ma senza grande attenzione, qualcosa mi distraeva. Dopo un po’ entrai nella vicenda, ma il sonno ebbe la meglio, così chiusi il libro e decisi che era ora di andare a letto. L’indomani mi aspettava una lunga giornata di lavoro.

VI Capitolo

I giorni successivi trascorsero nella normalità. Il lavoro stava aumentando, si avvicinava il Natale e per la casa editrice era il momento in cui si registravano le maggiori vendite. I libri nuovi erano molti e bisognava pubblicizzarli, organizzare presentazioni e firmacopie per gli autori. Tutto procedeva senza grandi difficoltà, la redazione era affiatata e ognuno faceva il proprio lavoro con competenza. L’orario di lavoro si allungava di qualche ora in quei giorni ed ero costretta a saltare i miei tè al Caffè Kingston. Erano diverse settimane che non andavo e mi dispiaceva perdere l’atmosfera natalizia che si respirava in quel luogo. Ma l’occasione per tornare al caffè mi arrivò, inaspettata, in ufficio. Ogni mattina arrivavano in redazione, oltre alle mail, una gran quantità di posta, lettere, manoscritti, proposte di pubblicazioni, che venivano smistate poi nei vari settori. Tra la posta del 12 dicembre c’era una busta, non affrancata, indirizzata a me, che magari non avrebbe prodotto grande interesse se la busta non portava impresso il logo della Galleria d’Arte di via Gramsci. Girai la busta tra le mani, chiesi chi l’avesse portata, ma la segretaria mi disse solo che l’aveva trovata infilata nella cassetta della posta che si trovava nell’atrio dell’edificio. Non c’era mittente, ma già sapevo da chi mi arrivava. Mi affrettai ad aprirla e dentro c’era una cartolina che riproduceva una delle opere esposte alla Galleria e nel retro c’era scritto: “Ci vediamo stasera, alle 18:00, al Caffè Kingston. Ti devo un grazie, un caffè e una spiegazione. Andrea”
Rimasi a bocca aperta, non mi aspettavo certo che quel ragazzo si rifacesse vivo e in quel modo. Ormai lo avevo quasi dimenticato, ma quella lettera riaccese la mia curiosità. Alle 18:00 dovevo accompagnare un autore ad un firmacopie, ma la mia amica e collega si offrì di sostituirmi e alle 18:00, puntuale, arrivai al Caffè Kingsman.
Appena entrai l’atmosfera natalizia era perfetta, l’odore della cioccolata calda faceva venire la voglia di una buona lettura. Qualcuno si scambiava già dei regali, altri erano intenti nelle loro consuete abitudini. Un grande albero di Natale occupava l’angolo vicino il bancone e una serie di lucine bianche lo percorrevano per la sua lunghezza e terminavano con una ghirlanda che dava l’idea che provenisse direttamente dall’Irlanda. Andrea era già seduto al tavolo, era di spalle e non mi aveva vista entrare. Quando lo raggiunsi, ebbi l’impressione che l’avessi distolto da un pensiero triste, ma sul suo volto comparve un sorriso e subito mi disse:
– Sono felice che tu sia venuta. Io prendo un caffè, a te cosa posso offrire?
Dissi che anche per me un caffè andava bene. C’era un po’ di imbarazzo tra di noi e forse ero proprio io ad essere in difficoltà, ma notai con piacere che sul suo viso non c’era quello smarrimento e quel dolore che avevo visto quel giorno alla Galleria. Sembrava più sereno. Allora presi coraggio e gli dissi:
– Il caffè me lo hai ricambiato, ora manca il resto, ma francamente non riesco a capire perché tu debba dirmi grazie.
Il momento fatidico per Andrea era arrivato, ora doveva vuotare il sacco.
– Ho bisogno di dirti grazie per quel giorno alla Galleria. La tua mano su di me mi ha dato la forza di andare avanti, non mi sono sentito più così solo. Da quel momento ho capito che avrei potuto iniziare a vivere di nuovo.
Ero visibilmente disorientata e non riuscii a pensare ad una frase di senso compiuto, così decisi di tacere e lasciare parlare lui.
– Oggi sono esattamente tre anni che la mia compagna e nostra figlia sono morte. Mi stavano raggiungendo alla Galleria perché saremmo dovuti andare al cinema per vedere insieme un film della Disney. Sulle strisce pedonali un uomo ubriaco al volante le ha prese in pieno. Sono morte davanti i miei occhi. Da allora ho iniziato a non vivere più, il senso di colpa ha preso il sopravvento. Se fossi andato io da loro, forse sarebbero ancora vive.
– Capisco, deve essere stato molto difficile.
– Si, molto. È la prima volta che ne parlo ad alta voce con una persona e non solo con me stesso. E ne sono felice. Mi sento meglio.
– Perché proprio io?
– Non lo so. Da quando ti ho vista qui, da quel sogno e da quella tua mano su di me, che ho sentito di potermi fidare di te.
– E se ti sbagliassi?
– Se mi fossi sbagliato tu ora non saresti qui.
Finii il mio caffè e guardai fuori dal locale. Non sapevo cosa dire, ero senza parole. Cosa voleva quel ragazzo da me? Guardai verso il cinema e così gli chiesi:
– Ti va di andare al cinema?
– Ora?
– Sì, ora. Ma non so di che parla la storia.
– Sarà una bellissima storia.
Uscimmo dal Caffè ed andammo al cinema e vi ritornammo per molti anni per accompagnare i nostri figli a vedere i film della Disney.

 

Il racconto del lunedì: Caffè Kingston (prima parte)

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I Capitolo

La pioggia batteva forte contro il grande vetro oscurato. Mi permetteva di vedere fuori senza essere vista. Così seguivo i passanti da quando svoltavano l’angolo della strada fino a quando scomparivano alla vista. A volte entravano nelle pagine del mio taccuino con nomi russi impronunciabili e storie di spionaggio o amori clandestini. Comparve un uomo magro e alto, camminava lento sotto la pioggia con il bavero della giacca alzato, la falda larga del cappello gli riparava il viso dalla pioggia, aveva le mani in tasca e le spalle strette come a proteggersi da una qualche minaccia; due ragazze corrono sotto lo stesso ombrello e si infilano velocemente nel cinema, il film sta per iniziare e sono in ritardo. C’era un nuovo film: una di quelle storie ambientate tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, forse era tratto da qualche romanzo poco conosciuto. Non ne sapevo molto, non ho mai seguito con attenzione il cinema. Forse avrei dovuto iniziare ad interessarmene di più, non mi sarebbe dispiaciuto andare a vedere un film, magari da sola. Avevo finito il mio tè e stavo raccogliendo le mie cose per andarmene quando mi accorgo di lui.
Da qualche settimana aveva iniziato a frequentare il mio stesso locale e mi dava quasi fastidio quando, arrivato prima di me, occupava il mio solito posto. Stavo per alzarmi e andare via, ma lui mi anticipò. Non volevo incrociarlo all’uscita, quindi indugiai ancora un po’, ma lui, superando la porta, si venne a sedere al mio tavolo e con fare tranquillo, come se fossimo amici, come se si fosse da poco allontanato da me, mi disse:
– Oggi pomeriggio ti ho sognato. Eravamo qui per la presentazione di un libro. Era un po’ diverso il locale, ma era questo. Sei arrivata tu, con il tuo quaderno. Indossavi un cappottino verde, eri bellissima. Io ero solo, mi rivolgi una parola, un rimprovero, e ti allontani. C’era tanta gente che aspettava me, esco fuori dal locale. Avevo paura, avevo un dolore sul cuore. Tutti mi aspettavano, ma tu eri andata via.
– E poi? – dissi con una certa sorpresa, che tradiva curiosità e simpatia.
– Poi – rispose – sono rientrato. Il resto non esiste, mi sono svegliato.
– E perché volevi aspettare me?
A capo chino, senza guardami negli occhi:
– Perché nel sogno eri l’unica persona che volevo presente. Non mi interessava del resto.
Restammo in silenzio qualche minuto, poi chiamai il cameriere e ordinai due tè.
– Rimango ancora un po’- dissi – Se vuoi, puoi restare qui con me.

II Capitolo

Era una giornata come tante altre, non pioveva più come i giorni precedenti, ma il cielo era rimasto grigio. Anche il mio umore sembrava essere uguale a quella giornata un po’ piatta, indifferente a ciò che accadeva intorno. Era un lunedì e dopo il lavoro mi aspettava il mio solito tavolino, dovevo solo passare di casa per prendere il mio taccuino e andare al bar. Quella mattina mi sentivo abbastanza stralunata, avevo trascorso la notte a correggere un noiosissimo saggio di storia americana e mi ero addormentata sul divano. Poche ore di sonno ed ero già in piedi per andare al lavoro, ma in condizioni davvero pietose. Pensai che avevo anche il tempo di cambiarmi la camicia. Come al solito mi ero versata addosso il caffè da una tazzina abbandonata sulla scrivania, che avevo dimenticato di bere perché presa dal lavoro. Entrai nel bar, era quasi deserto. Il mio posto era libero, solitario come sempre, adatto alla scrittura. Il cameriere mi servì il solito tè, mentre ero già al lavoro. Un fiume di pensieri, di sentimenti mi affollavano, dovevo solo trascriverli per evitare di perderli.
– Cosa scrivi? Posso sapere?
Mi girai un po’ infastidita, mi aveva interrotto, e spesso mi capitava di perdere il pensiero di quel momento, di perdere il ricordo di un odore, non trovare più le parole giuste per descrivere un rumore.
– Niente di che… Da quando sei lì?
– Già da un po’.
– Non ti ho sentito arrivare.
– Ti ho salutata, ma eri così assorta che non mi hai sentito.
– Mi dispiace, non volevo…
– Tranquilla, scusami tu, ti sto disturbando, ma il tuo tè si è fatto ormai freddo. Posso offrirtene un altro?
– Grazie, non devi, berrò questo.
– Mi fa piacere.
Ordinò un altro tè e stavolta lo bevvi con calma, riflettendo su quello che avevo scritto e all’improvviso gli chiesi se lo voleva leggere. Lui accettò. Gli passai il taccuino aperto alla pagina che avevo appena terminato di scrivere.
Quando chiuse il quaderno gli chiesi cosa ne pensasse:
– Quello che hai scritto è meraviglioso.
Notai in lui una sorta di imbarazzo nel pronunciare quelle parole, se avesse potuto scrivere sarebbe stato più facile parlare per lui.
Accennai un mezzo sorriso e, continuando a bere, voltai lo sguardo verso la strada. Avevo scritto il suo sogno, che in parte era anche il mio.
– Io ora devo andare via – mi disse – se in questi giorni ti capita di passare per via Gramsci vieni alla galleria d’arte, io lavorò lì.
– Grazie, magari qualche volta passo.
Lui se ne andò, io rimasi ancora un po’ a pensare e a seguirlo con lo sguardo, mentre procedeva sul marciapiede accendendosi una sigaretta. Avevo abbandonato ormai i miei pensieri, si erano esauriti con l’ultima frase che avevo scritto. La mia attenzione era catturata da quel ragazzo dagli occhi chiari che tradivano una certa inquietudine. Sembrava avesse un peso sulle spalle, qualcosa che non lo facesse sentire leggero. Era sempre solo, un po’ come me. Ci eravamo incrociati diverse volte nel locale, il giorno prima mi aveva parlato del suo sogno, mi aveva sorriso, ma mai ci eravamo presentati. Gli avevo fatto leggere cose che tenevo riservate. Perché? In realtà quella persona mi ispirava fiducia, il suo sguardo su di me mi faceva sentire al sicuro.

III Capitolo

Erano le undici e trenta circa, la riunione era finita presto e non avevo voglia di tornare in ufficio, decisi di raggiungere via Gramsci. Era una giornata tranquilla, per strada non c’era quasi nessuno. Una signora anziana percorreva il marciapiedi nel senso contrario al mio, trascinando il carrellino pieno fino all’orlo, tornava forse da qualche mercatino rionale. Un uomo sulla quarantina a passo svelto mi sorpassa, era al telefono, indossava un vestito classico, un soprabito blu e uno zaino sportivo, un accostamento strano ma che lo rendeva simpatico alla vista. “Prendo il treno tra un’ora, penso di essere lì entro le quattordici così pranziamo insieme…” era lontano ormai e non riuscii più a sentire le sue parole. Con chi parlava? La moglie, la fidanzata, un collega…e dove andava? Lo avrei seguito per sbirciare la sua esistenza e in un certo senso lo avrei fatto, inserendolo in una mia storia. Gli avrei dato una destinazione, una identità precisa, un lavoro rispettabile, insomma gli avrei costruito una nuova vita. Sarebbe stata la scrittura a suggerirmela; le parole, le vicende i caratteri, tutti veniva fuori spontaneamente mentre scrivevo. Era un mistero la scrittura, una esigenza fisica che a volte mi riempiva il cuore di inquietudine e solo dopo l’ultimo punto ritornava la pace. Non c’era più nessuno per strada, tranne un uomo sulla soglia del suo negozio di stoffe. La vetrina conservava ancora lo stesso aspetto del primo giorno di apertura. Un rivestimento in legno scuro tratteneva grandi vetrine che mostravano stoffe per abiti da sera appena accennati su neri manichini di donna, intere bobine di stoffe erano poste una sull’altra a mostrare tutte le sfumature di uno stesso colore. La grande insegna, come quella dei negozi della prima metà del novecento, portava la scritta in quella che chiamavano “bella grafia” Stoffe e Tendaggi dal 1936 – Fratelli Amoruso. Sembrava essere un mondo a parte, molto differente dagli altri negozi che stavano sulla stessa strada, grandi catene commerciali, un bar, un negozio di articoli per la casa intervallati da grandi portoni bui sui quali si ergevano enormi palazzi dalle facciate quasi tutte uguali. Era la prima volta che facevo caso a quei palazzi, non mi ero mai soffermata a guardarli, anzi non li avevo mai conosciuti. Ne rimasi sorpresa, era come se avessi scoperto una nuova città, piena di nuove storie.
Quasi al termine della strada c’era la Galleria d’Arte contemporanea. Era in esposizione la personale di un artista inglese. Il banner pubblicitario non mi diceva niente. Nel bar accanto ordinai un caffè da portare e entrai nell’atrio. Una volta all’interno, mi resi conto che non conoscevo nemmeno il nome di quel ragazzo. Sperai lavorasse alla biglietteria, ma lì trovai una ragazza dallo sguardo abbastanza annoiato. Mi avvicinai con la massima discrezione, quasi a dirle “mi dispiace disturbare”:
– Buongiorno, avrei bisogno di una informazione.
– Il biglietto per la mostra costa 9 euro. Se vuole visitare anche l’esposizione permanente il costo è di 13 euro. Se rientra in queste categorie può godere delle riduzioni.
E mi indicò con il dito un elenco scritto su un pannello.
– Mi perdoni, ma non sono qui per la mostra. Sto cercando un ragazzo che lavora qui.
– Come si chiama?
– A dire il vero non lo so, ma avrei bisogno di incontrarlo.
– Avete un appuntamento?
Avevo notato una certa diffidenza nel suo tono, quindi decisi di mentirle.
– No, non abbiamo un appuntamento. Ma avrei bisogno di parlargli. Io lavoro per una casa editrice e ci siamo conosciuti durante l’ultima presentazione che abbiamo organizzato. Avrei bisogno di fargli una proposta di collaborazione.
Non sapevo di che cosa si occupasse al lavoro e sperai di non essermi bruciata la bugia. Se fosse stato un semplice custode, la mia proposta di collaborazione non avrebbe retto.
– Ah si, lei parla di Andrea Montichiari, è lui che si occupa della gestione degli eventi.
– Oggi è a lavoro? È possibile incontrarlo?
– Si, è venuto, ma da quando è arrivato non l’ho più visto. Ora chiamo nel suo ufficio e l’avviso che è qui. Chi lo cerca?
Ebbi un momento di indecisione. Effettivamente nemmeno lui conosceva il mio nome. Era ormai il caso di presentarsi.
– Gli dica Sandra Zevin, responsabile editoriale di Il Cormorano Edizioni.
Digitò un numero sul telefono, ma dall’altra parte della cornetta non rispose nessuno.
– Guardi in ufficio non c’è. Ma in fondo all’atrio trova l’ascensore. Salga al terzo piano, la prima stanza a sinistra è il suo ufficio. Non può sbagliarsi, c’è solo lui in quel piano.
La ringraziai e mi diressi all’ascensore. Mentre aspettavo che scendesse, pensavo a cosa gli avrei detto. L’ascensore si aprì, vi entrai e dopo poco mi ritrovai al terzo piano.
C’era silenzio, la porta di quello che doveva essere il suo ufficio era aperta. Mi avvicinai, mi affacciai e diedi il buongiorno con tono pacato, ma dentro non c’era nessuno.
Entrai di qualche passo, poggiai il caffè sulla prima scrivania piena di faldoni e pubblicazioni d’arte e uscii dalla stanza. Il pc era acceso, una cartellina aperta sulla scrivania. “Si sarà allontanato – pensai – mi conviene aspettare un po’”. Iniziai a camminare per il corridoio. Di seguito all’ufficio c’era un’altra porta chiusa, forse un altro ufficio, e poi le scale di emergenza. Di fronte, invece, vi erano tre porte identiche, a vetri poste alla stessa distanza ognuna dall’altra, coperte all’interno da pesanti tende di tessuto rosso. Una delle porte, l’ultima, era aperta. Mi avvicinai per dare un’occhiata e vidi delle sedie rosse disposte in fila. Doveva essere una sala conferenze. Superai la soglia per vederla tutta. In fondo c’era un grande tavolo, delle bandiere e fu allora che lo vidi. Era seduto a metà sala, su una sedia interna, vicino al muro. Era piegato su se stesso, i gomiti sulle gambe e le mani nei capelli ricci. Mi resi conto che qualcosa non andava. Pensai di andare via, in fin dei conti non si era accorto della mia presenza. Sarei passata di nuovo nel suo ufficio, avrei lasciato un biglietto e ci saremmo visti al nostro bar. Ma le spalle abbandonate come in una resa incondizionata, le mani sulla testa come a voler reprimere i ricordi mi attirarono come una calamita. “Non hai alcun diritto di intrufolarti nella sua vita” – dissi tra me e me – ma già ero avanzata di parecchie file di sedie nella stanza, entrai in quella davanti a lui e mi sedetti. Fu solo allora che si accorse di me. Guardandomi mi resi conto che era sorpreso e spaventato. Aveva gli occhi sconvolti.
– Ciao, tutto bene?
– No, non va bene.
– Ci sono io qui.
E scoppiò in un pianto dirotto. Non avevo mai visto un uomo piangere in quel modo. Mi commosse a tal punto che ebbi voglia di abbracciarlo, ma gli accarezzai solo la testa e lui, a testa bassa, trattenne con le dita la mia mano su di lui.
Dopo un po’ riuscì a calmarsi. Cercò di controllarsi e darsi una sorta di contegno.
– Scusami, io non immaginavo…
Lo interruppi dicendo.
– Passavo di qui e ho pensato di portarti un caffè, è nel tuo ufficio, ma ora sarà freddo.
– Grazie, andrà bene lo stesso.
– Stasera vado al Caffè Kingston. Alle 17 sono lì. Se passi ci prendiamo qualcosa insieme.
– Non so se stasera sono in grado di uscire.
– Io sarò lì, se ti va.
– Ok…
Mi alzai e mi diressi verso l’uscita.
– Allora ci vediamo oggi pomeriggio, se ti va. Comunque io mi chiamo Sandra.

…continua QUI.

Il racconto del lunedì: Fadi

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Era stata una notte come tante altre, l’ennesimo barcone era arrivato a ridosso delle coste siciliane. La Guardia Costiera era riuscita a mettere in salvo tutti quei volti disperati, che su un barcone scolorito avevano riposto la loro personale idea di futuro. Con i guanti bianchi di lattice e le mascherine verdi gli operatori sanitari avevano fatto una prima ispezione medica e, tranne una donna incinta al settimo mese che per precauzione era stata portata in ospedale, tutti sembravano in piena salute.

Tra questi c’erano molti bambini che, per la prima volta, erano giunti a destinazione tutti in vita. I bambini sono sempre speciali, nonostante le estreme difficoltà del viaggio riescono ad adattarsi ad ogni ambiente. Appena giunti nel campo di accoglienza i loro sguardi non sembrano dire qualcosa di diverso da quello degli adulti: dove siamo? Chi siete? Cosa ne sarà di noi? Ma basta una piccola attenzione a stemperare la tensione nei loro occhi e a far ripartire il loro desiderio di spensieratezza. Molti di loro partono con i loro familiari, ma quella notte tra gli ottocento disperati ce n’era uno, solo, senza nessuno che gli stringesse la mano.

Si chiamava Fadi. Il mediatore e lo psicologo che si occuparono di lui capirono che era quello il suo nome, tra l’altro era l’unica parola che erano riusciti a fargli dire. Non aveva documenti, nessuno sapeva dire nulla di lui, solo una donna raccontò che il bambino, che aveva all’incirca otto anni, era siriano e al momento dell’imbarco era stato portato da un uomo molto anziano, forse un parente. Nei mesi a seguire il bambino, in attesa che la questura decidesse la sua destinazione, trascorreva le giornate solo, lontano dagli altri bambini ed evitava gli adulti che parlavano la sua lingua. Solo quando riusciva a impossessarsi di un pallone da calcio, faceva qualche tiro contro il muro che recintava il centro di accoglienza. Quando pioveva il pallone lasciava la sua sagoma impressa sul muro e in quel momento Fadi si sedeva a terra e rimaneva per ore a osservare quelle macchie sul muro. Era allora che il bambino sembrava vulnerabile, così uno dei volontari del centro gli si avvicinò e, sedendosi accanto a lui, aspettò in silenzio che Fadi parlasse. Dopo un po’ avvenne il miracolo, perché Fadi, seppur in un inglese stentato, iniziò a parlargli di quelle macchie. Ad ognuna assegnava un nome e aggiungeva una piccola descrizione.

Così parlò del nonno che lo aveva lasciato su quella barca e se ne era andato via senza una spiegazione, dei suoi amici e dei suoi cugini, della maestra che, al suono della sirena che annunciava un nuovo bombardamento, scappò via dalla classe e non se ne seppe più nulla. Infine, indicandone una più grande come la più bella, disse che quella rappresentava la sua mamma. Di lei ricordava il bacio della buonanotte, il suo odore di fiori che gli era rimasto addosso la notte in cui lo aveva stretto a sé, proteggendolo dalle schegge delle bombe. Si sentiva colpevole, era il motivo della morte della madre e se lui non ci fosse stato, lei sarebbe ancora viva. Con gli occhi pieni di lacrime, ma con la voce ferma, Fadi chiese di poter ritornare a casa, ad Aleppo, era lì il suo futuro e il suo destino e non in un paese che non avrebbe mai compreso in pieno il dramma di un popolo barbaramente massacrato.

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Fotografia di Carmine Petruccelli