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RECENSIONE | Anja, segretaria e moglie di Dostoevskij, nel romanzo di Giuseppe Manfridi

Anja. La segretaria di Dostoevskij è un romanzo di Giuseppe Manfridi, edito da La Lepre Edizioni, in cui è narrata una parte della vita dello scrittore russo. L’autore ha concentrato la sua attenzione ad un anno in particolare, il 1866, e ad un arco temporale di un mese circa. Dostoevskij non ha ancora compiuto cinquant’anni, ma è affaticato nel corpo e nello spirito. È ammalato da tempo e afflitto dai debiti causati dal fallimento di una attività editoriale intrapresa con il fratello defunto, Mikhail.

A fatica, ma lo riconoscerebbe, anche se la mole dell’uomo si è fatta negli anni notevolmente massiccia e afflitta da una lieve gibbosità. L’aspetto è senile, malgrado i cinquant’anni non ancora compiuti. La capigliatura, già a suo tempo in crisi, è ancor più malridotta.

Per far fronte al debito di 3000 rubli, una somma enorme per l’epoca, Dostoevskij è costretto dal suo editore a firmare un contratto capestro, che lo obbliga a consegnare in brevissimo tempo un romanzo, pena la perdita dei diritti su tutte le opere passate e future, con la conseguente e inevitabile perdita di status di scrittore. Il suo editore, all’epoca il maggiore, è Stellovskij, che nel romanzo ci è presentato così:

Vista da vicino e non di sotto, di dietro una finestra, la testa calva dell’editore, col suo emisfero circolare che pare fatto col compasso senza la minima impurità, è decisamente bella. La cute, ben lustra, ha la qualità di un’epidermide giovane. Nel complesso, il fascino di una simile calvizie dà valore a tutta la testa, che il vetro offuscato faceva invece immaginare sgradevole, ma quasi per principio, solo per il fatto di essere calva e basta. Altrettanto bello è il viso: stretto e lungo, magro ma sano. Sottili e magre le labbra, sottili e lunghe le sopracciglia, larghi e verdi gli occhi. La fronte è rilassata. Nessuna ruga. Sulle guance sfinate, le fedine erompono a semiluna in due folti e soffici grovigli di riccioli castani e il labbro superiore adombra un accenno di baffetti in crescita. L’uomo, dal portamento sinuoso e dai gesti armonici, veste di scuro, con un bel panciotto di velluto trapunto da una fitta serie di piccole pietre preziose a bottoncino, ciascuna provvista di una sua scintilla.

Questa descrizione rende bene la distanza e la differenza tra l’editore e lo scrittore anche in termini di condizioni sociali ed economiche. L’editore è un imprenditore e si dimostra un uomo senza scrupoli. Sa che Dostoevskij è in difficoltà e cerca di sfruttare a suo vantaggio la situazione. Dal canto suo, lo scrittore non si tira indietro, sa di avere la possibilità di scrivere un libro in brevissimo tempo, l’unica difficoltà consiste nella stesura materiale del testo. Dostoevskij è malato, soffre da tempo di epilessia ed è fiaccato nel profondo.

Anna Grigor’evna Snitkina – Fonte Wikipedia

Gli vengono in soccorso gli amici, che gli suggeriscono di rivolgersi alla scuola di stenografia, una nuova e promettente attività, che si va man mano affermando. Lo scrittore si rivolge all’Istituto Ol’chin e il direttore individua in Anna Grigor’evna Snitkina, la migliore tra le allieve. Per Anja, questo uno dei suoi diminutivi, è una emozione grandissima. Conosce le opere di Dostoevskij, le ha lette e se ne è appassionata grazie anche al padre, morto da poco, che le ha trasmesso la passione per la letteratura e gli scrittori contemporanei. Anja è presa da un turbinio di emozioni; è giovanissima e la sua giovinezza include timori, angosce, ma dal canto suo possiede determinazione e carattere, che le permetterà di guadagnarsi la fiducia dello scrittore. Non è facile delineare bene i contorni di questi personaggi. Essi sono complessi, pieni di sfaccettature, che emergono dall’incontro gli uni con gli altri.

La prima parte del romanzo è, infatti, popolata da diversi protagonisti che fanno parte sia del mondo di Dostoevskij che di Anja. Ognuno rappresenta un tassello importante nella vicenda, ma quello che più di tutto ha colpito la mia attenzione sono gli ambienti. Manfridi è molto bravo a restituirci le atmosfere e a descriverci i luoghi, dando al lettore la possibilità di vivere realmente quel momento. Questo, ad essere sincera, ritengo si estenda anche ad altre cose: gli oggetti, gli indumenti e in maniera più ampia al pensiero e ai sentimenti dei protagonisti, garantendo la possibilità al lettore anche di stabilire un collegamento empatico ora con Anja ora con Dostoevskij. C’è nel romanzo un’altra protagonista che è presente, ma non parla: Pietroburgo, la città che sta sorgendo.

Una città in cui il domani è a disposizione dappertutto, a portata di mano di chiunque. Non c’è luogo che non la identifichi. La sua natura è esplicita, e pure dove non appare la si annusa, la si coglie a colpo d’occhio. La si patisce, a volte, come negli spurghi delle grondaie che annaffiano a gettiti implacabili i marciapiedi inzuppando gonne, ghette, scarpine di seta e stivali d’ordinanza.

(…)

Pietroburgo ha inventato il traffico moderno, un traffico che nulla ha a che fare coi sovraffollamenti infetti di Londra e di Parigi è il traffico di chi va costantemente da qualche parte, di chi ha fretta, di chi si muove di continuo, senza troppe distinzioni di censo.

(…)

«C’erano mille cose da fare nella mia città nuova di zecca». Nuova di zecca: anche noi l’abbiamo definita così, Pietroburgo. Limpida. Pulita. Intonsa. Un motore alla sua prima accensione, quando ancora la fuliggine, le polveri tossiche e i vapori incandescenti non lo hanno insozzato come è normale che avvenga.

Il romanzo ovviamente parla anche dell’unione di Dostoevskij e di Anja, che diventerà sua moglie e sarà lei a curare poi la stesura delle opere dello scrittore anche dopo la sua morte. In questo caso potremmo dire “galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”…o lo dettò.

SEGNALAZIONE | La città azzurra di Renato Lopresto

La segnalazione di oggi è La città azzurra di Renato Lopresto, edito da Europa edizioni.

Un lavoro che ci immerge in un mondo futuribile, interamente globalizzato e gestito dai grandi organismi, dove l’uomo è un essere in via d’estinzione, l’ambiente sconvolto, e dove vige uno strano codice ludico-edonistico e utilitaristico. In questo quadro inquietante si succedono gli avvenimenti attorno al protagonista, il “regolatore ufficiale” Daemon, chiamato a Roma, città che si fa fatica a riconoscere, con il compito d’uccidere uno scienziato utopista che s’illude di salvare l’uomo. L’incontro con una ragazza straordinaria e ambigua cambierà i suoi disegni. Forse non tutto è perduto per sempre.

Sinossi:

In un mondo popolato da androidi dalle perfette sembianze umane, dove la civiltà si è ripiegata sotto il proprio peso e cumuli di macerie e scheletri di monumenti riflettono lo spirito evanescente dei tempi che furono, l’americano Daemon approda alla Città azzurra con un compito ben preciso: egli è un professionista di fama mondiale, il suo lavoro esige nervi saldi, una dedizione assoluta e una preparazione d’alto livello, perché è un regolatore, un omicida a pagamento. Ed è stato scelto per rimettere ordine all’ingranaggio che regola l’intero sistema, fissato da un codice internazionale che non ammette deroghe. L’uomo che deve uccidere è un inventore di grande ingegno che sta conducendo degli esperimenti molto rischiosi nel tentativo di riprodurre scientificamente l’essere vivente intelligente. Nel momento decisivo, però, Daemon ha un improvviso ripensamento: per la prima volta prova uno strano turbamento e sente venir meno le proprie certezze. Si scopre animato da una forte passione, si sente inquieto, a disagio, e soprattutto è consapevole di essere in pericolo. Forse non tutto è perduto per sempre, forse ci sono ancora segnali di umanità da cui è possibile ripartire per instaurare di nuovo una società che non sia basata sul controllo, ma sull’amore.

L’autore:

Renato Lopresto è nato a La Spezia, ma risiede da diversi anni a Roma dove, tra le varie attività praticate, ha insegnato nella scuola media e nella scuola superiore statale. Laureato in lettere, ha fatto diverse esperienze letterarie e teatrali, partecipando al “secondo Festival Internazionale dei Poeti” di piazza di Siena a Roma. Ha pubblicato scritti su antologie e riviste letterarie. Tra queste si ricordano: “I Guida Poetica Italiana”, “La vita che vorrei”, “La sostanza delle cose”. E ancora: “La sostanza delle cose”, “Racconti d’estate”, “Il desiderio”, “Slavia” e molte altre pubblicazioni.

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RECENSIONE | Grass Kings. I re della prateria, un graphic novel in tre volumi

Il graphic novel di cui vi parlo oggi è stato recentemente pubblicato dagli Oscar Mondadori nella collana Oscar Ink. Sto parlando di Grass Kings. I re della prateria di Matt Kindt e Tyler Jenkins. Entrambi questi professionisti del disegno hanno all’attivo numerose opere di successo e il libro che ho letto è disegnato divinamente. Tutte le tavole sembrano degli acquerelli che ci trasmettono sentimenti, umori, tensioni e ricordi. Mondadori ci propone, ora, quest’opera, la trilogia completa raccolta in un unico volume.

Vediamo di cosa parla.

La trilogia ha come protagonisti i tre fratelli Grass, i quali vivono in una sorta di regno autonomo, il Regno della Prateria, appunto, che è in aperta contrapposizione con la legge costituita e con lo sceriffo della vicina Cargill. Il Regno della Prateria è apparentemente un agglomerato di catapecchie e camper abitati da fuorilegge, ma guardandola dall’interno è un vero e proprio stato autosufficiente con le proprie leggi e regole sociali.

A guidare il regno è Robert, il secondo dei tre fratelli, che però sembra aver perso parte del suo smalto dopo il dramma della scomparsa della figlia, presumibilmente morta annegata nel lago. Poi c’è Bruce, il fratello maggiore ed ex sceriffo di Raven, che trascorre le sue giornate a controllare il regno e a fare la ronda. Il terzo dei fratelli è il giovane Ashur, che con un suo amico Flipper ha fondato un gruppo. Il Regno è abitato, inoltre, da una serie di soggetti poco raccomandabili, ognuno dei quali ricopre un ruolo ben preciso, soprattutto in caso di attacco esterno.

E l’occasione per attaccare il regno della prateria è data allo sceriffo Humbert dalla fuga di sua moglie Maria, che si rifugia proprio nel Regno. Lo scontro tra il Regno e lo sceriffo è ormai guerra aperta e viene alimentato ancor di più dall’indagine ufficiosa che Robert e gli altri stanno conducendo per scoprire se è vero che nel Regno si nasconde un impunito serial killer.

Per sommi capi questa è la trama, anche se molte sono le sfumature, fondamentali per comprendere il lato psicologico dei personaggi e i motivi che li hanno spinti a rinchiudersi nelle leggi del Regno. Fino ad ora abbiamo parlato di leggi, quelle del Regno e quelle vere dello sceriffo Humbert; in realtà quello che salta all’occhio fin dalle prime pagine è che sono tutti personaggi borderline. Infatti, non è facile definire chi abbia veramente ragione e chi torto, chi sia dalla parte della legge e chi no. Altra cosa interessante è l’aver messo in evidenza un aspetto abbastanza diffuso nella cultura americana, ovvero rispondere alla violenza con altra violenza.

Per quanto riguarda il genere posso dire che questo graphic novel appartiene al genere thriller, sostenuto dai casi di omicidio irrisolti, ma in tutto questo non manca il tratto umano, sottolineato dalla sofferenza di Robert e Maria. Interessante anche il continuo uso di flashback che consentono una ricostruzione fin dalle origini di quella che è la fisionomia sia del paese che del temperamento dei personaggi. Una storia accattivante, che porterà alla scoperta dell’assassino, ma che lascia aperte delle questioni, la cui soluzione probabilmente non conosceremo mai.

Ringrazio @paroladiquattrocchi per avermi consigliato questa lettura

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PODCAST | Puntata #8: I romanzi di Simona Rossi e Ilaria Bianchi

L’appuntamento di oggi riguarda la segnalazione di due romanzi. Il primo è “La magia di una storia dimenticata” di Simona Rossi, edito da Società editrice Il ponte Vecchio. Il secondo è “Viola di notte” di Ilaria Bianchi, edito da Book a Book.

Vi ricordo che per info e segnalazioni potete scrivermi all’indirizzo email info@lapennanelcassetto.it e potete riascoltare qui su Spreaker o su YouTube le puntate precedenti. Buon ascolto!!!

RECENSIONE | Il mio nome è Jamal, il romanzo di Nuccio Franco

Il libro di cui vi parlo oggi è di grande attualità, perché parla di terrorismo, ma anche di speranza e rinascita. Sto parlando del libro di Nuccio Franco, Il mio nome è Jamal. Dalla Jihad alla redenzione, edito da Edizioni 2000diciassette.

Il libro è introdotto da Yassine Lafram, presidente U.co.i.i., il quale individua le tematiche principali della storia del protagonista Jamal, raccontata con “un linguaggio accurato, corretto, idoneo, con cui lo scrittore persegue la finalità prima: «raccontare la Storia ed i personaggi che la animano attraverso lo specchio dell’anima».

La vicenda narrata da Nuccio Franco è ambientata in Libano a partire dal 1975 e racconta la vicenda umana di un giovane, Jamal, prima convinto sostenitore della Jihad poi uomo libero e redento. Il Libano, con la sua capitale Beirut, “erano definitivamente stati trascinati in una sanguinosa guerra civile”, dove Imam deviati inculcavano interpretazioni contorte del Corano, piegandolo agli scopi terroristici. Il paese è nelle mani dei terroristi, che compiono quotidianamente attentati, sbandierando un credo che apparentemente difende valori identitari e culturali. Jamal è convinto che quella sia l’unica strada da intraprendere e si lascia trascinare in una spirale di morte. Oltre alla frequentazione di personaggi dell’ambiente terroristico, Jamal è perseguitato dalla sua coscienza, che gli si manifesta quasi come una figura reale e che lo spinge ancora più in basso, come una matrigna assetata di sangue.

Nemmeno l’allontanamento dal Libano, voluto dal padre per tutta la famiglia, riuscirà a distoglierlo dai suoi atti terroristici. Riuscirà a tornare in Libano, nella sua vecchia casa, per completare la sua guerra, ma un evento inaspettato gli farà aprire gli occhi su quanto fosse sbagliata la strada percorsa fino a quel momento. Inizia, così, un lento e lungo percorso di redenzione, che oltre al dolore morale gli farà vivere l’inganno e la tortura.

Quello che più mi ha colpito di questo libro sono due cose: la prima è la descrizione del Libano. Nuccio Franco è stato molto bravo a scrivere di un paese martoriato e lo fa senza retorica, mostrandoci la distruzione materiale e morale come se invece di parole stessimo guardando fotografie. Inoltre, ho trovato molto interessante, all’interno del percorso di redenzione di Jamal, la corretta interpretazione del Corano e come questo sia stato beceramente piegato a deliranti interpretazioni.

Costoro, avevano applicato quanto scritto senza sforzarsi minimamente di approfondire la Parola nel suo significato autentico ma di averla piegata solo ai loro scopi radicali e politici. Era come aver pescato alcune carte da un mazzo senza conoscere il valore delle altre. Jamal si sentì tradito ed un senso di pentimento e di vergogna permearono la sua anima come mai era successo prima.

Questo libro, con il suo Jamal, è la testimonianza che c’è sempre una via di uscita, anche quando tutto sembra irrimediabilmente perduto.

Tuttavia, quanto accaduto aveva pian piano creato un profondo solco nell’animo di Jamal, nelle sue convinzioni. Una ferita profonda che lo aveva spinto a riflettere dopo anni trascorsi a combattere. Stava prendendo coscienza di un nuovo modo di stare al mondo, che le cose non erano o bianche o nere ma che esisteva un’esile terra di mezzo dove poter ricominciare a sorridere alla vita.

E Jamal ci è riuscito, come speriamo possano riuscirci in tanti altri.

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L’Epopea di Ghilgameš raccontata da Claudio Saporetti

Il libro che vi sto per presentare è prezioso e sarà apprezzato in particolar modo dagli amanti della storia antica, dell’archeologia e della mitologia. Non parlo però della mitologia greca e romana, ma di una cultura mitologica precedente, che fa capo al periodo medio-babilonese. Sto parlando dell’epopea di Ghilgameš, un personaggio a metà strada tra la storia e la mitologia. Questa storia ci è descritta nel libro di Claudio Saporetti, intitolato Ghilgameš. Il primo eroe della storia, edito da La Lepre Edizioni.

In questo libro l’autore traduce l’epopea di un personaggio che per alcuni è la rappresentazione di una divinità, mentre per altri è un uomo realmente vissuto, un re, la cui eroicità ha fatto sì che venisse divinizzato dai posteri. Sta di fatto che Ghilgameš è parte fondamentale della storia Assiro-Babilonese, che ce lo tramanda in tre modi differenti:

1. come divino sovrano di Uruk;
2. come divinità delle religioni mesopotamiche in diversi inni e iscrizioni, composti sia in lingua sumerica sia in lingua accadica;
3. come personaggio principale di alcune epopee religiose mesopotamiche composte sia in lingua sumerica sia in lingua accadica, e anche in altre lingue del Vicino Oriente antico.

Ghilgameš, bassorilievo. Identificazione incerta. Fonte Wikipedia.

L’Epopea di Ghilgameš è tramandata in numerose tavolette (dodici quelle proposte nel volume) rinvenute in vari luoghi, che si presentano spesso frammentarie, ma il libro di Saporetti colma le lacune e ci propone una traduzione che “è scrupolosamente letteraria ed è stata eseguita direttamente sul cuneiforme”.
La questione della traduzione è molto delicata e Saporetti la affronta con decisione e ferma consapevolezza:

Come si può vedere, nelle varie traduzioni del “Ghilgameš” ci può essere chi si limita a considerare quello che c’è, come abbiamo cercato di fare noi, chi invece ingentilisce il concetto con giri di parole, chi intorbida allungando il brodo giocando con la fantasia, chi trasformando il sottinteso in vera e propria traduzione di quel che non c’è. E possiamo assicurare che in altri e numerosi vari punti del nostro poemetto la fantasia dei traduttori (a volte traduttor dei traduttori) ha tracimato oltre gli argini, anche quelli del buon senso, specialmente là dove le macchie di lacune hanno scatenato i cavalli dell’immaginazione oltre il lecito (spesso molto oltre), alimentando il falso.

E ancora sulla questione della traduzione e della scelta della prosa scrive Saporetti:

La ragione del presente libro è quella di portare a conoscenza del lettore non solo la leggenda, la storia e le premesse letterarie del poema di Ghilgameš, ma la traduzione stessa di questo poema: una traduzione mia, che ovviamente non sempre coincide con altre, specie in qualche particolare per cui ho dovuto fare il punto, o scegliere, o proporre. (…) Per comodità questa traduzione, a cui ho cercato di dare la più seria base scientifica (non essendo un traduttor dei traduttori, sono ovviamente partito dal cuneiforme) è riportata in prosa, avulsa dalla divisione in “versi” come si trova invece nei testi mesopotamici. Essa segue la versione “classica”, quella conosciuta dalle dodici Tavole rinvenute nella Biblioteca del re Assurbanipal (VII secolo) a Ninive. È la versione similmente composta da Sîn-leqe-unninnī, un Omero mesopotamico che rielaborò composizioni preesistenti, in un periodo che probabilmente è quello medio-babilonese (c. XIV-XIII sec. a.C.).

Le dodici tavole sono proposte integralmente nel libro e sono seguite ognuna da un commento e da note dettagliate che permettono al lettore di cogliere non solo l’interpretazione della vicenda dal punto di vista letterario e simbolico, ma permettono di acquisite molte informazioni sul periodo storico in questione.
Ma l’epopea di Ghilgameš in cosa consiste? In sostanza è divisa in due momenti. Il primo momento “è una specie di Iliade fatta di imprese eroiche e vittoriose, la seconda una specie di Odissea in cui il nostro protagonista vaga tra pericoli ed avventure per arrivare ad una meta”, che è il desiderio di vincere la morte. Alla fine del suo viaggio Ghilgameš sembra aver raggiunto il suo scopo, si è impossessato di una pianta miracolosa che gli eviterebbe di invecchiare, ma gli viene rubata da un serpente e quindi tutto resta immutato.

Da queste storie mesopotamiche, (ne siamo convinti) anche quella leggenda di Alessandro Magno che tanto ha avuto successo nel Medioevo, è facile trarre la morale: avvicinarsi al dio è possibile, puntare al dio è auspicabile, ma cercare di diventare come dio è diabolico e catastrofico.

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GDL #LEAVVELENATRICI | Bartleby lo scrivano è stata la lettura di Febbraio

La tappa di febbraio del GDL del Le avvelenatrici ha previsto la lettura del racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, che io ho letto nella edizione Universale Economica Feltrinelli.

Il testo fu pubblicato inizialmente in maniera anonima in due puntate apparse sul Putnam’s Magazine nei mesi di novembre e dicembre del 1853. Nel 1856, con qualche variazione, fu inserito nella raccolta The Piazza Tales. A quanto pare ad ispirare l’opera a Melville fu un saggio di Emerson dal titolo Il trascendentalista.

In questo scritto, Melville racconta la storia di uno scrivano, Bartleby, un po’ strano e taciturno, il quale inizia a lavorare da un avvocato di Wall Street. La storia ci viene raccontata proprio da questo avvocato, che si definisce in apertura un uomo piuttosto anziano, come a dire che nella sua vita ne ha viste tante, ma nessuna supera la storia di Bartleby.

La natura della mia professione, negli ultimi trent’anni, mi ha portato ad avere contatti fuor del comune con ciò che direbbesi un interessante ed alquanto singolare genere di individui, dei quali fino ad ora, ch’io sappia, nulla è stato scritto. Mi riferisco ai copisti legali, ovvero scrivani. In gran numero ne ho conosciuti, sia per pratica di lavoro che a titolo personale, e, quando volessi, potrei narrare svariate storie, che forse farebbero sorridere le persone benevole, e forse farebbero piangere le anime sentimentali. Ma rinunzio alla biografia d’ogni altro scrivano per pochi momenti della vita di Bartleby, che fu scrivano, il più stravagante di quanti abbia mai veduto, o di cui abbia avuto notizia.

Effettivamente Bartleby è un tipo strano. Un giorno si presenta nell’ufficio di questo avvocato e viene assunto dopo aver letto una inserzione di lavoro:

In risposta ad un’inserzione, un immobile giovanotto compare un bel mattino sulla soglia del mio ufficio, essendo la porta aperta perché s’era d’estate. Rivedo ancora quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby.

Bartleby sembra essere sbucato dal nulla. Il suo passato è avvolto nel mistero e la sua figura non gli attribuisce doti particolare agli occhi dell’avvocato. Infatti, appare scialbo e immobile.

All’inizio Bartleby svolse una straordinaria quantità di lavoro scritturale. Quasi fosse da lungo tempo affamato d’alcunché da copiare, egli pareva pascersi con ingordigia dei miei documenti. Non si concedeva pausa per la digestione. Si dava da fare notte e dì, copiando sia con la luce del sole che a lume di candela. Mi sarei senz’altro compiaciuto di tanta solerzia, fosse egli stato allegramente operoso. Invece continuava a scrivere in silenzio, con moto scialbo e meccanico.

Nonostante queste stranezze, Bartleby all’inizio sembra essere un buon scrivano. Ma i problemi iniziano a sorgere quando alle richieste dell’avvocato di svolgere alcune mansioni Bartleby, inaspettatamente, risponde negativamente, sempre con la stessa espressione: avrei preferenza di no, a cui non aggiunge ulteriori chiarimenti. Questo atteggiamento potrebbe far innervosire chiunque, potrebbe far scattare un licenziamento in tronco, ma il nostro avvocato invece reagisce differentemente.

Con chiunque altro sarei andato su tutte le furie; bandita ogni altra chiacchiera, l’avrei senza scrupoli cacciato via. Ma v’era qualcosa in Bartleby che, non soltanto stranamente mi disarmava, ma puranco, in modo assai sorprendente, mi toccava e sconcertava.

L’atteggiamento dell’avvocato, quindi, non è quello di rabbia nei confronti di Bartleby, anche se in alcuni momenti ci sono dei moti di ribellione. Ma l’avvocato si incuriosisce alla figura del suo scrivano e prende a studiarlo fino a quando non scopre, casualmente, che Bartleby vive nel suo ufficio. Esasperato da questa situazione, l’avvocato cerca una soluzione, ma l’atteggiamento di Bartleby è risoluto. Ad un certo punto si rifiuterà persino di scrivere e di essere licenziato. L’avvocato, all’ennesimo rifiuto di Bartleby, impietosito forse dalla sua situazione di solitudine e di povertà, decide di lasciarlo lì e di trasferire l’ufficio altrove.

Bartleby non lascerà mai quell’ufficio e continuerà ad occuparlo anche quando arriveranno i nuovi affittuari. La situazione con i nuovi affittuari prende una brutta piega perché il nuovo inquilino decide di far arrestare Bartleby. Nel frattempo il nostro avvocato aveva cercato di dissuaderlo dal suo atteggiamento, ma la risposta che dà è sempre la stessa “avrei preferenza di no”. L’esito della vicenda è, come si può immaginare, negativo, perché Bartleby muore in carcere, anche se l’avvocato aveva continuato a prendersi cura di lui.

La storia singolare di quest’uomo ci lascia un misto di sensazioni tra la rabbia e lo sconcerto ed è servita a Melville per dare una lettura della realtà contemporanea. Ambientato nella strada di Wall Street quando sta per trasformarsi nel grande centro dell’economia americana, questo racconto e il suo personaggio rappresentano lo straniamento dell’individuo in una società che diventa sempre più capitalistica. L’uomo perde la sua forza individuale, è isolato e destinato ad una povertà materiale e spirituale in un contesto dove non tutti sono in grado di comprendere l’altro. L’avvocato ha ancora una coscienza, ma gli altri scrivani sono presi dalle “regole personali” di giustizia e produttività incuranti dell’altro e incapaci di comprenderne le azioni.

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RECENSIONE | Egon Schiele disegnato e raccontato da Otto Gabos

Egon Schiele. Il corpo struggente è un graphic novel firmato Otto Gabos, edito da Centauria. Si tratta di “un racconto sulla vita di Egon Schiele, dalla nascita alla tragica morte vista attraverso il segno di uno dei più importanti graphic novelist intaliani“.

Il volume si divide in quattro capitoli, ognuno dedicato ad un momento importante della vita e della formazione e poi attività artistica di Schiele. Il primo capitolo racconta la nascita e l’infanzia dell’artista, puntando l’attenzione su due aspetti fondamentali: la figura del padre e i treni, che furono sempre presenti nella sua mente anche grazie al fatto che suo padre era un capostazione.

Mio padre faceva il capostazione e quando andavo a trovarlo a lavoro era festa. Fremevo per l’arrivo delle locomotive sbuffanti che mi apparivano enormi e terribilmente vive. (…) Fissavo a mente ogni loro movimento, ogni loro ingranaggio. Le locomotive e il resto del treno furono i miei primi disegni realizzati con il semplice pensiero.

La morte del padre segna l’esistenza di Schiele, ma questo non impedisce al giovane di inseguire il sogno di diventare un artista affermato. Nel 1906 va a Vienna per frequentare l’Accademia. Vienna è una città moderna e piena di stimoli:

Nel giro di poco più di trent’anni Vienna si era immersa nel ruolo di capitale dell’impero trasformandosi in metropoli. (…) La città che si presentò agli occhi di un giovanissimo Schiele, appena sedicenne, era spettacolare e terribile. (…) Vienna era il posto ideale per esprimere la creatività assoluta. nessuno poteva immaginare che uno splendore così abbagliante da apparire eterno sarebbe stato offuscato fino al suo oblio, travolto dell’incubo della Prima Guerra Mondiale.

Vienna era diventata la culla dell’arte e della cultura, in essa erano confluiti pittori, musicisti e scrittori, che contribuirono a dare un nuovo volto alla cultura europea, ma la guerra era dietro l’angolo a minacciare un progresso che sembrava inarrestabile.

Nel 1907 Schiele entra in Accademia e come viene raccontato nel secondo capitolo i rapporti con il suo professore, Christian Griepenkerl, non furono idilliaci e mai Schiele condivise il conservatorismo che l’insegnante sosteneva. L’incontro con Klimt fu illuminante, poichè in lui Schiele riusciva a trovare una guida per la sua arte, che aveva una sola regola: mostrare il corpo umano e la sua luce:

Io dipingo la luce che si emana da tutti i corpi.

Il terzo e il quarto capitolo sono dedicati al rapporto che l’artista ebbe con le donne della sua vita. La prima è Wally Neuzil, sua musa ispiratrice per diverso tempo, ma con la quale interruppe ogni rapporto per sposarsi con Edith Harms, la seconda sua donna, che morì di febbre nel 1918.

Wally Neuzil morì di scarlattina nel 1917 a soli ventitrè anni, due giorni dopo Natale in un campo in Dalmazia. Dal momento dell’abbandono non si era più incontrata con Egon. Qualche mese dopo morì anche Klimt per un ictus improvviso.

Schiele riuscì ad affermarsi sulla scena artistica nazionale, ma non visse abbastanza per godere pienamente del successo perché morì anche lui di febbre il 31 ottobre 1918.

A pochi mesi dalla fine della guerra Vienna si era ridotta ad un’immensa città spettrale dove poveri derelitti avvolti in stracci vagavano in cerca di qualsiasi cosa commestibile. (…) Quasi senza soluzione di continuità, come corollario crudele esplose la più devastante pandemia dopo la peste nera. Arrivò la Spagnola. In due anni fece oltre cinquanta milioni di vittime.

Tra queste vittime ci fu anche Egon Schiele, ma la sua arte trasgressiva e anticonformista lo ha reso immortale.

Lassù sulla terra che stormisce circondata da ampi boschi cammina lentamente alto e bianco l’uomo entro un vapore azzurro sempre fiutando i bianchi venti del bosco. Attraversa la terra che sa di cantina e ride e piange. (Egon Schiele)

RECENSIONE | Io e il Signor Oz, l’esordio narrativo di Stefano O. Puracchio

Io e il Signor Oz è il primo racconto dell’omonimo libro scritto da Stefano Orlando Puracchio, pubblicato da Demian Edizioni.

Tutti noi conosciamo il libro di Lyman Frank Baum, Il mago di Oz,(che io ho proprio riletto l’estate scorsa) e chi non ha mai sognato di trovarsi nella favolosa Città di Smeraldo e di incontrare Dorothy e gli altri personaggi della storia? Beh, quel luogo sfavillante di luce verde è stato raggiunto dai personaggi del racconto di Puracchio, il quale ci narra di due uomini Joe Brown e Seymur Baxter prima acerrimi nemici, complici dopo.

Il libro si apre con il racconto di Joe Brown inseguito da Baxter e che insieme si ritrovano, senza volerlo, a Oz. In questa narrazione ritroviamo alcuni personaggi del libro di Baum, come il mago di Oz, che poi tanto mago non è, lo Spaventapasseri, che nel frattempo ha preso la guida della Città di Smeraldo, ma incontriamo anche tanti nuovi personaggi come Jana, la spaventapasseri che si trasformerà in una donna in carne e ossa e diventerà la moglie di Joe. Joe, Baxter e Jana insieme saranno i protagonisti di una nuova avventura a Oz e quando faranno ritorno nella loro città, St. Albert’s Creek, si ritroveranno non solo ad essere buoni amici e custodi del segreto di Oz, ma ricopriranno un ruolo di prestigio in città. Baxter continuerà ad essere il vecchio e ricco possidente, mentre Joe ricoprirà il ruolo di sceriffo e insieme affronteranno i problemi e i pericoli a SAC. Dopo i fatti di Oz vengono fuori tanti piccoli racconti con un unico filo conduttore e una narrazione, che nella sua interezza risulta ben strutturata e godibilissima. È stata molto piacevole la lettura di questo libro; non capita spesso che le storie ispirate a grandi capolavori della letteratura risultino all’altezza del predecessore.

Puracchio, a mio avviso, è stato bravo nel prendere l’ispirazione e ad allontanarsi al momento giusto, senza però mai perdere totalmente il legame con l’opera originale e il finale, che potrebbe risultare deludente, invece lascia aperta la strada a nuove avventure. Questo perché Puracchio potrebbe continuare all’infinito a raccontare la storia di Joe, di Baxter, di Jana e di St. Albert’s Creek senza mai annoiare il lettore. Puracchio non è nuovo alla scrittura, è giornalista e scrittore; ha già pubblicato altri libri, ma Io e il Signor Oz è la sua prima “incursione” nel mondi della narrativa e se queste sono le premesse, ci aspettiamo altre belle storie.

Ringrazio Synpress44 per avermi dato l’opportunità di leggere questo libro, che consiglio a grandi e piccini e se vi ha incuriosito potete acquistarlo CLICCANDO QUI, approfittando così della mia affiliazione Amazon.

Guglielmo Marconi e la sua arma segreta nel romanzo di Maurizio Agostini

Tutti noi conosciamo Guglielmo Marconi come il Premio Nobel per la Fisica e per aver inventato la Radio, ma questo non basta a definire la grandiosità di questo scienziato e soprattutto non basta a conoscerlo veramente.

Maurizio Agostini nel suo libro La terra canta in Do. L’arma segreta di Guglielmo Marconi, tra fantasia e dati storici ci racconta un Marconi del tutto inedito. La storia si sviluppa su due binari temporali differenti, il primo è quello dei tempi di Marconi, in cui conosciamo la sua storia personale, le sue origini familiari e gli sviluppi in campo scientifico. Il secondo, ovviamente, si sviluppa nei nostri giorni e ha come protagonisti Marcello, un commercialista, Francesca, un transessuale spia ed Eleonora, una giovane ricercatrice, discendente dello scienziato bolognese, che sta lavorando ad una tesi di laurea su un aspetto particolare della storia del suo antenato. Pare che Marconi, negli ultimi anni della sua vita, abbia scoperto un’arma potentissima in grado di neutralizzare il nemico e di plasmare la materia. La morte improvvisa e a tratti misteriosa dello scienziato ha posto fine allo sviluppo di questa potente arma, su cui lo stesso Benito Mussolini aveva messo gli occhi. Ma sarà veramente così? Il segreto di Marconi è andato perduto in seguito alla sua morte?

Le “indagini”, che i tre protagonisti portano avanti, giungono ad una verità sconvolgente, in cui sono implicati altri famosi scienziati, il mondo della politica, una potente organizzazione segreta e persino il Vaticano. Il romanzo parte molto bene, è molto convincente e appassionante, soprattutto quando si parla della vita di Marconi. Sfido chiunque a non appassionarsi! La sua storia si accavalla a quella dei protagonisti che se in un certo qual modo può avere dei collegamenti con la passione che lo scienziato ebbe per le donne, essi sono il simbolo di uno squilibrio sociale, di una perdita di valori e punti di riferimento, che oggigiorno sono sempre di meno. Molto carina è l’indagine che i tre portano avanti e che, a tratti, ricorda grandi best seller storici. Se siete appassionati di storie in cui c’è un mix tra spionaggio, intrighi storici, storie personali e quanto altro questo libro potrebbe piacervi. Alcuni passaggi potrebbero apparirvi un po’ forzati, ma nell’economia generale del romanzo tutto fila perfettamente. Al termine del romanzo trovate anche una bibliografia utile per approfondire l’argomento e per consultare le fonti da cui Agostini ha tratto ispirazione per questo romanzo tra verità e fantasia.

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