Il mese di maggio è perfetto per la lettura. Forse tutti i mesi lo sono, ma a maggio è possibile uscire in giardino nelle ore più calde, su un bel terrazzo o in un parco pubblico e rilassarsi con una buona lettura.
Per questo mese vi consiglio cinque libri che possono soddisfare varie esigenze di lettori diversificati, non li ho letti tutti; spero di farlo presto e di condividerne con voi le storie. In attesa di parlarvi anche di altri titoli e argomenti sempre legati al mondo dei libri, vi presento i suggerimenti del mese:
Qualcosa di Chiara Gamberale edito da Longanesi. A metà strada tra la fiaba e il classico, questo libro si presenta come una originale riflessione sull’amicizia, sul dolore, sull’amore e sul alcuni aspetti della vita. La protagonista è la Principessa Qualcosa di Troppo che ha la caratteristica o difetto di essere senza limiti, ride e piange troppo o desidera troppo. Nel suo percorso la Principessa incontra il Cavalier Niente e grazie a lui scopre una serie di valori che, fino ad allora, aveva rifiutato. Le avventure della Principessa Qualcosa sono piacevoli da leggere, anche grazie alle belle illustrazioni a colori di Tuono Pettinato, lasciando al lettore la riflessione su temi importanti.
Dance dance dance di Murakami Haruki, edito da Einaudi nella collana Super ET. Il protagonista di questo romanzo è un giornalista freelance costretto per delle circostanze a improvvisarsi detective. Ad accompagnarlo c’è una giovane donna dai poteri paranormali in una Tokyo che Murakami descrive nelle sue sfaccettature notturne e iperrealistiche. Chi ama il mistero e la scrittura di Murakami, autore pluripremiato, ma schivo e riservato, con questo romanzo potrà godere di una lettura veramente coinvolgente.
Rimanendo nello stesso genere è il romanzo di Jöel Dicker, La verità sul caso Harry Quebert, edito da Bompiani. Un professore universitario accusato di omicidio, uno scrittore con il blocco della scrittura, le indagini per scoprire la verità sono gli elementi che condiscono questo romanzo. Un thriller potente, che vi terrà incollati al libro e se poi proprio non vi va di leggerlo, potete sempre guardare il film, ma non dimenticate di farmi sapere se è più bello il film o il libro.
Maggio evoca le scampagnate, passeggiate all’aria aperta, trekking ed escursioni tra la natura, la storia e l’arte. Se avete voglia di combinare tutto questo, vi consiglio il libro di Paolo Rumiz, Appia, edito da Feltrinelli nella collana Narratori. Non si tratta di una guida turistica, ma della narrazione di un viaggio fatto a piedi dall’autore. In compagnia di amici, Paolo Rumiz, noto giornalista di “la Repubblica”, ha percorso la via Appia e ce la racconta in questo libro come se fosse una sorta di diario di viaggio, facendoci scoprire luoghi, città, storia, arte… un racconto quello di Rumiz che parla del bello, ma anche di quello che non va, senza però farci passare la voglia di viaggiare e conoscere.
Se dei libri consigliati fino ad ora non ve ne piace nessuno, allora vi suggerisco Il profumo delle foglie di tè, di Dinah Jefferies, edito da Newton Compton. Il romanzo è ambientato nella Londra degli anni ’20 e la protagonista è una giovane donna che, dopo un matrimonio per procura, si trasferisce su un’isola lontana dove il marito conduce i suoi affari. La vita matrimoniale non è quella che Gwen immagina e nemmeno suo marito sembra essere più l’uomo di cui si era innamorata tempo prima. Gwen trascorre molto tempo sola, dedita a governare le faccende domestiche e la servitù, ma la casa in cui vive sembra nascondere dei segreti inaccessibili. La vicenda si complica quando la protagonista partorisce e dovrà prendere una decisione importante… non vi svelo niente di più, vi rimando alla lettura di questo libro che è stato tradotto in diciassette paesi, registrando uno straordinario successo editoriale.
Non mi resta che augurarvi una buona lettura e attendere i vostri commenti e perché no, i vostri suggerimenti di lettura.
La donna mancina è considerato il capolavoro di Peter Handke, scrittore nato in Austria nel 1942, il quale vanta una importante produzione sia letteraria che teatrale.
La donna mancina, pubblicato nel 1976, ricevette subito l’apprezzamento di pubblico e di critica per il suo stile asciutto e privo di inutili orpelli linguistici. Nel 1978 diviene un film diretto dallo stesso Handke e presentato in concorso al Festival di Cannes in quell’anno.
Una scena del film
Il romanzo segnò una svolta nella narrazione dell’autore che abbandonò lo stile sperimentale per uno stile minimo, essenziale che però non trascura di mettere in evidenza tratti essenziali della psiche dei personaggi.
Marianne è una giovane donna che, nonostante una vita familiare serena, decide improvvisamente di mandare via di casa il marito, costringendolo a convivere con la maestra di Stefano, loro figlio. Non c’è nessun motivo grave o apparente che spieghi tale decisione, ma Bruno la accetta, assecondando la strana richiesta della moglie, che intanto ritorna a fare la traduttrice. Marianne resta a casa con il figlio e inizierà così una nuova vita che è destinata alla solitudine, ma che allo stesso tempo si configura come la riconquista di una vera libertà interiore.
La donna mancina è un romanzo breve, in cui la vicende viene presentata quasi come se fosse una pellicola cinematografica, in cui l’autore lascia al lettore, osservatore esterno, trarre le conclusioni. Non è un romanzo descrittivo, i luoghi, i sentimenti e le sensazioni sono quasi del tutto annullate, ma ciò non evita al lettore di entrare in empatia con la protagonista. L’autore non ci dice mai come si sente Marianne o cosa stia pensando; tutto è lasciato alle parole e alle azione dei protagonisti, che possono risultare anche stranianti per il lettore. Ad un primo approccio questo romanzo può lasciare perplessi, tuttavia Marianne resta nel pensiero del lettore per molto tempo e questo credo sia la grandezza della scrittura di Peter Handke.
Aveva poco più di vent’anni quando Matilde Serao pubblicò il suo quarto libro Leggende napoletane. Il volumetto è la raccolta di circa quindici leggende che fanno parte di quello straordinario sostrato culturale che rende unica Napoli e la sua storia.
Matilde Serao
Ad introdurre ogni singolo capitolo troviamo un breve scritto che la Serao utilizza per rivolgersi al lettore o per introdurre la narrazione e che dovrebbe incuriosire il lettore, curiosità che però non viene poi soddisfatta del tutto. Lo stile della Serao risulta in questo scritto un po’ noioso e banale, forse dovuto alla giovane età e quindi a una non piena maturità stilistica. In esso si intravede ancora una certa tendenza romantica, che non ancora ha niente a che vedere con quel verismo che le è stato attribuito per Il ventre di Napoli o per la sua attività giornalistica. La Serao, in questa sua raccolta di leggende, ci racconta di Virgilio mago, del Munaciello, di fantasmi e di tante altre storielle legate a palazzi, personaggi o luoghi di Napoli.
La fontana di Partenope ubicata P.za Sannazzaro a Napoli
Nonostante l’autrice si sforzi di raccontare, non riesce a nostro avviso a raggiungere i livelli di una narrazione come potrebbe essere quella di Benedetto Croce, il quale in maniera alquanto sublime raccolse un volume prezioso di storie e leggende napoletane. Un lavoro, quello di Croce, durato una vita intera e realizzato da chi conosceva profondamente Napoli e ne assaporava odori e sapori, atmosfere e sfumature, possiamo dire, in maniera verace. La Serao sa vedere Napoli, a lei è attribuita una nuova capacità di analisi, quasi psicologica, ma le manca la napoletanità. Non dimentichiamo le origini greche della scrittrice, la quale giunse a Napoli nel 1861. In Leggende napoletane la Serao è frettolosa, quasi frammentaria; è come se si limitasse ad appuntare una storia ascoltata senza volerne comprendere l’identità vera e sostanziale. È spesso scettica e distaccata nella narrazione sia qui che in altre opere; è vero che si tratta di vicende fantastiche, ma esse fanno parte della storia di una città che vive al limite tra reale e fantastico e per essere così com’è ha bisogno di credere che ‘O Munaciello esiste o che da qualche parte, nelle fondamenta di Castel dell’Ovo, ci sia un uovo nascosto da Virgilio. Napoli ha la sua mitologia che va rispettata e compresa, così come i Greci credevano ai loro miti.
Castel Dell’Ovo – Napoli
Con Il ventre di Napoli, la Serao ritorna a descrivere Napoli, a parlare dei vicoli, della quotidianità, di quel ventre in cui il popolo partenopeo trova alimento. Nonostante la critica ne parli bene, non possono non sfuggirci alcuni passaggi in cui – visto il carattere della scrittrice che Scarfoglio definì “donna tanto convenzionale e pettegola e falsa tra la gente e tanto semplice, tanto affettuosa, tanto schietta nell’intimità, tanto vanitosa con gli altri e tanto umile meco, tanto brutta nella vita comune e tanto bella nei momenti dell’amore, tanto incorreggibile e arruffona e tanto docile agli insegnamenti” – emerge una certa tendenza della Serao a porre giudizi nelle sue descrizioni:
Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi. (Il Ventre di Napoli)
Risulta evidente lo stereotipo tipico del napoletano o del pulcinella famelico. Questo aspetto forse, ci azzardiamo a dire, trascura una condizione di povertà della popolazione non solo napoletana. Infatti Antonio Pascale, nella sua introduzione all’opera dice che la Serao non fa altro che descrivere – inconsapevolmente forse – la condizione di gran parte del popolo meridionale e non solo.
La superstizione del popolo napoletano – oh, povera gente che è vissuta così male e con tanta bonarietà, che muore in un modo così miserando, con tanta rassegnazione! – la superstizione di questo popolo ha fatto una dolorosa impressione a tutti! (Il Ventre di Napoli)
Colpisce molto l’espressione “dolorosa impressione”, come se il popolo napoletano vivesse in una condizione di non ritorno… Ritornano in mente le parole di Pier Paolo Pasolini, il quale però parla del popolo napoletano in termini ben diversi:
Benchè sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono, appunto, in concreto, e per di più ideologicamente, simpatiche. Essi infatti non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia. E questo per me è molto importante (…). Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po’ naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della repubblica italiana. (Gennariello)
Insomma la Serao guarda il ventre di Napoli, lo descrive, ma con distacco, come se stesse su un’altura e attraverso il filtro di un binocolo. Non riesce a lasciarsi andare, si ferma in un angolo ad osservare uno spettacolo che poi trascrive su carta. E questo forse è il motivo che la avvicina al verismo, ma risulta lontana mille miglia dal verismo autentico di Verga, Capuana, De Roberto. Questo sarà il motivo per cui la Serao è caduta nel dimenticatoio. Carducci disse di lei come “la più forte prosatrice d’Italia”, ma ciò non bastò a offuscare il giudizio di Scarfoglio che, nonostante il legame che i due ebbero, non la giudicò una scrittrice di particolare spessore.
In attesa di pubblicare le recensioni delle letture di marzo che sono state tante e interessanti, vi indico ciò che ho intenzione di affrontare questo mese.
Inizio con La donna mancina di Peter Handke. È un romanzo breve considerato non solo uno dei capolavori della letteratura del Novecento, ma anche il migliore lavoro dell’autore australiano per stile e linguaggio. Dalla sinossi conosciamo un po’ la vicenda della protagonista, Marianne, che decide di dare una svolta alla sua vita lasciando il marito e andando alla ricerca di una piena libertà.
Il secondo libro della lista è Neve, cane, piede di Claudio Morandini edito da Exorma. Questo libro è diventato famoso grazie al gruppo Facebook Billy, il vizio di leggere. Tutti i membri, in seguito ad una operazione che Michela Murgia ha definito ‘intelligente’, hanno acquistato contemporaneamente il libro di questa piccola casa editrice, facendolo entrare nella classifica dei libri più venduti. Non ho resistito alla curiosità e l’ho acquistato, anche grazie alla positiva recensione della Murgia… lo leggerò e vi farò sapere la mia.
L’arte di essere fragili è il terzo libro in lettura. In realtà l’ho già iniziato e sono già a buon punto nella lettura, perché Alessandro D’Avenia mi cattura con il suo modo di narrare. Ho iniziato con il dare una sbirciatina e l’ho quasi finito. Forse perché si parla di Giacomo Leopardi, perché è ricco di citazioni o perché è ben scritto, non so ancora ben dire, ma di certo è il frutto di un lavoro di conoscenza profonda di uno dei più grandi poeti della letteratura italiana e di un professore che ama il proprio mestiere e ama trasmettere conoscenza ai suoi alunni.
Penultimo libro è Hollow City, il secondo capitolo della saga di Miss Peregrine e la casa dei ragazzi speciali. Qualche mese fa lessi il primo volume della saga scritta da Ransom Riggs (leggi qui la recensione) e la vicenda rimasta in sospeso ci invita alla lettura del secondo capitolo. Ritroviamo quindi gli stessi protagonisti, Jacob e i suoi amici speciali, per nuove avventure… scopriremo!
Quinto e ultimo libro è La misura della felicità di Gabrielle Zevin edito da Nord. Il protagonista è Fikry, un uomo scontroso e irascibile che dopo l’incontro con una bambina vedrà la propria esistenza completamente sconvolta. Il libro è stato un best seller mondiale e il Corriere della sera lo ha definito “Una dichiarazione d’amore per i libri e per il mestiere di libraio”. Potevamo farcelo scappare?
Questi sono i titoli di questo primo mese di primavera, le premesse mi sembrano più che buone, non mi resta che leggere. Nei prossimi giorni ritornerò con le mie opinioni sui libri di marzo a partire da Mr Punch di Stefano Bessoni e su nuovi argomenti dal mondo letterario.
Poco conosciuto in Italia, Barbey D’Aurevilly è un autore francese del XIX secolo, che ho incontrato durante gli studi universitari.
J.-A- Barbey D’Aurevilly
Jules-Amédée Barbey nasce nel 1808 a Contentin (Normandia) e solo successivamente aggiunse al suo nome il titolo D’Aurevilly, che la famiglia possedeva dal 1756, quando il nonno dell’autore se lo procurò. Studiò legge all’Università di Caen e negli anni della gioventù si fece fervente rappresentante di opinioni anticlericali e repubblicane. Fu autore di numerosi racconti e opere di narrativa, tra questi Un prete sposato e La Stregata, ma fu anche autore di un volumetto sul dandismo e su George Brummell. Il dandismo fu per Barbey D’Aurevilly una vera e propria ossessione. Cercò di vivere alla maniera del dandy, avendo come modello Brummell che tuttavia non incontrò mai personalmente, ma che conobbe attraverso le descrizioni dell’amico Guillaume-Stanislas Trébutien. Si trasferì definitivamente a Parigi nel 1833 (dove vi morì nel 1889), vivendo agli inizi lontano dal mondo letterario e giornalistico, ma subendo il fascino degli ambienti aristocratici e di personaggi d’oltremanica come Lord Byron e Scott. Visse nell’agio, sperperando parte degli averi per conformarsi a quell’idea di dandy che si era costruito. Ritornò alle sue origini cattoliche, monarchiche e aristocratiche, divenendo sostenitore di Napoleone III. In realtà egli risultò sempre contraddittorio sia come cattolico che come dandy. Come dicevamo in precedenza, D’Aurevilly fu scrittore di numerosi racconti, i quali rispecchiano pienamente il suo tempo. L’opera più conosciuta forse è Le diaboliche, una raccolta di sei racconti in cui l’autore mostra tutta la sua arte nel porgere e mostrare una storia.
Chi oggi intraprende la lettura dell’opera di D’Aurevilly potrebbe stancarsene subito. Infatti, la caratteristica principale del nostro autore è un gusto nel raccontare e descrivere gli antefatti che rallentano la narrazione della vicenda. Questa tipologia di scrittura è certamente figlia di un’epoca che amava ascoltare, soffermarsi sui particolari e trascorrere il tempo nei caffè a leggere e scrivere. C’era un certo piacere narcisistico nel narrare e nell’ascoltare, piacere che lo stesso D’Aurevilly descrive nei racconti, quando le vicende sono narrate da un personaggio/narratore ad ascoltatori in un salotto o ad un singolo interlocutore, come avviene nei racconti A un pranzo di atei o La tenda cremisi. Le lunghe introduzioni servono al nostro autore anche ad aumentare la curiosità del lettore, il quale al termine del racconto si sarà fatto un’idea del protagonista, ma avrà sempre una sensazione di incompletezza dovuta a quella capacità di D’Aurevilly di attribuire il mistero alla vicenda o intorno al personaggio. Le protagoniste di Le diaboliche – titolo non casuale – sono donne avvenenti, spregiudicate, calcolatrici, diaboliche appunto. Quell’aura di mistero che l’autore costruisce intorno a personaggi spregiudicati, capaci di commettere ogni tipo di azione o di provare sentimenti forti come l’odio e la vendetta fino agli estremi termini, aiuta l’autore a mettere insieme un percorso di narrazione che conduce il lettore alla sorpresa e alla meraviglia.
Quando parliamo di sorpresa o meraviglia ovviamente facciamo riferimento non ad una azione spettacolare ma ad una caratteristica specifica. Mi spiego meglio: oggi potrebbe risultare alquanto macabro custodire il cuore essiccato di un figlio morto prematuramente, o fare a pezzi il corpo di un contendente in amore e darlo in pasto ai cani può apparire alquanto orribile… invece tutto questo è presente nei racconti di D’Aurevilly e viene narrato con una naturalezza tale da apparire quasi la normalità. Questo è l’origine della meraviglia, di cui si è persa l’essenza vera, ma che possiamo riscoprire grazie ad autori come D’Aurevilly. Egli ci narra storie semplici ma che sottendono a qualcosa di mostruoso. Forse in esse è possibile vedere quel gusto per l’horror o la letteratura gotica tanto in voga nella seconda metà del Settecento fino all’Ottocento inoltrato e che di sicuro non sfuggirono a D’Aurevilly.
Un gruppetto di uomini, dalla stradina laterale, raggiunge la piazza davanti la chiesa. Altri ne arrivano e lo spazio si riempie di una strana atmosfera. Una sensazione di festa li unisce. Sta calando la sera, si accendono le luminarie. Il paese ha un volto nuovo, svela la sua storia, la sua identità. La festa è vicina, ma vive in ognuno di loro, nella spasmodica attesa. La chiesa è diversa, è piena di luce, gremita di attese e speranze, di odori e sapori. San Giuseppe è lì, il Bambino tra le braccia, tutti lo ammirano, tutti pregano e invocano protezione. I giorni si susseguono, le persone si incontrano, si riconoscono negli sguardi e nel ripetersi di azioni e preghiere. Un gruppo di persone, giovani e anziani, corre in una direzione, si accalcano, allungano le mani desiderose di prenderlo quel pane di grazia, simbolo di fatica e benedizione. Qualcuno rimane deluso: il pane è finito, ma in un altro angolo di nuovo la ressa…
Nell’aria c’è odore di terra, proviene dai ceppi sradicati che aspettano di bruciare, di consumarsi nel fuoco della tradizione. Giovani e anziani, di nuovo insieme, preparano una pira, voci festanti fanno da collante ad un periodo dell’anno che annuncia la vita. Eccolo il segnale, il suono della campana fa accendere quel fuoco, gli occhi lo guardano, immobili osservano il consumarsi del rito. Altri fuochi vengono accesi, uno dopo l’altro e il fumo fa lacrimare gli occhi, il calore brucia il viso, riscalda i corpi… Le strade si riempiono, si beve e si mangia, senza capire, ma quando tutto è finito il rumore sparisce e il cuore si apre. La notte prosegue nel silenzio interrotto da un colpo di brace, che scoppia nel vuoto del giorno trascorso. L’anima contempla quel rosso che scalda come il più intimo abbraccio, in una stretta sicura che annuncia un domani pieno di sole.
Da diverso tempo ho l’abitudine di programmare un numero di libri da leggere nel mese che inizia e da oggi ho pensato di condividere con voi le mie letture.
Dedicherò questo mese di marzo alla lettura di ben sette libri. Qualcuno si è meravigliato, altri non hanno nascosto perplessità sulla riuscita, ma non trovo che la cosa sia particolarmente difficile quando c’è un po’ di organizzazione e tanta passione e se poi non si riuscirà a leggerli tutti non sarà un problema, si proseguirà nel mese successivo. Per ogni libro che leggo, da molto tempo, ho l’abitudine di scrivere una recensione e molte delle quali vengono pubblicate in questo blog. Quella della recensione è una pratica che trovo abbastanza interessante non solo per condividere con altri il gradimento o meno di un libro, ma anche per non dimenticare le trame. Rileggere la recensione aiuta non solo a ritornare alla vicenda e ai personaggi, ma aiuta anche a ricordare le emozioni provate nella lettura. Scrivere la recensione di un libro letto è una pratica che consiglio a tutti, anche a chi non è un “lettore forte”, inoltre garantisce anche l’allenamento alla scrittura e alla critica.
Ma torniamo ai libri di questo mese…
Come scrivo nel titolo, non tutti i libri sono nuovi per me, ma sono in rilettura e proprio da questi che voglio iniziare:
Mr Punch è un libro illustrato in cui l’autore mette in “versi e versacci” la sanguinosa storia del suo protagonista, personaggio del teatro dei burattini inglese e del Pulcinella napoletano, suo diretto ascendente. Una lettura molto divertente, accompagnata da illustrazioni non proprio fiabesche, ma che sono il tratto tipico di Bessoni, ma che lo rendendo sicuramente un autore/illustratore molto interessante.
Leggende Napoletanedi Matilde Serao, edito da Bideri.
Si tratta di una delle prime opere di Matilde Serao, scrittrice, giornalista e fondatrice di numerosi quotidiani tra cui Il Mattino di Napoli. Questo volume racchiude una quindicina di brevi paragrafi, ognuno dedicato a leggende che caratterizzano la città di Napoli. Ho iniziato già a dare una sbirciatina ai paragrafi e ciò che salta agli occhi immediatamente è lo stile non ancora ben maturo e lontano dal verismo de Il ventre di Napoli. Sono molto curiosa di leggere questo libro di una autrice che non ha forse, a torto o a ragione, la sua giusta collocazione nella storia della letteratura italiana.
Omero, Iliadedi Alessandro Baricco edito da Feltrinelli.
Questa è una rilettura piacevole da fare da soli e magari anche ad alta voce, in compagnia di buoni ascoltatori. Una riscrittura dell’Iliade nata proprio per una lettura pubblica. Il testo è semplificato perché si passa dalla poesia alla prosa, eliminando le ripetizioni tipiche della narrazione omerica e della cultura greca. Un testo interessante anche per chi desidera rispolverare le vicende del poema omerico senza necessariamente ricorrere al testo originale sicuramente più lento nella lettura.
Quattro sono invece i libri che leggo per la prima volta:
Tempo senza sceltedi Paolo Di Paolo edito da Einaudi.
Questo è il terzo libro che leggo di questo autore che ho avuto il piacere di conosce e apprezzare personalmente. Dopo Mandami tanta vita e Tutte le speranze. Indro Montanelli raccontato da chi non c’era, Tempo senza scelte è un testo piccolo ma estremamente intenso in cui l’autore compie una riflessione sull’essere umano che si trova oggi a compiere delle scelte. La riflessione, condotta con l’aiuto di esempi letterari e filosofici, mette in evidenza la grande capacità di analisi che Paolo Di Paolo dimostra in ogni suo scritto.
Lo strano caso dell’apprendista libraiadi Deborah Meyler edito da Garzanti.
Esme è una ragazza di 23 anni che si ritrova incinta in una New York che conosce appena, ma quando tutto sembra diventato difficile una nuova opportunità le si presenta e diventa una libraia de La Civetta, la libreria che da tempo frequenta. Quando tutto sembra ritrovare un equilibrio ritorna il fidanzato che è venuto a sapere del bambino e vuole ritornare da Esme, che è costretta di nuovo a compiere una scelta. Come andrà a finire lo scopriremo leggendo il romanzo, il cui successo è stato reso possibile proprio al passaparola dei bibliotecari indipendenti americani che lo hanno amato da subito.
Dio di illusionidi Donna Tratt edito nella collana Bur di Rizzoli.
Un romanzo che si preannuncia, già dal titolo, come la inesorabile caduta del mondo delle illusioni. Una storia di amicizia e complicità che ad un certo punto prende una piega sbagliata in cui giovani studenti vivono lontani dalla realtà in un passato tra classici ed eccessi vari fino a giungere alla violenza. Donna Tratt è definita un caso editoriale degli anni Novanta che con questo romanzo di formazione ha raggiunto in poco tempo un successo inaspettato.
La scuola cattolicadi Edoardo Albinati edito da Rizzoli.
Un libro di grandi dimensioni, 1294 pagine di racconto che già dalle prime battute risulta piacevolissimo e ben curato. L’autore, che con questo libro ha vinto il Premio Strega 2016, non lascia niente in sospeso, il discorso sembra ben pensato e consapevole. Anche in questo caso troviamo una scuola, un gruppo di ragazzi che si ritrovano a commettere un crimine. Personaggi veri e immaginati compongono una storia in cui sesso, violenza e i temi dell’adolescenza vengono descritti in una narrazione fluida e potente.
Queste letture si annunciano tutte entusiasmanti, prima di potervi parlare più dettagliatamente di ognuna, tanti altri argomenti, libri e scritture mi attendono nella speranza che abbiate la bontà di seguirmi. Intanto vi auguro una buona lettura!
Subito dopo la morte di Ugo Foscolo, avvenuta il 10 settembre 1827 nel villaggio di Turnham Green, ove visse gli ultimi suoi anni in compagnia della figlia, si accese fortissimo l’interesse verso la vita del poeta.
Ritratto di Ugo Foscolo (particolare del dipinto realizzato da Fabre nel 1813)
Videro la luce opere riguardanti la biografia di Foscolo che, come era prevedibile, fecero reagire in vario modo amici e familiari. Nel 1829 e nel 1830 furono pubblicati a Lugano due opere: la prima Ragguagli intorno Ugo Foscolo di Michele Leoni e la seconda Vita di Ugo Foscolo di Giuseppe Pecchio. A quest’ultimo Giulio Foscolo, fratello del poeta, indirizzò una lettera aperta in risposta alla sua opera e tanti altri opposero testimonianze e prove di vario genere per proteggere da falsità ed erronee mitizzazioni la vita del poeta del carme Dei Sepolcri. In tempi recenti l’opera del Pecchio, allora definito un detrattore della figura eroica di Foscolo, viene considerata la prima e vera biografia dell’autore nella quale è evidente una lettura non mitografica della vicenda biografica del poeta, ma evidentemente alcuni toni e affermazioni dovettero infastidire e urtare coloro che nutrivano un affetto parentale e non solo nei confronti di Foscolo.
Tutto ciò diede il via ad una vera e propria caccia alle lettere che Foscolo aveva negli anni scritto ad amici, familiari e alle donne verso le quali nutriva un sentimento amoroso. Ne vennero così una serie di edizioni che nel corso del tempo videro appendici e riedizioni, fino ad assumere quella forma che oggi è contenuta nell’opera completa del Foscolo e racchiusa sotto il titolo di Epistolario. L’Epistolario fa parte dell’Edizione Nazionale delle Opere di Foscolo edita da Le Monnier (1933-1994), occupandone sei volumi e racchiudendo le lettere che il poeta scrisse dal 1794 fino alla morte. La maggior parte del corpus delle lettere è composto da epistole inviate, mentre in numero assai inferiore sono quelle ricevute dal poeta. Nonostante l’Epistolario sia un’opera di notevoli dimensioni e di spiccato interesse culturale perché da esso è possibile comprendere il pensiero politico e letterario di Foscolo, esso risulta purtroppo incompleto.
Nelle ore che precedettero la sua fuga da Milano, il Foscolo evidentemente non ebbe il tempo di mettere in ordine le sue cose e depose i suoi oggetti personali e i libri in bauli che fece consegnare ad amici per salvarli da eventuali perquisizioni. Al suo fidato amico Silvio Pellico fece recapitare dei bauli di libri e di lettere, infatti scrive così Pellico in una lettera a Foscolo:
Due giorni dopo la tua partenza venne Giulio a Milano, che non sapeva niente. Gente di polizia fece ricerca della tua roba. I tuoi libri erano già presso di me; i bauli etc. in una casa ove Agapito ha stanza, e donde tuo fratello diede ordine a Ottolini di ritirarli. (Epistolario, VI p. 21)
Tuttavia il baule contenente alcune epistole e volumi andò perduto, tante altre lettere del Foscolo e molte delle risposte che ricevette non sono mai stare recuperate.
Leggere l’epistolario foscoliano ci rende in un certo senso spettatori dello svolgersi di una vicenda umana che ci è narrata direttamente dal protagonista; vicenda che mette in evidenza oltre che l’intimità familiare, anche quelle che erano le posizioni di uno dei maggiori autori italiani tra il ‘700 e l’800. Proprio di questo Foscolo, evidentemente, era consapevole; tant’è che le sue lettere non risultano mai di un moto spontaneo e improvviso. Così qualcuno ha inteso vedere nella scrittura epistolare un uso consapevole del ‘doppio’ da parte di Foscolo. Insomma possiamo azzardare nel dire che Foscolo avesse ben chiara la possibilità che dalle sue lettere “private” potesse uscirne un profilo “pubblico”.
Sicuramente per Foscolo la forma epistolare è un genere a lui congeniale – non dimentichiamo il romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis – tant’è che nel suo esilio inglese pensò di comporre un’opera, rimasta incompiuta, a cui oggi è dato il titolo di Lettere scritte dall’Inghilterra. In esse il Foscolo voleva trattare una sorta di confronto tra il mondo anglosassone e quello italiano. Immaginando di rivolgersi ad un gruppo di amici italiani, Foscolo rende conto in maniera divertita delle usanze quotidiane anglosassoni. L’opera rimase incompiuta, molte lettere solo abbozzate, altre mai riviste; forse l’autore, colpito dalle sventure dell’esilio, fu distolto dalla composizione.
Molta critica, soprattutto subito dopo la morte di Foscolo, ha letto nel suo modo di scrivere e soprattutto nelle lettere una tendenza all’eroico, alla mitizzazione. Questo può essere possibile per le ragioni dette in precedenza, ma tale atteggiamento cade completamente in alcune lettere che Foscolo scrisse ai familiari. Una su tutte ci colpisce profondamente. In essa si coglie la sofferenza che nasce dal distacco forzato dagli affetti più cari, da una terra verso la quale si è legati e che come sappiamo Foscolo non vedrà più.
Lettera manoscritta di Ugo Foscolo
La lettera a cui facciamo riferimento fu scritta poco prima di imbarcarsi per l’Inghilterra ed è indirizzata ai familiari. In essa si legge una sorta di congedo, anche se forte è la speranza di tempi e condizioni migliori che possano far ritornare lo scrittore alla sua normale vita. In essa c’è già la sofferenza di una precarietà di vita che diverrà ancora più aspra in futuro. Ma la benedizione che un figlio chiede ad una madre, anche se a distanza, rappresenta un caldo abbraccio in una terra straniera:
Francofort sul Meno 30 Agosto 1816.
Miei cari
spero che, dopo gli avvisi miei, la mancanza delle mie lettere non vi avrà afflitto. Ho scritto a voi ed al cavalier Naranzi da Basilea. Da Ostenda, ove m’imbarcherò per Londra, potrò scrivervi un’altra volta, ma, perch’io viaggio economicamente, vi vorranno ancora otto o dieci giorni innanzi ch’io sia alla riva del mare; e poi le lettere tarderanno forse tre settimane a giungere a voi. Però non v’affannate invano. Ora che Giulio è con voi me ne vado con l’animo quieto; e vedrò, se il Cielo m’assiste, di procurarmi tanto danaro da potere o venire a star con voi, o chiamarvi meco. Ma di queste cose tocca al tempo a disporre. Intanto pregate Iddio per me, e state certi ch’io sto benissimo di salute, e che vado in Inghilterra con ottime speranze, e a cose ben preparate. Intanto addio, addio miei cari; addio dal fondo dell’anima mia. Addio; e tu, madre mia, mandami la tua santa benedizione. Ugo
François Rabelais nato in Francia, in un villaggio contadino della Touraine (1493?-1563), fu uno scrittore della corrente umanistica, anche se molti reputano che la sua posizione superi in alcuni tratti l’umanesimo stesso. Entrò presto nell’ordine francescano, ma quando questo tentò di sequestrargli i libri passò all’ordine benedettino, grazie al quale poté anche studiare medicina a Montpellier. Rabelais è famoso per il suo Gargantua e Pantagruel, opera in 5 libri dalla vicenda non del tutto lineare.
Frontespizio del Gargantua nell’edizione del 1537
Il primo libro ad essere scritto fu il Pantagruel nel 1532, che nella versione definitiva dell’opera rappresenta il secondo volume. Dopo il successo di questo primo libro, nonostante la condanna di un professore della Sorbona nel 1533, Rabelais inizia a scrivere il Gargantua, il libro che ora apre la raccolta. Questi due volumi furono pubblicati con lo pseudonimo di Maitre Alcofrybas Nasier, anagramma del suo vero nome. Seguiranno nel 1546 il terzo libro, nel 1548 il quarto che ebbe una nuova edizione nel 1552. Mentre il quinto libro fu pubblicato postumo. Pur essendo di stampo pedagogico, l’opera ha attirato l’attenzione anche di molta critica filosofica e ne capiremo in seguito i motivi.
I protagonisti del romanzo sono padre e figlio: il gigante Gargantua e il figlio Pantagruel. Rabelais ci narra la nascita e la giovinezza sia dell’uno che dell’altro, e in entrambe questi racconti il tema più significativo è la contrapposizione tra l’insulsa educazione scolastica impartita nelle vecchie università e un nuovo tipo di educazione, che l’autore vuole basata sull’immediato contatto con la natura e sullo studio dei classici. Gargantua, racconta Rabelais, è affidato per la sua educazione ad uno scolastico, il quale lo educa secondo il più rigido metodo tradizionale.
Come Gargantua fu istruito, Matrice silografica disegnata da Dorè e incisa da Brux
I libri vengono letti e riletti finché l’alunno è in grado di ripeterli a memoria, anche partendo dall’ultima parola. Infiniti esercizi di grammatica e di logica formale, sfilze interminabili di sillogismi, dispute cavillose su argomenti del tutto privi di contenuto concreto. Nessuna cura per il corpo: né ginnastica, né pulizia, tutto questo intriso di un finto ascetismo, che l’autore identifica come il trionfo della pigrizia e della trivialità. In questa caricatura dei maestri scolastici e dell’assurdo metodo adottato nelle scuole dei conventi, Rabelais sfoggia un’abilità satirica veramente eccezionale, pari a quella di numerosi narratori che, a partire da Boccaccio e Machiavelli, hanno scelto la vita monastica come bersaglio favorito. Il risultato di questo processo di diseducazione progressiva è che quando il giovane Gargantua viene condotto davanti a suo padre, altro non sa fare che nascondersi il viso dietro il berretto, piangendo e dando a pensare di essere diventato pazzo. A questo punto avviene il cambiamento. Gargantua è affidato al maestro Panocrate e da questo momento per il giovane ha inizio una nuova vita. Il cielo, i boschi, i campi, gli animali sono i migliori libri. La lettura dei libri antichi non viene esclusa, ma deve servire per le cose concrete e non per la loro forma letteraria, che Rabelais considera del tutto secondaria. Il libro classico, inoltre, è considerato un metodo di ricerca e la natura la sua conseguente interpretazione. Ciò avviene anche per il mondo del lavoro. Gargantua visita le botteghe di pittori e scultori, i gioiellieri, i tessitori “apprendendo e meditando sulla industria e l’invenzione delle arti”. In questa contrapposizione del libro della natura al libro di carta, Rabelais si trova in polemica non solo con la scolastica, ma anche con la pedanteria libresca dell’umanesimo esasperato, del formalismo ciceroniano e del grammaticismo tanto in voga all’epoca. Il tal senso scrive Geymonat:
Egli è sulla strada di Galileo e procede ben oltre i letterati della rinascenza, quanto all’educazione morale e religiosa Rabelais è molto vicino allo spirito della riforma.
Per un giovane il primo dovere è quello di progredire nello studio e nelle virtù, perché sapere senza virtù è rovina dell’anima. Ciò che la critica concorda è l’esagerazione che Rabelais mette nel numero di cose che un individuo debba conoscere e apprendere. Ma in questo Rabelais è figlio pieno dell’epoca, un’epoca in cui la cultura diviene protagonista e l’uomo deve riscattarsi da un periodo in cui è stato umiliato e degradato come essere pensante. Ora invece ha bisogno di divenire quasi copulamundi, come direbbe Ficino, ritenendo quasi possibile riprodurre nel microcosmo della mente umana, l’infinità e la ricchezza dell’intero macrocosmo. Tutto questo viene trattato da Rabelais con un linguaggio estremamente complesso, che ai contemporanei ha fatto però storcere il naso. Innanzitutto Rabelais è uno sperimentalista, nel senso che mischia grecismi, formule popolari e dialettali. Inoltre egli utilizza un metodo satirico di narrazione molto efficace e coinvolgente già dal principio, quando si rivolge direttamente al lettore:
AILETTORI
O voi che il libro a legger v’apprestate,
Liberatevi d’ogni passione
E leggendo non vi scandalizzate,
Ché non contiene male né infezione.
Anche gli è ver che poca perfezione V’apprenderete,
salvoché nel ridere;
Non può il mio cuore senza riso vivere
E innanzi al duolo che vi mina e estingue,
Meglio è di riso che di pianto scrivere,
Ché il riso l’uom dall’animal distingue.
Rabelais per molto tempo è stato considerato erroneamente un monaco gaudente, dedito all’alcol, idea nata da una lettura superficiale dell’opera o retaggio di quella accusa di oscenità. Nonostante le accuse che lo portarono quasi ad essere considerato un eretico, l’opera ebbe un grande successo, tant’è che nel 1534 si contano già otto edizioni. Un testo che testimonia la profonda preparazione culturale di Rabelais, nonché l’acume intellettuale e la grande capacità di leggere il mondo contemporaneo. È Rabelais stesso a indicarci, nel prologo, la chiave di lettura dell’opera, quasi a suggerirci di non cadere in errore di interpretazione e di analizzare il mondo in modo nuovo:
(…) Ma le opere degli uomini non vanno giudicate con tanta leggerezza: l’abito non fa il monaco, dite voi stessi. E talora veste abito monacale chi tutto è, meno che monaco; e talora veste cappa spagnuola chi nulla ha di spagnuolo nell’anima. Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v’accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere. E ammesso che, seguendo il senso letterale troviate materie abbastanza gaie e corrispondenti al titolo, non bisogna badare a quel canto di sirena, ma dare più alta interpretazione a ciò che per avventura crediate detto per festevolezza. (…)
(…) Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l’osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d’esservi fatti destri e prodi alla detta lettura. In essa troverete ben altro gusto e più ascosa dottrina la quale vi rivelerà altissimi sacramenti e orribili misteri su ciò che concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica. (…)
Le storie di Gargantua e Pantagruel vengono narrate fin al punto in cui essi divengono sovrani giusti e generosi e qui nasce il collegamento con quel filone filosofico proprio dell’epoca. Interessante è, infatti, il legame o le distanze con le utopie del rinascimento. I modelli proposti da Tommaso Moro, Bacone e Campanella risultano troppo legati all’esercizio delle virtù civiche e familiari, esse sono talmente perfette e regolamentate da risultare inapplicabili. Ma per ovviare al problema c’è l’Abbazia di Thélème, fondata da Gargantua. Ogni bene è a disposizione per chi vive nella Abbazia, ma soprattutto qui si è liberi da leggi, regole, statuti. L’Abbazia è il luogo nel quale non si può che tendere ad una vita onesta e libera. Tutti spontaneamente collaborano nel realizzare un desiderio altrui perché il bene di uno è il bene di tutti. Esso si realizza attraverso la “lodevole emulazione”, il vero frutto della libertà. Questo contesto, nel quale si verifica la rottura dell’Io supremo, è il modello che Rabelais costruisce per l’uomo ideale e perfettamente morale.
Disegno dell’Abbazia di Thélème, disegno di Charles Lenormant, 1840
Non resta che accogliere l’invito dell’autore e leggere le avventure di Gargantua e Pantagruel, con il piglio burlesco di un uomo che parla ai suoi contemporanei, ma con la consapevolezza di rivolgersi anche al lettore del futuro per l’universalità del suo messaggio.
Pertanto interpretate ogni mio fatto e detto al giusto modo; abbiate in reverenza il cervello caseiforme che vi pasce di queste belle vesciche e a tutto vostro potere tenetemi sempre allegro. Ed ora spassatevela, gioie mie, e lietamente leggete il resto a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh! mie care teste d’asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere alla mia salute, e io vi renderò, ma subito, la pariglia.
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