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Lorenzo il Magnifico raccontato da Matteo Strukul

Un nuovo appassionante viaggio nella Firenze dei Medici è Un uomo al potere, il secondo romanzo della trilogia sulla potente famiglia fiorentina. Il romanzo, firmato da Matteo Strukul e pubblicato da Newton Compton Editori, ci presenta la storia di colui che forse è il personaggio più rappresentativo della famiglia Medici: Lorenzo il Magnifico.

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Dopo averci narrato l’ascesa della famiglia nel primo episodio della trilogia in Una famiglia al potere (leggi qui la recensione) Strukul focalizza la sua attenzione su Lorenzo, il giovane mecenate che trasformò Firenze nella culla del Rinascimento. L’autore, che con il primo romanzo è tra i vincitori del Premio Bancarella 2017, con una narrazione avvincente, forse anche più della prima, ci presenta un Lorenzo giovane che si ritrova a fronteggiare ostilità, pericoli, ma soprattutto a gestire il peso del potere. Man mano che si procede nella lettura, la quale si sviluppa ancora in capitoli corrispondenti a determinati periodi temporali, apprendiamo l’evolversi delle vicende personali e della storia della Signoria fiorentina, attraverso il particolare punto di vista del protagonista. Lorenzo il Magnifico è un giovane che improvvisamente si ritrova, dopo la morte del padre Piero, a governare una città ancora dilaniata da scontri di potere.

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Lorenzo il Magnifico, opera di Giorgio Vasari

La sua famiglia è sempre motivo di odio e gelosie di ogni genere, le quali sfoceranno nella famosa congiura dei Pazzi, narrata in maniera puntuale e avvincente da Strukul. Lorenzo sposerà completamente il suo ruolo politico e amerà profondamente Firenze e il suo popolo. In questo l’autore vede una dedizione totale alla signoria di un leader che, oltre ad essere un uomo di stato, è soprattutto un mecenate, amante dell’arte e della cultura, viste come mezzo di affermazione sociale, ma anche come opportunità di progresso. Amato dal popolo e odiato dai suoi pari, Lorenzo è descritto da Strukul anche nella sua umanità; egli non è un eroe a tutti i costi, ma una persona combattuta tra il senso del dovere e il desiderio di una vita dedita alla cultura e agli affetti. Lorenzo fu un grande mecenate come ben sappiamo e la sua figura è legata profondamente ad un altro personaggio fondamentale per il Rinascimento fiorentino: Leonardo da Vinci.

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Lorenzo il Magnifico in un disegno di Leonardo da Vinci – 1480

L’amicizia, la stima e l’ammirazione che Lorenzo ebbe per Leonardo non vengono taciuti, anzi quest’ultimo è quasi un coprotagonista del romanzo che non racconta la vicenda di un singolo individuo, ma di una intera città, di una porzione importante della storia del Rinascimento italiano.

L’utopia di Gargantua, da un’idea di François Rabelais

François Rabelais nato in Francia, in un villaggio contadino della Touraine (1493?-1563), fu uno scrittore della corrente umanistica, anche se molti reputano che la sua posizione superi in alcuni tratti l’umanesimo stesso. Entrò presto nell’ordine francescano, ma quando questo tentò di sequestrargli i libri passò all’ordine benedettino, grazie al quale poté anche studiare medicina a Montpellier.  Rabelais è famoso per il suo Gargantua e Pantagruel, opera in 5 libri dalla vicenda non del tutto lineare.

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Frontespizio del Gargantua nell’edizione del 1537

Il primo libro ad essere scritto fu il Pantagruel nel 1532, che nella versione definitiva dell’opera rappresenta il secondo volume. Dopo il successo di questo primo libro, nonostante la condanna di un professore della Sorbona nel 1533, Rabelais inizia a scrivere il Gargantua, il libro che ora apre la raccolta. Questi due volumi furono pubblicati con lo pseudonimo di Maitre Alcofrybas Nasier, anagramma del suo vero nome. Seguiranno nel 1546 il terzo libro, nel 1548 il quarto che ebbe una nuova edizione nel 1552. Mentre il quinto libro fu pubblicato postumo. Pur essendo di stampo pedagogico, l’opera ha attirato l’attenzione anche di molta critica filosofica e ne capiremo in seguito i motivi.

I protagonisti del romanzo sono padre e figlio: il gigante Gargantua e il figlio Pantagruel. Rabelais ci narra la nascita e la giovinezza sia dell’uno che dell’altro, e in entrambe questi racconti il tema più significativo è la contrapposizione tra l’insulsa educazione scolastica impartita nelle vecchie università e un nuovo tipo di educazione, che l’autore vuole basata sull’immediato contatto con la natura e sullo studio dei classici. Gargantua, racconta Rabelais, è affidato per la sua educazione ad uno scolastico, il quale lo educa secondo il più rigido metodo tradizionale.

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Come Gargantua fu istruito, Matrice silografica disegnata da Dorè e incisa da Brux

I libri vengono letti e riletti finché l’alunno è in grado di ripeterli a memoria, anche partendo dall’ultima parola. Infiniti esercizi di grammatica e di logica formale, sfilze interminabili di sillogismi, dispute cavillose su argomenti del tutto privi di contenuto concreto. Nessuna cura per il corpo: né ginnastica, né pulizia, tutto questo intriso di un finto ascetismo, che  l’autore identifica come il trionfo della pigrizia e della trivialità. In questa caricatura dei maestri scolastici e dell’assurdo metodo adottato nelle scuole dei conventi, Rabelais sfoggia un’abilità satirica veramente eccezionale, pari a quella di numerosi narratori che, a partire da Boccaccio e Machiavelli, hanno scelto la vita monastica come bersaglio favorito. Il risultato di questo processo di diseducazione progressiva è che quando il giovane Gargantua viene condotto davanti a suo padre, altro non sa fare che nascondersi il viso dietro il berretto, piangendo e dando a pensare di essere diventato pazzo. A questo punto avviene il cambiamento. Gargantua è affidato al maestro Panocrate e da questo momento per il giovane ha inizio una nuova vita. Il cielo, i boschi, i campi, gli animali sono i migliori libri. La lettura dei libri antichi non viene esclusa, ma deve servire per le cose concrete e non per la loro forma letteraria, che Rabelais considera del tutto secondaria. Il libro classico, inoltre, è considerato un metodo di ricerca e la natura la sua conseguente interpretazione. Ciò avviene anche per il mondo del lavoro. Gargantua visita le botteghe di pittori e scultori, i gioiellieri, i tessitori “apprendendo e meditando sulla industria e l’invenzione delle arti”. In questa contrapposizione del libro della natura al libro di carta, Rabelais si trova in polemica non solo con la scolastica, ma anche con la pedanteria libresca dell’umanesimo esasperato, del formalismo ciceroniano e del grammaticismo tanto in voga all’epoca. Il tal senso scrive Geymonat:

Egli è sulla strada di Galileo e procede ben oltre i letterati della rinascenza, quanto all’educazione morale e religiosa Rabelais è molto vicino allo spirito della riforma.

Per un giovane il primo dovere è quello di progredire nello studio e nelle virtù, perché sapere senza virtù è rovina dell’anima. Ciò che la critica concorda è l’esagerazione che Rabelais mette nel numero di cose che un individuo debba conoscere e apprendere. Ma in questo Rabelais è figlio pieno dell’epoca, un’epoca in cui la cultura diviene protagonista e l’uomo deve riscattarsi da un periodo in cui è stato umiliato e degradato come essere pensante. Ora invece ha bisogno di divenire quasi copula mundi, come direbbe Ficino, ritenendo quasi possibile riprodurre nel microcosmo della mente umana, l’infinità e la ricchezza dell’intero macrocosmo. Tutto questo viene trattato da Rabelais con un linguaggio estremamente complesso, che ai contemporanei ha fatto però storcere il naso. Innanzitutto Rabelais è uno sperimentalista, nel senso che mischia grecismi, formule popolari e dialettali. Inoltre egli utilizza un metodo satirico di narrazione molto efficace e coinvolgente già dal principio, quando si rivolge direttamente al lettore:

AI LETTORI

O voi che il libro a legger v’apprestate,

Liberatevi d’ogni passione

E leggendo non vi scandalizzate,

Ché non contiene male né infezione.

Anche gli è ver che poca perfezione V’apprenderete,

salvoché nel ridere;

Non può il mio cuore senza riso vivere

E innanzi al duolo che vi mina e estingue,

Meglio è di riso che di pianto scrivere,

Ché il riso l’uom dall’animal distingue.

Rabelais per molto tempo è stato considerato erroneamente un monaco gaudente, dedito all’alcol, idea nata da una lettura superficiale dell’opera o retaggio di quella accusa di oscenità. Nonostante le accuse che lo portarono quasi ad essere considerato un eretico, l’opera ebbe un grande successo, tant’è che nel 1534 si contano già otto edizioni. Un testo che testimonia la profonda preparazione culturale di Rabelais, nonché l’acume intellettuale e la grande capacità di leggere il mondo contemporaneo. È Rabelais stesso a indicarci, nel prologo, la chiave di lettura dell’opera, quasi a suggerirci di non cadere in errore di interpretazione e di analizzare il mondo in modo nuovo:

(…) Ma le opere degli uomini non vanno giudicate con tanta leggerezza: l’abito non fa il monaco, dite voi stessi. E talora veste abito monacale chi tutto è, meno che monaco; e talora veste cappa spagnuola chi nulla ha di spagnuolo nell’anima. Aprire il libro dunque bisogna, e attentamente pesare ciò che vi è scritto. Allora v’accorgerete che la droga dentro contenuta è di ben altro valore che la scatola non promettesse: vale a dire che le materie per entro trattate non sono tanto da burla come il titolo dava a intendere. E ammesso che, seguendo il senso letterale troviate materie abbastanza gaie e corrispondenti al titolo, non bisogna badare a quel canto di sirena, ma dare più alta interpretazione a ciò che per avventura crediate detto per festevolezza. (…)

(…) Poi con attenta lettura e meditazione frequente rompere l’osso e succhiarne la sostanziosa midolla, vale a dire il contenuto di questi simboli pitagorici, con certa speranza d’esservi fatti destri e prodi alla detta lettura. In essa troverete ben altro gusto e più ascosa dottrina la quale vi rivelerà altissimi sacramenti e orribili misteri su ciò che concerne la nostra religione, lo stato politico, la vita economica. (…)

Le storie di Gargantua e Pantagruel vengono narrate fin al punto in cui essi divengono sovrani giusti e generosi e qui nasce il collegamento con quel filone filosofico proprio dell’epoca. Interessante è, infatti, il legame o le distanze con le utopie del rinascimento. I modelli proposti da Tommaso Moro, Bacone e Campanella risultano troppo legati all’esercizio delle virtù civiche e familiari, esse sono talmente perfette e regolamentate da risultare inapplicabili. Ma per ovviare al problema c’è l’Abbazia di Thélème, fondata da Gargantua. Ogni bene è a disposizione per chi vive nella Abbazia, ma soprattutto qui si è liberi da leggi, regole, statuti. L’Abbazia è il luogo nel quale non si può che tendere ad una vita onesta e libera. Tutti spontaneamente collaborano nel realizzare un desiderio altrui perché il bene di uno è il bene di tutti. Esso si realizza attraverso la “lodevole emulazione”, il vero frutto della libertà. Questo contesto, nel quale si verifica la rottura dell’Io supremo, è il modello che Rabelais costruisce per l’uomo ideale e perfettamente morale.

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Disegno dell’Abbazia di Thélème, disegno di Charles Lenormant, 1840

Non resta che accogliere l’invito dell’autore e leggere le avventure di Gargantua e Pantagruel, con il piglio burlesco di un uomo che parla ai suoi contemporanei, ma con la consapevolezza di rivolgersi anche al lettore del futuro per l’universalità del suo messaggio.

Pertanto interpretate ogni mio fatto e detto al giusto modo; abbiate in reverenza il cervello caseiforme che vi pasce di queste belle vesciche e a tutto vostro potere tenetemi sempre allegro. Ed ora spassatevela, gioie mie, e lietamente leggete il resto a suffragio del corpo e a beneficio dei reni. Ma, oeh! mie care teste d’asino, date retta, che il malanno vi colga, ricordatevi di bere alla mia salute, e io vi renderò, ma subito, la pariglia.