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Scrivo Creativo, il manuale per giovani emergenti

Oggi vi presento un libro diverso dagli altri. Si tratta, infatti, di un manuale. Sto parlando di Scrivo Creativo di Jacopo Lupi. Il testo si presenta come una guida pratica e dettagliata sul percorso che lo scrittore emergente deve compiere per far nascere il suo libro. Consigli, regole ed esercizi sono tutti inseriti in un unico volume, che garantisce, a chi ne farà buon uso, un risultato ottimale.

Jacopo Lupi è innanzitutto uno scrittore, ma è anche un libraio, un editore e un Book Coach. È nel campo editoriale da più di 10 anni, iniziando il suo percorso come scrittore emergente, ma dopo aver riscontrato non poche difficoltà, tipiche degli autori emergenti nel trovare spazio nel mercato editoriale, ha deciso di studiare e approfondire gli aspetti di questo mondo, con il solo obiettivo di aiutare e rendere la vita più facile ai giovani scrittori. Inizia così a creare corsi di scrittura e di book-marketing, dando consigli sui maggiori canali di comunicazione e soprattutto facendo nascere il Gruppo Editoriale YndY per autori emergenti.

Apre anche una libreria indipendente, la Punto e a Capo, dove ospita settimanalmente emergenti. Crea due festival per giovani scrittori: il Festival delle NarrAzioni e GiallOvidio e cura direttamente il progetto di Formazione editoriale ScrivoCreativo.
Autore di manuali sulla scrittura creativa e di opere Teatrali, il suo esordio narrativo invece lo deve a Io Non Amo (2008), tradotto per il mercato americano.
Ora ci propone “Scrivo Creativo. Diventa uno Scrittore con il Metodo PMQ: Il Metodo Completo che Forma gli Scrittori ne Aumenta la Creatività e li Rende Autori Consapevoli”, frutto della sua esperienza nel campo editoriale.
Dieci anni di formazione e studio per proporre un metodo per fare esplodere la propria creatività, per migliorare la propria scrittura e aiutare in maniera pratica gli autori, rendendoli così consapevoli dei loro mezzi, dei passi da fare nel mondo editoriale per diventare scrittori professionisti.

Scrivo Creativo è un progetto frutto di anni di studio, un percorso che vuole, attraverso segreti di scrittura ma soprattutto esercizi, portarti a fare il passaggio da aspirante autore, a un autore professionista in grado di strutturare bene un libro pronto per gli editori ma soprattutto per il mercato editoriale. In questo viaggio imparerai le tecniche che usano i grandi autori, riuscirai a emularli valorizzando il tuo stile, sarai in grado di portare a termine un libro in grado di conquistare l’editore ma soprattutto i lettori.

Sfogliando il libro apprendiamo cos’è il METODO PMQ:

PMQ, acronimo di Pratico, Mappe Mentali e Quantico è il metodo che sta alla base del Progetto Scrivo Creativo. Frutto di anni di studio e soprattutto sperimentato da decine di autori emergenti che hanno trasformato da subito la propria scrittura. Parte da una base di teoria, segreti e soprattutto pratica e attraverso un preciso percorso di esercizi, da svolgere necessariamente in ordine di come proposti e seguendo tutte le direttive necessarie per comprenderli al meglio, portano lo scrittore passo dopo passo a migliorare sensibilmente la propria scrittura. La seconda fase lavora con le mappe mentali e va a fissare i vari segreti e le varie tecniche affinché diventino parte integrante del subconscio e sviluppare memoria. La terza parte è la parte quantica, che sfrutta il potere del cervello per sprigionare innanzitutto la creatività sopita.

Il manuale ci propone una parte teorica e, cosa molto importante, una pratica fatta di esercizi da svolgere. Lo scopo del volume è quello di portare lo scrittore, passo dopo passo, a migliorare sensibilmente la propria scrittura, a strutturare bene il libro, che sarà pronto per gli editori ma soprattutto per il mercato editoriale. In questo studio si imparano le tecniche che usano i grandi autori, valorizzando il proprio stile, per conquistare editori e lettori.

Nella prima parte del libro troverai il percorso che ti aiuterà a prepararti alla scrittura, trovare l’ispirazione, il tema, pianificare e progettare il lavoro, e trovare la strategia giusta. Scriverai il tuo libro esercitandoti, mentre farai questo corso. Nella seconda parte entreremo nel vivo della trama, nella creazione giusta dello spazio-tempo e approfondiremo i personaggi, per crearne di memorabili, quelli di cui gli editori si innamoreranno e che i lettori si ricorderanno per sempre.

Professione reporter, una passione piena di avventura

La professione del reporter è sicuramente una delle più affascinanti, quella che ti permette di viaggiare, conoscere luoghi, usi e costumi, che ti mette in contatto con le personalità più importanti del mondo, che ti regala grandi soddisfazioni ed emozioni, ma che nasconde anche e non pochi pericoli.

A raccontarci la vita del reporter è Gianni Perrelli nel suo libro Professione reporter, edito Di Renzo editore. L’autore è uno dei maggiori reporter internazionali per la carta stampata e ha un curriculum invidiabile e in questo suo ultimo lavoro editoriale ci racconta la sua professione a partire dagli albori, con tutte le difficoltà e la classica gavetta.

Il libro nasce da una richiesta e non da una esigenza dell’autore, ma esso risulta appassionante ed entusiasmante per il lettore occasionale e per colui che invece vuole conoscere meglio i meccanismi dell’ambiente giornalistico.

Questo libro nasce dalla provocazione amichevole dell’editore incuriosito dal ristretto ambiente degli inviati internazionali della carta stampata.

A questa richiesta sono seguiti da parte dell’autore una serie di dubbi e paure. La paura, infatti, era proprio quella di

non riuscire a calibrare i toni, di prendersi troppo sul serio, di enfatizzare una attività che appartiene all’onesto artigiano e non al mito. Ma poi mi sono lasciato sedurre dall’idea che, dopotutto, anche questo era un viaggio. All’interno di meccanismi per me naturali, ma che al di fuori emanano evidentemente il fascino delle dimensioni insolite.

Perrelli ripercorre così i momenti salienti della sua professione che è arrivata quasi inconsapevolmente:

(Da giovane) avevo ancora le idee confuse sul futuro. Non ero del tutto convinto di voler fare il giornalista. Ignoravo anche di cosa esattamente si trattasse. Pensavo che il giornalista fosse un signore adibito soltanto a scrivere. (…) Avevo una concezione decisamente naïf della stampa scritta. Anche se di giornali facevo quotidiane scorpacciate.

Dai primi passi nel giornalismo sportivo, pagati appena, ne ha fatta di strada Perrelli, fino a diventare corrispondente da New York prima de L’Europeo e poi de L’Espresso. Ha ricoperto importanti ruoli e si è ritrovato a testimoniare attraverso le righe dei quotidiani avvenimenti salienti dai fronti caldi del pianeta. Detto così sembra che sia stata una passeggiata per Perrelli raggiungere certi traguardi, ma il lavoro di reporter non è proprio una scampagnata, ma la passione ha fatto il grosso del lavoro.

È evidente che per preferire la carriera di inviato a quella di dirigente si debba avere più un’indole da solista che da direttore d’orchestra. Accompagnata però da un grande spirito di adattamento e da una predisposizione naturale a non lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà impreviste. È una vita fatta solo in superficie di cartoline esotiche, alberghi di lusso e viaggi in business class. Nella realtà, per quanto mondo uno possa aver girato e per quanti informatori sia riuscito a farsi amici, devi quotidianamente affrontare le insidie della solitudine, il muro di costumi e culture diverse, la differenza di gente così lontana da te che spesso non ama vedere esposti i suoi panni in piazza.

Molte volte la professione del reporter è vista come un privilegio, ma è veramente così? Gianni Perrelli, con la sua prosa asciutta, veloce e chiara ci dice che il suo è un lavoro difficile, che sì dà soddisfazioni, ma le soddisfazioni sono tutte guadagnate attraverso il pericolo e le privazioni.

Uno degli aspetti negativi della vita di inviato è che non puoi mai pianificare del tutto la tua vita privata. Se c’è un fatto grosso da coprire, puoi essere pregato di partire da un momento all’altro. Non ti salva a volte neanche il fatto di essere in ferie. A norma di contratto puoi essere richiamato. Ma sei tu stesso che rinunci alla vacanza. (…) Non tutti, a onor del vero, ti considerano un fortunato. Non so quanti farebbero veramente una vita del genere. Che è lastricata ovviamente anche di sacrifici e di rinunce, oltre che di emozioni e di privilegi. Diciamo che richiede una certa vocazione, una perpetua capacità di sorprendersi. Se ce l’hai senti meno la fatica e i disagi, e apprezzi in misura sicuramente esagerata le opportunità e i riconoscimenti.

È appassionante il racconto di Perrelli, interviste agli uomini più importanti del mondo nei momenti cruciali della storia mondiale, viaggi avventurosi e imprevisti, ma anche albe e tramonti, storie comuni e scenari esotici. Quello di Perrelli è un lavoro non facile, ma bello e fatto per chi ha una vera passione per la conoscenza e l’informazione, una informazione reale, non artefatta, in cui la notizia è stata vissuta sulla propria pelle e non per sentito dire. Perrelli è un giornalista vero, che non si adagia sugli allori, che non ricicla le notizie, ma che documenta, che scruta e cerca di capire per farci capire e il suo libro ce lo testimonia. Professione reporter è un gran bel libro, un racconto coinvolgente e che appassiona gli amanti del giornalismo e non solo.

L’AUTORE

Gianni Perrelli è un giornalista e scrittore italiano. Negli anni dell’università inizia la carriera giornalistica a Bari nelle redazioni de Il Tempo e della Gazzetta del Mezzogiorno. Trasferitosi a Roma, diventa professionista nel 1970 lavorando per l’agenzia di stampa Inter Press Service e occupandosi di politica, di cronaca e di spettacoli. Nel 1972 è assunto dal Corriere dello Sport e si specializza nel ciclismo e nel calcio. Nel ’76 è promosso inviato speciale. Nel 1977 il passaggio a L’Europeo, dove segue la politica nazionale e la cronaca. Nel 1980, all’inizio dell’era reaganiana, è nominato corrispondente dagli Stati Uniti.

#ReadChristie2019 | Gennaio in compagnia di Poirot

Il libro di oggi è il frutto della partecipazione alla challenge, promossa da Davide e Marco di Radical Ging, dedicata ad Agatha Christie. La #ReadChristie2019 prevede che ogni mese, per tutto il 2019, si legga un libro della giallista inglese, seguendo i suggerimenti proposti da una cartolina realizzata dalla Agatha Christie Limited, che come ci spiega Radical Ging è

la società, creata dalla stessa scrittrice, che dagli anni ’50 si occupa di gestire la proprietà intellettuale e i diritti d’autore sulle opere, originali e derivate, di Agatha Christie.

Ho il piacere di far parte del gruppo di lettori che ha ricevuto la cartolina ufficiale e insieme ad essa, oltre ad una lettera a firma Radical Ging, è arrivato anche un misterioso indizio, che ci preannuncia qualcosa di intrigante, ma staremo a vedere…

Veniamo al libro per il mese di gennaio, che prevede la lettura di una storia con protagonista Poirot. Non avendo molta dimistichezza con la Christie, mi sono affidata ai saggi consigli di Marco, il quale mi ha suggerito di leggere Poirot a Styles Court, che è il primo romanzo in assoluto della Christie e il primo in cui compare Hercule Poirot.

Il libro nasconde tantissime curiosità. Ad esempio ho scoperto che Styles non è un luogo di invenzione, ma la dimora dell’autrice. A Styles Court terminerà il ciclo di Poirot; la conoscenza dei medicinali e dei veleni descritta nella vicenda, ma non solo in questo romanzo, deriva dal fatto che la Christie aveva operato come infermiera, ma forse la cosa più curiosa è che il libro nasce come risposta della scrittrice ad una sfida che le lanciò la sorella.

Agatha Christie nei panni di infermiera. Foto Corriere.it

Essendo la Christie una lettrice e ammiratrice di Sherlock Holmes, la sorella le propose di scrivere un romanzo giallo che fosse pubblicabile. Lei scrisse questa storia, ma non ebbe subito il favore editoriale. Quello venne successivamente e aprì la strada alla sua ampia produzione letteraria.

Hugh Fraser e David Suchet nei panni di Arthur Hastings ed Hercule Poirot

 

Quando leggiamo Poirot a Styles Court, ci salta subito agli occhi una sorta di similitudine con il detective inventato da Conan Doyle, ma non possiamo dire che la Christie abbia copiato o peccato di inventiva. Poirot possiede la sua personalità, la sua fisionomia ben precisa e caratterialità. Ha un aiutante come Holmes e risulta anch’egli eccentrico e a tratti misterioso, entrambi dotati di grande acutezza e intelligenza, soprattutto nello scovare i particolari, tuttavia sono differenti soprattutto fisicamente. La Christie disegna Poirot in modo ben preciso, facendoli assumere dei tratti quasi comici:

Poirot era un ometto dall’aspetto straordinario. Era alto meno di un metro e sessantacinque, ma aveva un portamento molto eretto e dignitoso. La testa era a forma di uovo, costantemente inclinata da un lato. Le labbra erano ornate da un paio di baffi rigidi, alla militare. Il suo abbigliamento era inappuntabile. Penso che un granello di polvere gli avrebbe dato più fastidio di una ferita. Eppure questo elegantone, che ora zoppicava leggermente, era stato ai suoi tempi uno dei funzionari più in gamba della polizia belga. Come investigatore, aveva un fiuto straordinario. Aveva all’attivo numerosi trionfi, essendo riuscito a risolvere i casi più complicati.

Da questa descrizione apprendiamo che Poirot, di origine belga, non è alla sua prima investigazione e che per il suo acume già aveva assunto una certa notorietà. Ma da questo momento e grazie ad Agatha Christie, la sua fama diviene mondiale.

Agatha Christie

Non voglio raccontarvi molto del libro che ho letto, per non togliervi il gusto di scoprire, attraverso numerosi colpi di scena, chi ha assassinato Emily Inglethorp, ma vi assicuro che anche il lettore più attento non noterà dei particolari fondamentali per la risoluzione del caso, particolari che, ovviamente, non sfuggono al famigerato Hercule Poirot.

Non mi resta che scegliere il libro di febbraio con protagonista Miss Marple e ringraziare Davide e Marco per questa iniziativa, ma soprattutto per avermi fatto appassionare ad Agatha Christie.

Il racconto del lunedì: Volti

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“Spesso capita di rivedere luoghi o persone che un tempo trasmettevano particolari emozioni e che a distanza di anni sembrano o perdute o appaiono esagerate perché amplificate da occhi infantili o cuori giovanili”.

Questa citazione che aveva letto in un libro di Modiano, lo ossessionava. Sembrava essergli attaccata addosso come la sua ombra; non riusciva a liberarsi dai ricordi. Capitava che a fine giornata si sentisse completamente privo di forze. Sembrava che i suoi pensieri per realizzarsi e per continuare a rimanere vivi gli consumassero tutte le energie. La sua mente era stanca, il suo corpo senza energie, i suoi occhi non erano più in grado di vedere. La mente mischiava il ricordo al desiderio, l’esperienza ad una realtà deludente, producendo sentimenti che lo portavano allo sconforto e all’incapacità di reagire. Era stanco di lottare, era stanco di sperare che il domani potesse riservagli qualcosa di migliore perché le sue attese erano sempre e puntualmente smentite. I principi di lealtà, di sincerità, di altruismo in cui credeva venivano, ogni volta, schiacciati dalla prevaricazione, dall’incompetenza, dall’ignoranza viziata di chi riusciva a trovare una via di uscita o una via privilegiata per ottenere ciò che non gli spettava.

Tutto questo, insieme alla incapacità degli altri di capire la sua vera natura, portarono Benjamin a isolarsi, ad allontanarsi da quel mondo che non sentiva più suo. La piazza in cui da bambino aveva giocato, in cui aveva trascorso le estati a chiacchierare con gli amici, in cui si era innamorato ora sembrava il luogo del patibolo, in cui passando si viene additati, giudicati e condannati. Le persone sembravano cambiate, intente a tessere le trame esclusivamente dei propri interessi… forse erano sempre state così, ma solo ora le aveva viste oltre la loro maschera.

Le giornate sembravano trascorrere sempre uguali, a cambiare erano solo le stagioni, ma, come le ore, ritornavano simili a se stesse, con le loro imperfezioni e bellezze. Non c’era possibilità di cambiare le cose, l’unica alternativa erano le escursioni in quei luoghi che gli permettevano di capire la verità delle cose. Gli bastava uno sguardo, un gesto di un uomo anziano, le grida al mercato di chi vendeva la verdura a dargli la speranza che la vita è qualcosa di concreto, di sensato e non un accidente capitato per caso. Fu in una di quelle strane passeggiate che raccolse, in uno scatto fotografico, gli occhi di un bambino che lo guardavano con meraviglia, con il desiderio di sapere e di conoscere.

Fu quella la scintilla che riaccese la voglia di tornare a sperare, di uscire dall’immobilismo. La pubblicazione di quella fotografia su una community di fotografi gli diede una notorietà inaspettata e la possibilità di intraprendere un nuovo percorso professionale. Quando tenne la sua prima intervista ad un giornale che si occupava di fotografia internazionale, alla domanda sul perché avesse iniziato a fotografare volti, rispondeva: nei volti e negli occhi delle persone ritrovo la speranza e la possibilità di dare un senso alla mia esistenza; la fotografia è una via d’uscita, la mia via d’uscita.

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Foto di Carmine Petruccelli

Il racconto del lunedì: Contro la mafia

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Era un giorno come tanti e la vita aveva preso il suo nuovo corso regolarmente. Da quando era partita da Palermo molte cose erano cambiate. Non aveva più contatti con la sua vita passata. Nessuna telefonata, nessuna visita, nessuna traccia della sua nuova esistenza. Questo era il prezzo da pagare per aver denunciato e testimoniato in un processo di mafia. Quando Anna decise di denunciare tutte le cose orribili che suo marito commetteva, non era pienamente consapevole di ciò che le sarebbe accaduto, ma se voleva che i suoi figli vivessero una vita onesta, non poteva fare diversamente. La mattina in cui si recò al commissariato di polizia era un ricordo ancora vivo, come vivo era il ricordo della paura di essere scoperta e delle conseguenza delle sue azioni.
Quando entrò nel commissariato il suo arrivo non passò inosservato. D’altronde era la moglie del boss, di uno dei principali esponenti del clan Ussaro, che da diversi anni iniziava a controllare il territorio imponendo il proprio traffico di droga e eliminando senza scrupoli ogni ostacolo. Fu un discorso del marito fatto al primogenito, un bambino di appena 3 anni, il primo giorno di asilo a far prendere la decisione ad Anna di denunciare lui e tutto il clan.
“Figliolo, oggi per te è un giorno importante. Ricorda sempre che tu sei il figlio di Giovanni Ussaro e se qualcuno dovesse darti fastidio, penserà tuo padre a mettere le cose al loro posto. Un giorno tu erediterai il mio ruolo e le mie ricchezze, non dovrai temere nessuno, ma saranno gli altri a dover temere te. Vai, fatti rispettare e non dimenticare chi sei e da dove vieni.”
Anna capì che il destino dei figli era già deciso, ad aspettarli c’era una esistenza fatta di sangue, di morte, di orrore e non poteva accettarlo. Aveva sposato quell’uomo costretta dal padre. Aveva 17 anni quando suo padre, un piccolo commerciante di quartiere, le diede la notizia che di lì a un anno sarebbe diventata la “Signora Ussaro”. Nulla valsero le sue proteste, era la sola ad opporsi a quel matrimonio, se sua mamma fosse stata ancora viva, forse non si sarebbe ritrovata sola e avrebbe avuto la possibilità di ribellarsi. Anna era stata scelta per la sua bellezza e forse anche per la sua intelligenza, era la migliore della scuola e gli insegnanti le ripetevano che avrebbe fatto sicuramente carriera se avesse continuato gli studi. E quello era il suo sogno, andare all’università e diventare insegnante di lettere, ma quel matrimonio aveva distrutto ogni speranza di un futuro diverso. Il rapporto con il padre si era ormai logorato, lui le ripeteva che quello era per il suo bene, che non avrebbe sofferto la povertà e i sacrifici, non c’era altra possibilità per lei perché era stata scelta proprio dal boss, il quale non avrebbe accettato un rifiuto. Dal matrimonio nacquero due bambini, Rocco e Beatrice, che al momento della denuncia di Anna, avevano rispettivamente 3 e 1 anno.
Quando entrò nel commissariato, timidamente si guardava intorno, cercando un volto che le desse sostegno, ma notò lo stupore del poliziotto che la accolse all’ingresso. Effettivamente la moglie del boss era andata alla polizia e aveva chiesto di parlare con il commissario. Da quel momento aveva avuto inizio un altro incubo. I suoi figli erano stati prelevati al nido e all’asilo e con loro Anna aveva iniziato a vivere in una città sicura e sotto scorta. Aveva iniziato a parlare di suo marito, dei suoi traffici, degli omicidi commessi, fornendo prove concrete che portarono all’apertura di un processo e allo smantellamento dell’intero clan. Il marito, Giovanni Ussaro, fu condannato a tre ergastoli e tutta la sua famiglia, i fratelli e i cugini, incarcerati con altre pesanti condanne.
Fu molto difficile per Anna iniziare a vivere in una nuova città, fidarsi delle persone, passeggiare con i figli senza avere il sospetto di essere seguita, non raccontare a nessuno la sua storia e parlare della sua vera identità. L’idea di aver fatto la cosa giusta per il suoi figli la confortava e le dava la forza per andare avanti, ma il terrore si riaffacciò nella sua vita improvvisamente. Nella cassetta della posta trovò una cartolina a lei indirizzata, proveniva da L’Aquila, la città in cui il marito stava scontando la sua pena. C’era scritto:
“Non si possono cancellare le proprie radici, i figli ritornano sempre nei luoghi dove sono nati per ritrovare le proprie radici e continuare il lavoro dei padri”.
Anna si sentì gelare il sangue nelle vene. La prima reazione fu quella di guardarsi intorno, poi scappò in casa per chiamare la polizia. Il giorno successivo erano in un’altra città, stavolta all’estero. Bisognava ricominciare tutto daccapo, forse sarebbe stato così per tutta la vita.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

Il racconto del lunedì: I peggiori bar di Caracas

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Anche quella notte trascorreva insonne. Era da diversi mesi che non riusciva a dormire più con tranquillità. Da quando Mary se ne era andata senza dargli una spiegazione, Daniel non riusciva più a essere sereno in nulla. Le giornate trascorrevano come sempre tra lavoro, casa, qualche distrazione; era riuscito anche ad accettare quell’abbandono improvviso e senza nemmeno una spiegazione, dandosi la colpa di tante cose che tra lui e Mary non erano andate bene. Ma la notte lo tormentava, la notte era il momento peggiore. Era costretto a restare solo con se stesso, a fare i conti con le proprie azioni, i propri pensieri, i propri desideri. In quei momenti avrebbe voluto perdere la memoria, non ricordare ciò che di bello aveva vissuto nella sua vita e che sembrava non potesse più tornare. Quando i pensieri si facevano pesanti a tal punto da non permettergli di stare fermo, sentiva la necessità forte di uscire e girare per le strade senza una meta fissa. L’aria fresca della notte gli dava un po’ di pace e lo risvegliava da quel torpore indolente in cui la sua anima era caduta da tempo.

Fu in una di quelle passeggiate notturne che nacque l’abitudine di Daniel di frequentare quelli che lui chiamava “i peggiori bar di Caracas”. Non erano molti i bar aperti tutta la notte, ma a lui bastavano per soddisfare quella sua strana necessità. A volte girava con la macchina anche ore per poterne scovare uno nuovo e trovare proprio quello che soddisfaceva le sue esigenze.  Non si accontentava di un bar qualsiasi, ma doveva avere un aspetto anni ’80, con il rivestimento delle sedie in plastica intrecciata, il legno e gli specchi alle pareti, il ventilatore al soffitto e se c’era anche un biliardo in una saletta fumosa e senza finestre era perfetto.

Quella sera, una come tante negli ultimi tempi, Daniel decise di non andare lontano e si recò a piedi al bar che distava solo due isolati da casa sua. Erano le due di notte e il bar, come al solito, si presentava quasi vuoto. Si avvicinò al bancone senza salutare e chiese al barista, mezzo addormentato, una birra fredda. Con straordinaria lentezza, il barista si distolse dal suo dormiveglia e prese dal frigo la birra, la stappò e, accompagnandola con la mano, la fece scivolare sul bancone in direzione di Daniel, che la prese accennando un grazie con la testa. Il barista ritornò al suo sgabello, cadendo nuovamente nel suo stato di sonnolenza. Daniel rimase a guardarlo per qualche minuto. Si chiese che vita potesse avere quell’uomo dall’aspetto trasandato e quasi sgradevole, magari di giorno era tutt’altra persona. Lasciando in sospeso quel pensiero, prese la sua birra e si andò a sedere ad una delle sedie di fronte il bancone. Sul tavolino c’era ancora il giornale del giorno, lo scostò per poggiare la birra.

Alzò lo sguardo e iniziò ad osservare le vite di quegli uomini soli. Quella sera ce n’erano solo due al bar, il primo poteva avere una cinquantina di anni e da quando frequentava quel locale, lo ricordava sempre impegnato a giocare con una delle due macchinette mangiasoldi che da qualche anno erano presenti in quasi tutti i bar. Una notte, rivolgendosi proprio a Daniel, dopo che questi gli aveva offerto una birra, gli disse di essere certo che presto avrebbe vinto una grande somma di denaro, così avrebbe potuto riconquistare la fiducia dei suoi figli e dimostrare alla ex moglie di non essere un perdente.

Ad un tavolo poco distante c’era, quella sera, anche un uomo anziano, sembrava quasi un barbone, forse lo era. Ed era proprio la persona di cui Daniel aveva bisogno. Gli occhi di quell’uomo lo colpirono come un pugno in pieno stomaco. Erano chiari, umidi, malinconici. In quegli occhi Daniel leggeva la solitudine, la necessità di affetto, di attenzione. Erano quelle le persone che cercava nei peggiori bar di Caracas, casi umani che lo aiutavano a tirare fuori tutta la sua inquietudine, tristezza e amarezza. Solo così riusciva a toccare il fondo, ad abbandonare ogni forza e perdersi nella sua sofferenza. Sapeva di farsi del male, ma aveva bisogno di soffrire, di vivere il dolore, il degrado, la solitudine in cui il mondo costringeva l’uomo. Solo così poteva convincersi di non essere l’unico a soffrire e a sentire meno il peso dell’abbandono.

Il racconto del lunedì: Caffè Kingston (seconda parte)

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Leggi la Prima Parte del racconto.

IV Capitolo

Appena fui per strada, una leggera folata di vento mi diede una sensazione di leggerezza, ma quello che avevo appena vissuto mi aveva lasciato una profonda tristezza. Mentre percorrevo la strada che mi avrebbe riportata in ufficio, ripensavo a quel ragazzo e al suo tormento. Non avevo il diritto di infilarmi nella sua vita, ma qualcosa mi attirava a lui, forse era la semplice curiosità di conoscere le ragioni di quel pianto. Arrivata in ufficio, l’editore mi invitò a pranzare insieme, così l’avrei informato sull’esito della riunione. Avevo completamente rimosso la riunione e non avevo nemmeno voglia di andare a pranzare fuori, ma la trattoria che il capo aveva scelto era molto confortevole e l’atmosfera quasi casalinga mi mise a mio agio. Alle 17:00, come ogni giorno, terminava il lavoro di ufficio. Quel giorno non c’erano presentazioni di libri e incontri con gli autori, così avrei potuto trascorrere qualche ora al Caffè Kingston, persa nei miei pensieri.  Raccolsi le mie cose e in pochi minuti mi ritrovai al Caffè, che quel pomeriggio era particolarmente affollato, ma il mio tavolo, fortunatamente, era libero. Con un cenno della mano salutai il cameriere, che dopo un po’ mi portò il mio tè e qualche biscotto al burro. Quasi non me ne accorsi, perchè ero già a lavoro. Le pagine del mio taccuino si riempivano di parole, qualche cancellatura e delle briciole dei biscotti. Scrissi l’ultimo pensiero della giornata che completava il mio taccuino, questa volta lo avevo riempito in brevissimo tempo, soprattutto di ricordi e delle descrizioni di odori e rumori di un tempo che ormai era passato e non c’era più. Lo chiusi e posai la penna al suo fianco, provavo una sorta di soddisfazione ogni volta che ne terminavo uno, sensazione che si aggiungeva ad una sorta di euforia infantile per la scelta del nuovo quaderno e di un nuovo percorso di scrittura. Rimasi qualche momento immobile, guardai fuori ma non riuscivo a pensare a niente in particolare, mi sentiva quasi svuotata. Mi sforzai di pensare a qualcosa, così mi dissi che l’indomani sarei andata a comprare il nuovo taccuino e che forse ne avrei preso uno con in copertina i girasoli di Van Gogh e fu in quel momento che mi ricordai di Andrea. Gli avevo dato appuntamento al Caffè, ma non si era presentato. Effettivamente dovevo aspettarmelo, non aveva avuto una mattinata tranquilla e poi era stato chiaro dicendomi che non se la sentiva di uscire. Chissà come stava, se era riuscito a trovare un po’ di pace… con questi pensieri uscii dal Caffè e feci ritorno a casa.

V Capitolo

Allora abitavo al secondo piano, in una palazzina di inizio Novecento, che negli anni aveva subito diversi lavori di ristrutturazione, ma l’ascensore continuava ad essere la cosa più vecchia che avessi mai visto lì dentro. Scelsi di fare le scale e di evitare l’ascensore, temevo che un giorno io o qualcuno dei condomini ne sarebbe rimasto ostaggio per ore e, chissà, per un giorno intero. Ad accogliermi in casa c’era solo il silenzio. Gli unici rumori erano le voci che provenivano dalla strada, i clacson delle automobili o le sirene delle ambulanze, il frigorifero che sembrava dirmi “ah, visto che sei tornata fammi lavorare e tenere al fresco le poche cose che mi hai affidato”. Buttai le chiavi sul tavolino all’ingresso. Avevo comprato uno svuotatasche proprio per raccogliere le chiavi e ritrovarle subito, ma continuavo ad abbandonarle ovunque. Lasciai la borsa sulla sedia accanto al tavolino e, mentre avanzavo in casa, mi tolsi il giubbino che lasciai cadere sulla poltrona del salotto, come se non ci fosse già abbastanza confusione. “Devo assolutamente mettere ordine, altrimenti finirò sommersa dalle cose” dissi tra me, ma c’era tempo per farlo. Entrai in cucina, accesi la luce e vidi sul tavolo libri, appunti, lavori da svolgere. “Devo assolutamente iniziare a portare a termine qualcosa, a rendere concreto qualche progetto. – continuai a parlare con me stessa – Ma cosa? E se tutto questo fosse inutile? Se la mia strada fosse un’altra?” Buttai lo sguardo su quella ricerca iniziata tempo fa e mai completata. “No, non ne ho voglia, ci vuole calma per fare questo”. Andai oltre con lo sguardo e c’era un testo da correggere, ma non avevo voglia di fare nemmeno quello. Forse avrei dovuto abbandonare tempo fa quei progetti e dedicarmi ad altro, a qualcosa che mi facesse sentire bene veramente. In fin dei conti si può sempre ricominciare. Decisi di farmi un bagno caldo, avevo accumulato un po’ di stanchezza nella giornata, magari dopo sarei riuscita a concludere qualcosa. Il calore del bagno mi aveva fatto bene e mi aveva anche fatto venire fame. Preparai la cena, un toast al prosciutto e una mela. Seduta sul divano, decisi di terminare la lettura del romanzo iniziato parecchio tempo prima. Non sapevo il perché, ma quella storia non riusciva ad andare avanti. Lo aprii dove il segno mi suggeriva il punto in cui avevo interrotto la lettura. Erano trascorsi molti mesi dall’ultima volta che lo avevo aperto, ma ricordavo perfettamente la vicenda. Ne ricordavo i personaggi, i sentimenti e le descrizioni. Iniziai a leggere le prime righe, ma senza grande attenzione, qualcosa mi distraeva. Dopo un po’ entrai nella vicenda, ma il sonno ebbe la meglio, così chiusi il libro e decisi che era ora di andare a letto. L’indomani mi aspettava una lunga giornata di lavoro.

VI Capitolo

I giorni successivi trascorsero nella normalità. Il lavoro stava aumentando, si avvicinava il Natale e per la casa editrice era il momento in cui si registravano le maggiori vendite. I libri nuovi erano molti e bisognava pubblicizzarli, organizzare presentazioni e firmacopie per gli autori. Tutto procedeva senza grandi difficoltà, la redazione era affiatata e ognuno faceva il proprio lavoro con competenza. L’orario di lavoro si allungava di qualche ora in quei giorni ed ero costretta a saltare i miei tè al Caffè Kingston. Erano diverse settimane che non andavo e mi dispiaceva perdere l’atmosfera natalizia che si respirava in quel luogo. Ma l’occasione per tornare al caffè mi arrivò, inaspettata, in ufficio. Ogni mattina arrivavano in redazione, oltre alle mail, una gran quantità di posta, lettere, manoscritti, proposte di pubblicazioni, che venivano smistate poi nei vari settori. Tra la posta del 12 dicembre c’era una busta, non affrancata, indirizzata a me, che magari non avrebbe prodotto grande interesse se la busta non portava impresso il logo della Galleria d’Arte di via Gramsci. Girai la busta tra le mani, chiesi chi l’avesse portata, ma la segretaria mi disse solo che l’aveva trovata infilata nella cassetta della posta che si trovava nell’atrio dell’edificio. Non c’era mittente, ma già sapevo da chi mi arrivava. Mi affrettai ad aprirla e dentro c’era una cartolina che riproduceva una delle opere esposte alla Galleria e nel retro c’era scritto: “Ci vediamo stasera, alle 18:00, al Caffè Kingston. Ti devo un grazie, un caffè e una spiegazione. Andrea”
Rimasi a bocca aperta, non mi aspettavo certo che quel ragazzo si rifacesse vivo e in quel modo. Ormai lo avevo quasi dimenticato, ma quella lettera riaccese la mia curiosità. Alle 18:00 dovevo accompagnare un autore ad un firmacopie, ma la mia amica e collega si offrì di sostituirmi e alle 18:00, puntuale, arrivai al Caffè Kingsman.
Appena entrai l’atmosfera natalizia era perfetta, l’odore della cioccolata calda faceva venire la voglia di una buona lettura. Qualcuno si scambiava già dei regali, altri erano intenti nelle loro consuete abitudini. Un grande albero di Natale occupava l’angolo vicino il bancone e una serie di lucine bianche lo percorrevano per la sua lunghezza e terminavano con una ghirlanda che dava l’idea che provenisse direttamente dall’Irlanda. Andrea era già seduto al tavolo, era di spalle e non mi aveva vista entrare. Quando lo raggiunsi, ebbi l’impressione che l’avessi distolto da un pensiero triste, ma sul suo volto comparve un sorriso e subito mi disse:
– Sono felice che tu sia venuta. Io prendo un caffè, a te cosa posso offrire?
Dissi che anche per me un caffè andava bene. C’era un po’ di imbarazzo tra di noi e forse ero proprio io ad essere in difficoltà, ma notai con piacere che sul suo viso non c’era quello smarrimento e quel dolore che avevo visto quel giorno alla Galleria. Sembrava più sereno. Allora presi coraggio e gli dissi:
– Il caffè me lo hai ricambiato, ora manca il resto, ma francamente non riesco a capire perché tu debba dirmi grazie.
Il momento fatidico per Andrea era arrivato, ora doveva vuotare il sacco.
– Ho bisogno di dirti grazie per quel giorno alla Galleria. La tua mano su di me mi ha dato la forza di andare avanti, non mi sono sentito più così solo. Da quel momento ho capito che avrei potuto iniziare a vivere di nuovo.
Ero visibilmente disorientata e non riuscii a pensare ad una frase di senso compiuto, così decisi di tacere e lasciare parlare lui.
– Oggi sono esattamente tre anni che la mia compagna e nostra figlia sono morte. Mi stavano raggiungendo alla Galleria perché saremmo dovuti andare al cinema per vedere insieme un film della Disney. Sulle strisce pedonali un uomo ubriaco al volante le ha prese in pieno. Sono morte davanti i miei occhi. Da allora ho iniziato a non vivere più, il senso di colpa ha preso il sopravvento. Se fossi andato io da loro, forse sarebbero ancora vive.
– Capisco, deve essere stato molto difficile.
– Si, molto. È la prima volta che ne parlo ad alta voce con una persona e non solo con me stesso. E ne sono felice. Mi sento meglio.
– Perché proprio io?
– Non lo so. Da quando ti ho vista qui, da quel sogno e da quella tua mano su di me, che ho sentito di potermi fidare di te.
– E se ti sbagliassi?
– Se mi fossi sbagliato tu ora non saresti qui.
Finii il mio caffè e guardai fuori dal locale. Non sapevo cosa dire, ero senza parole. Cosa voleva quel ragazzo da me? Guardai verso il cinema e così gli chiesi:
– Ti va di andare al cinema?
– Ora?
– Sì, ora. Ma non so di che parla la storia.
– Sarà una bellissima storia.
Uscimmo dal Caffè ed andammo al cinema e vi ritornammo per molti anni per accompagnare i nostri figli a vedere i film della Disney.

 

Il racconto del lunedì: Caffè Kingston (prima parte)

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I Capitolo

La pioggia batteva forte contro il grande vetro oscurato. Mi permetteva di vedere fuori senza essere vista. Così seguivo i passanti da quando svoltavano l’angolo della strada fino a quando scomparivano alla vista. A volte entravano nelle pagine del mio taccuino con nomi russi impronunciabili e storie di spionaggio o amori clandestini. Comparve un uomo magro e alto, camminava lento sotto la pioggia con il bavero della giacca alzato, la falda larga del cappello gli riparava il viso dalla pioggia, aveva le mani in tasca e le spalle strette come a proteggersi da una qualche minaccia; due ragazze corrono sotto lo stesso ombrello e si infilano velocemente nel cinema, il film sta per iniziare e sono in ritardo. C’era un nuovo film: una di quelle storie ambientate tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, forse era tratto da qualche romanzo poco conosciuto. Non ne sapevo molto, non ho mai seguito con attenzione il cinema. Forse avrei dovuto iniziare ad interessarmene di più, non mi sarebbe dispiaciuto andare a vedere un film, magari da sola. Avevo finito il mio tè e stavo raccogliendo le mie cose per andarmene quando mi accorgo di lui.
Da qualche settimana aveva iniziato a frequentare il mio stesso locale e mi dava quasi fastidio quando, arrivato prima di me, occupava il mio solito posto. Stavo per alzarmi e andare via, ma lui mi anticipò. Non volevo incrociarlo all’uscita, quindi indugiai ancora un po’, ma lui, superando la porta, si venne a sedere al mio tavolo e con fare tranquillo, come se fossimo amici, come se si fosse da poco allontanato da me, mi disse:
– Oggi pomeriggio ti ho sognato. Eravamo qui per la presentazione di un libro. Era un po’ diverso il locale, ma era questo. Sei arrivata tu, con il tuo quaderno. Indossavi un cappottino verde, eri bellissima. Io ero solo, mi rivolgi una parola, un rimprovero, e ti allontani. C’era tanta gente che aspettava me, esco fuori dal locale. Avevo paura, avevo un dolore sul cuore. Tutti mi aspettavano, ma tu eri andata via.
– E poi? – dissi con una certa sorpresa, che tradiva curiosità e simpatia.
– Poi – rispose – sono rientrato. Il resto non esiste, mi sono svegliato.
– E perché volevi aspettare me?
A capo chino, senza guardami negli occhi:
– Perché nel sogno eri l’unica persona che volevo presente. Non mi interessava del resto.
Restammo in silenzio qualche minuto, poi chiamai il cameriere e ordinai due tè.
– Rimango ancora un po’- dissi – Se vuoi, puoi restare qui con me.

II Capitolo

Era una giornata come tante altre, non pioveva più come i giorni precedenti, ma il cielo era rimasto grigio. Anche il mio umore sembrava essere uguale a quella giornata un po’ piatta, indifferente a ciò che accadeva intorno. Era un lunedì e dopo il lavoro mi aspettava il mio solito tavolino, dovevo solo passare di casa per prendere il mio taccuino e andare al bar. Quella mattina mi sentivo abbastanza stralunata, avevo trascorso la notte a correggere un noiosissimo saggio di storia americana e mi ero addormentata sul divano. Poche ore di sonno ed ero già in piedi per andare al lavoro, ma in condizioni davvero pietose. Pensai che avevo anche il tempo di cambiarmi la camicia. Come al solito mi ero versata addosso il caffè da una tazzina abbandonata sulla scrivania, che avevo dimenticato di bere perché presa dal lavoro. Entrai nel bar, era quasi deserto. Il mio posto era libero, solitario come sempre, adatto alla scrittura. Il cameriere mi servì il solito tè, mentre ero già al lavoro. Un fiume di pensieri, di sentimenti mi affollavano, dovevo solo trascriverli per evitare di perderli.
– Cosa scrivi? Posso sapere?
Mi girai un po’ infastidita, mi aveva interrotto, e spesso mi capitava di perdere il pensiero di quel momento, di perdere il ricordo di un odore, non trovare più le parole giuste per descrivere un rumore.
– Niente di che… Da quando sei lì?
– Già da un po’.
– Non ti ho sentito arrivare.
– Ti ho salutata, ma eri così assorta che non mi hai sentito.
– Mi dispiace, non volevo…
– Tranquilla, scusami tu, ti sto disturbando, ma il tuo tè si è fatto ormai freddo. Posso offrirtene un altro?
– Grazie, non devi, berrò questo.
– Mi fa piacere.
Ordinò un altro tè e stavolta lo bevvi con calma, riflettendo su quello che avevo scritto e all’improvviso gli chiesi se lo voleva leggere. Lui accettò. Gli passai il taccuino aperto alla pagina che avevo appena terminato di scrivere.
Quando chiuse il quaderno gli chiesi cosa ne pensasse:
– Quello che hai scritto è meraviglioso.
Notai in lui una sorta di imbarazzo nel pronunciare quelle parole, se avesse potuto scrivere sarebbe stato più facile parlare per lui.
Accennai un mezzo sorriso e, continuando a bere, voltai lo sguardo verso la strada. Avevo scritto il suo sogno, che in parte era anche il mio.
– Io ora devo andare via – mi disse – se in questi giorni ti capita di passare per via Gramsci vieni alla galleria d’arte, io lavorò lì.
– Grazie, magari qualche volta passo.
Lui se ne andò, io rimasi ancora un po’ a pensare e a seguirlo con lo sguardo, mentre procedeva sul marciapiede accendendosi una sigaretta. Avevo abbandonato ormai i miei pensieri, si erano esauriti con l’ultima frase che avevo scritto. La mia attenzione era catturata da quel ragazzo dagli occhi chiari che tradivano una certa inquietudine. Sembrava avesse un peso sulle spalle, qualcosa che non lo facesse sentire leggero. Era sempre solo, un po’ come me. Ci eravamo incrociati diverse volte nel locale, il giorno prima mi aveva parlato del suo sogno, mi aveva sorriso, ma mai ci eravamo presentati. Gli avevo fatto leggere cose che tenevo riservate. Perché? In realtà quella persona mi ispirava fiducia, il suo sguardo su di me mi faceva sentire al sicuro.

III Capitolo

Erano le undici e trenta circa, la riunione era finita presto e non avevo voglia di tornare in ufficio, decisi di raggiungere via Gramsci. Era una giornata tranquilla, per strada non c’era quasi nessuno. Una signora anziana percorreva il marciapiedi nel senso contrario al mio, trascinando il carrellino pieno fino all’orlo, tornava forse da qualche mercatino rionale. Un uomo sulla quarantina a passo svelto mi sorpassa, era al telefono, indossava un vestito classico, un soprabito blu e uno zaino sportivo, un accostamento strano ma che lo rendeva simpatico alla vista. “Prendo il treno tra un’ora, penso di essere lì entro le quattordici così pranziamo insieme…” era lontano ormai e non riuscii più a sentire le sue parole. Con chi parlava? La moglie, la fidanzata, un collega…e dove andava? Lo avrei seguito per sbirciare la sua esistenza e in un certo senso lo avrei fatto, inserendolo in una mia storia. Gli avrei dato una destinazione, una identità precisa, un lavoro rispettabile, insomma gli avrei costruito una nuova vita. Sarebbe stata la scrittura a suggerirmela; le parole, le vicende i caratteri, tutti veniva fuori spontaneamente mentre scrivevo. Era un mistero la scrittura, una esigenza fisica che a volte mi riempiva il cuore di inquietudine e solo dopo l’ultimo punto ritornava la pace. Non c’era più nessuno per strada, tranne un uomo sulla soglia del suo negozio di stoffe. La vetrina conservava ancora lo stesso aspetto del primo giorno di apertura. Un rivestimento in legno scuro tratteneva grandi vetrine che mostravano stoffe per abiti da sera appena accennati su neri manichini di donna, intere bobine di stoffe erano poste una sull’altra a mostrare tutte le sfumature di uno stesso colore. La grande insegna, come quella dei negozi della prima metà del novecento, portava la scritta in quella che chiamavano “bella grafia” Stoffe e Tendaggi dal 1936 – Fratelli Amoruso. Sembrava essere un mondo a parte, molto differente dagli altri negozi che stavano sulla stessa strada, grandi catene commerciali, un bar, un negozio di articoli per la casa intervallati da grandi portoni bui sui quali si ergevano enormi palazzi dalle facciate quasi tutte uguali. Era la prima volta che facevo caso a quei palazzi, non mi ero mai soffermata a guardarli, anzi non li avevo mai conosciuti. Ne rimasi sorpresa, era come se avessi scoperto una nuova città, piena di nuove storie.
Quasi al termine della strada c’era la Galleria d’Arte contemporanea. Era in esposizione la personale di un artista inglese. Il banner pubblicitario non mi diceva niente. Nel bar accanto ordinai un caffè da portare e entrai nell’atrio. Una volta all’interno, mi resi conto che non conoscevo nemmeno il nome di quel ragazzo. Sperai lavorasse alla biglietteria, ma lì trovai una ragazza dallo sguardo abbastanza annoiato. Mi avvicinai con la massima discrezione, quasi a dirle “mi dispiace disturbare”:
– Buongiorno, avrei bisogno di una informazione.
– Il biglietto per la mostra costa 9 euro. Se vuole visitare anche l’esposizione permanente il costo è di 13 euro. Se rientra in queste categorie può godere delle riduzioni.
E mi indicò con il dito un elenco scritto su un pannello.
– Mi perdoni, ma non sono qui per la mostra. Sto cercando un ragazzo che lavora qui.
– Come si chiama?
– A dire il vero non lo so, ma avrei bisogno di incontrarlo.
– Avete un appuntamento?
Avevo notato una certa diffidenza nel suo tono, quindi decisi di mentirle.
– No, non abbiamo un appuntamento. Ma avrei bisogno di parlargli. Io lavoro per una casa editrice e ci siamo conosciuti durante l’ultima presentazione che abbiamo organizzato. Avrei bisogno di fargli una proposta di collaborazione.
Non sapevo di che cosa si occupasse al lavoro e sperai di non essermi bruciata la bugia. Se fosse stato un semplice custode, la mia proposta di collaborazione non avrebbe retto.
– Ah si, lei parla di Andrea Montichiari, è lui che si occupa della gestione degli eventi.
– Oggi è a lavoro? È possibile incontrarlo?
– Si, è venuto, ma da quando è arrivato non l’ho più visto. Ora chiamo nel suo ufficio e l’avviso che è qui. Chi lo cerca?
Ebbi un momento di indecisione. Effettivamente nemmeno lui conosceva il mio nome. Era ormai il caso di presentarsi.
– Gli dica Sandra Zevin, responsabile editoriale di Il Cormorano Edizioni.
Digitò un numero sul telefono, ma dall’altra parte della cornetta non rispose nessuno.
– Guardi in ufficio non c’è. Ma in fondo all’atrio trova l’ascensore. Salga al terzo piano, la prima stanza a sinistra è il suo ufficio. Non può sbagliarsi, c’è solo lui in quel piano.
La ringraziai e mi diressi all’ascensore. Mentre aspettavo che scendesse, pensavo a cosa gli avrei detto. L’ascensore si aprì, vi entrai e dopo poco mi ritrovai al terzo piano.
C’era silenzio, la porta di quello che doveva essere il suo ufficio era aperta. Mi avvicinai, mi affacciai e diedi il buongiorno con tono pacato, ma dentro non c’era nessuno.
Entrai di qualche passo, poggiai il caffè sulla prima scrivania piena di faldoni e pubblicazioni d’arte e uscii dalla stanza. Il pc era acceso, una cartellina aperta sulla scrivania. “Si sarà allontanato – pensai – mi conviene aspettare un po’”. Iniziai a camminare per il corridoio. Di seguito all’ufficio c’era un’altra porta chiusa, forse un altro ufficio, e poi le scale di emergenza. Di fronte, invece, vi erano tre porte identiche, a vetri poste alla stessa distanza ognuna dall’altra, coperte all’interno da pesanti tende di tessuto rosso. Una delle porte, l’ultima, era aperta. Mi avvicinai per dare un’occhiata e vidi delle sedie rosse disposte in fila. Doveva essere una sala conferenze. Superai la soglia per vederla tutta. In fondo c’era un grande tavolo, delle bandiere e fu allora che lo vidi. Era seduto a metà sala, su una sedia interna, vicino al muro. Era piegato su se stesso, i gomiti sulle gambe e le mani nei capelli ricci. Mi resi conto che qualcosa non andava. Pensai di andare via, in fin dei conti non si era accorto della mia presenza. Sarei passata di nuovo nel suo ufficio, avrei lasciato un biglietto e ci saremmo visti al nostro bar. Ma le spalle abbandonate come in una resa incondizionata, le mani sulla testa come a voler reprimere i ricordi mi attirarono come una calamita. “Non hai alcun diritto di intrufolarti nella sua vita” – dissi tra me e me – ma già ero avanzata di parecchie file di sedie nella stanza, entrai in quella davanti a lui e mi sedetti. Fu solo allora che si accorse di me. Guardandomi mi resi conto che era sorpreso e spaventato. Aveva gli occhi sconvolti.
– Ciao, tutto bene?
– No, non va bene.
– Ci sono io qui.
E scoppiò in un pianto dirotto. Non avevo mai visto un uomo piangere in quel modo. Mi commosse a tal punto che ebbi voglia di abbracciarlo, ma gli accarezzai solo la testa e lui, a testa bassa, trattenne con le dita la mia mano su di lui.
Dopo un po’ riuscì a calmarsi. Cercò di controllarsi e darsi una sorta di contegno.
– Scusami, io non immaginavo…
Lo interruppi dicendo.
– Passavo di qui e ho pensato di portarti un caffè, è nel tuo ufficio, ma ora sarà freddo.
– Grazie, andrà bene lo stesso.
– Stasera vado al Caffè Kingston. Alle 17 sono lì. Se passi ci prendiamo qualcosa insieme.
– Non so se stasera sono in grado di uscire.
– Io sarò lì, se ti va.
– Ok…
Mi alzai e mi diressi verso l’uscita.
– Allora ci vediamo oggi pomeriggio, se ti va. Comunque io mi chiamo Sandra.

…continua QUI.

Il racconto del lunedì: Azzurra ed io

Sogni premonitori (2)

Quello era il terzo caffè che gli preparava in un’ora. Quando ritirò la seconda tazzina si accorse che non aveva bevuto nemmeno il secondo e non potè non fermarsi ad osservare con più attenzione quell’uomo. Aveva all’incirca una cinquantina di anni, i capelli erano brizzolati, i lineamenti del viso dicevano che da giovane sicuramente era stato un gran bel ragazzo, d’altronde era un bell’uomo anche ora. Gli occhi azzurri e dolci erano tristi e a guardarlo bene tutto in lui sembrava suggerire una grande solitudine. Da quando era arrivato, trascorreva le ore della mattina sprofondato su uno dei divani del bar dell’albergo, aveva un taccuino dalla copertina rossa un po’ logoro e gonfio. Il suo modo di scrivere fitto e minuscolo gonfiava le pagine del taccuino, che riempiva con altri fogli di carta sempre scritti con lo stesso tratto. Alla reception Robert le aveva detto che si trattava di uno scrittore famoso e che non bisognava infastidirlo, ma lei non lo aveva mai visto. Cosa facesse nel pomeriggio nessuno lo sapeva. Ormai era lì da una settimana e sarebbe rimasto fino alla fine del mese e probabilmente avrebbe prolungato il suo soggiorno. Ottobre era un mese tranquillo, pochi erano i villeggianti, l’albergo era quasi del tutto vuoto e l’aspetto del parco iniziava ad assumente i colori, gli odori e i rumori giusti per chi cercava un posto tranquillo per concentrarsi sul proprio lavoro. Forse “lo scrittore”, così iniziarono a chiamarlo i dipendenti dell’albergo, stava scrivendo un nuovo libro, ma perché non usare un pc? Il fatto che scrivesse a mano lo rendeva, agli occhi di Cristina, ancora più affascinante. Cristina era, insieme a Rachele, una delle ragazze che si occupavano del bar e si era presa una cotta per lo scrittore a tal punto che si incantava a guardarlo mentre lui era chino a scrivere sul suo taccuino, dimenticando di servire le ordinazioni agli altri pochi clienti del bar.
– Rachele, sveglia!!!! I caffè si sono raffreddati e i clienti stanno aspettando da tanto.
– Si, scusa. Ero distratta. Ora li rifaccio.
Cristina era talmente affascinata da quell’uomo che riusciva a trovare mille scuse per gironzolargli attorno. Ma ad ogni sua richiesta riceveva un garbato rifiuto. Appena Cristina si allontanava, lo scrittore, che poi scoprii essere l’autore di un romanzo pluripremiato, mi chiamava con un cenno della mano e mi ordinava il solito caffè. Quel giorno Cristina non venne a lavoro, aveva il suo giorno di pausa e al bar Rachele era sola. Più i giorni di ottobre avanzavano, più l’albergo si svuotava, e sembrava che lo scrittore fosse destinato a rimanere l’ultimo cliente dell’anno. Quella mattina si sedette al bancone del bar e non nel solito divano e la cosa sembrò strana a Rachele, ma non lo diede a vedere.
– Buongiorno, Signore. Le preparo il solito caffè?
– Si grazie. Rachele, può darmi anche un bicchiere d’acqua?
– certo, ma come conosce il mio nome?
– il suo nome è semplicemente ricamato sulla sua divisa.
Rachele si sentì stupida, ma quella divisa la indossava da così tanto tempo che ne aveva dimenticato i particolari. Voleva dirgli qualcosa di intelligente per giustificarsi, ma preferì il silenzio. Preparò il caffè e quando glielo porse, si accorse che era intento a scrivere. Era così preso dalla scrittura che fece raffreddare anche quel caffè. Rachele aveva smesso di segnargli i caffè sul conto. Stavano diventando così tanti i caffè non consumati che alla fine del soggiorno gli sarebbero costati più del soggiorno stesso. Gliene preparò un altro senza nemmeno che lui glielo chiedesse e quando si girò si accorse che lui la osservava attentamente e aveva accennato un sorriso malinconico.
– Mi sono permessa di preparargliene uno fresco, quello di prima si è fatto freddo.
– Grazie, è veramente molto gentile.
Lui rimase a guardarla per un attimo e a quel punto lei azzardò una domanda.
– Se non sono indiscreta, posso chiederle perché si fa preparare i caffè ma poi non li consuma?
– Le sembrerà strano, ma ho bisogno di vederla preparare quei caffè.
Rachele fece una strana espressione del viso, era di certo una strana affermazione e continuò a parlargli.
– Le serve per il suo romanzo? Cioè, per quello che sta scrivendo?
E indicò il taccuino che era rimasto aperto sul bancone con la penna quasi finita posta giusto al centro.
– In un certo senso sì, ma serve più a me che alla mia scrittura.
Rachele non riuscì a nascondere il suo turbamento e l’uomo se ne accorse. In fin dei conti lei era una ragazzina e una affermazione del genere detta da un uomo adulto poteva far intendere qualsiasi cosa.
– Non pensi male di me, non sono un pervertito. È solo che lei mi ricorda tanto la protagonista del mio primo romanzo. Il modo di muovere le mani, di pettinarsi e il sorriso, mi ricordano tanto lei.
Rachele rimase senza parole, non voleva che lui pensasse di aver dubitato della sua correttezza e allora gli rivolse un sorriso.
– Spero che sia almeno un buon ricordo e niente di spiacevole.
– I ricordi fanno parte del passato e per questo non esistono più. Quindi non posso fare del male.
– Non sono sicura che sia vero. Se il passato non esistesse, ora io non le avrei ricordato nulla.
L’uomo rimase un attimo in silenzio a guardarla, ma i suoi occhi sembravano ricordare, piuttosto che guardare.
– Di cosa parla il suo primo romanzo?
– Di una donna più o meno della sua età, che si innamora di un giovane studente universitario, ma la differenza di estrazione sociale creerà grossi problemi al giovane, che invece appartiene ad una facoltosa famiglia di imprenditori. Quando i due vengono scoperti, la famiglia di lui lo allontana dalla città, affidandogli la direzione di una azienda con sede a Ginevra. I due continuano a stare insieme, a scriversi, ma a vedersi sempre di meno. Gli impegni di lavoro e il nuovo ambiente aristocratico allontanano il giovane dalla ragazza. Quest’ultima quando capisce che lo sta perdendo, parte per Ginevra per parlargli, ma una volta arrivato da lui, riceverà solo una porta in faccia e come risposta un “è tutto finito”. Qualche mese dopo, tutti i giornali parlavano del suicidio insospettabile di una giovane di ventitrè anni.
– E il ragazzo?
La domanda fu pronunciata da Rachele a mezza voce. Il racconto dell’uomo tradiva una sofferenza che mai aveva visto e che l’aveva commossa profondamente.
– Quando seppe della notizia, se ne stupì ma era talmente stupido da non capire cosa avesse perso. Solo con il passare del tempo si rese conto di aver perso l’unica cosa belle che la vita gli avesse dato.
– Comprerò il suo romanzo, deve essere una storia bellissima. Mi piacciono le storie tristi, perché mi preparano ad affrontare le difficoltà e i dolori del futuro.
– È solo un romanzo, niente di più.
Dopo queste parole, lo scrittore bevve per la prima volta il suo caffè.
Il giorno dopo Cristina informò Rachele che lo scrittore aveva pagato il conto ed era andato via.
Fu una delusione un po’ per tutti in albergo, lo scrittore era quasi diventato un mito, alimentando la curiosità di dipendenti e di quei rari visitatori che di passaggio pernottavano in albergo. L’unica persona che sorrise alla notizia fu proprio Rachele. Quella mattina, come ogni mattina, era arrivata prima di Cristina e dietro il bancone del bar aveva trovato un pacchettino con scritto il suo nome sopra. Lo aprì e dentro vi trovò un libro, il primo romanzo dello scrittore. C’era una dedica “A Rachele, che ha reso un ricordo del passato una opportunità di salvezza”. Rachele non capiva quella dedica, ma tutto divenne chiaro quando trovò all’interno del romanzo una vecchia foto. Ritraeva due giovani in quello che doveva essere un parco, erano abbracciati e sembravano felici. Dietro c’era scritto “Azzurra ed io. Roma, giugno 1983”.

Un istante inatteso

Sogni premonitori

Le giornate trascorrevano sempre uguali per Emma. Corsa mattutina, lavoro, casa, qualche buona lettura e di tanto in tanto una birra con gli amici. Quel giorno invece fu diverso, arrivò qualcosa che turbò il suo animo. Tornando da lavoro, vide che la cassetta della posta era stracolma. “Sarà la solita pubblicità e le bollette da pagare!”, disse tra sè. Prese tutta la posta, controllò che non fosse rimasto niente nella cassetta e entrò in casa. Poggiò tutto sul mobiletto all’ingresso e si diresse in cucina per preparare la cena. Dopo cena ammucchiò i pochi piatti nel lavandino, li avrebbe lavati più tardi, magari l’indomani. Accese la tv, ma non c’era niente che le piacesse, allora decise di andare a letto e terminare, prima di addormentarsi, quel romanzo che da tanto aveva sul comodino e che ormai era stanca di vedere. Chiuse a chiave la porta di casa e lo sguardo le cadde sulla posta del giorno. La prese per vedere se ci fossero delle bollette da pagare, ma solo quando la sfogliò si accorse di una busta gialla, molto leggera. Non c’era mittente, ma riconobbe la calligrafia con cui era stato scritto il suo indirizzo. Un misto di emozioni, curiosità, ansia, felicità e paura si mischiarono insieme mentre apriva quella busta, stando attenta a non rovinarla. Dentro c’era solo una fotografia, nessuna lettera, solo una parole scritta sul retro della fotografia: abbandònati.

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Foto di Paolo Bolzan (proprietà riservata)

Emma, in preda a mille sentimenti, era rimasta a guardare quella fotografia per parecchio tempo. Poi si diresse alla scrivania e prese a scrivere tutto quello che le immagini le dicevano, come era solita fare ogni volta che Davide le mostrava i suoi lavori.

È come una droga più mi fa male e più ritorno a guardarla quella immagine…
È stato un istante inatteso, improvviso e mi ha colpito allo stomaco senza preavviso; non avevo alcuna difesa. Sei stato sleale. Lo sai che nei miei occhi c’è la malinconia. Perché hai scelto quell’angolo deserto? Che cosa ti ha voluto dire? Cosa volevi dire? Quel luogo è come me, una porta chiusa, trascurata, inaccessibile, che tuttavia continua a stare lì, in piedi, con la sua dignità, con la consapevolezza che è solo il tempo a dover passare. Mi sento disarmata di fronte a quella immagine, mi sento dinanzi alla mia stessa esistenza. Se tu fossi qui, ora, piangerei in silenzio tra le tue braccia. Mi farei abbracciare, mi abbandonerei alla tua stretta. Ho bisogno di un tuo abbraccio, di sentire il battito del tuo cuore, l’odore della tua pelle, il calore del tuo respiro.
Solo così quella immagine di abbandono si trasforma in quella invocazione: abbandònati!
Sì, mi perderei in te se solo tu lo volessi.

Non rilesse ciò che aveva scritto e lasciò che la scrittura incerta tradisse la sua emozione. Piegò il foglio, lo chiuse in una busta e scrisse l’indirizzo. Il mattino seguente Emma spedì la busta e rimase in attesa di una risposta per giorni, ma se conosceva bene Davide, quella risposta non sarebbe mai arrivata. Era trascorso un mese circa, quando Emma aprì la porta di casa pensando che fosse il fattorino delle pizze.
Alla porta c’era Davide con in mano la lettera di Emma e una valigia.
– Quanto tempo posso stare da te?
– Anche tutta la vita, se vuoi.