Era stata una notte come tante altre, l’ennesimo barcone era arrivato a ridosso delle coste siciliane. La Guardia Costiera era riuscita a mettere in salvo tutti quei volti disperati, che su un barcone scolorito avevano riposto la loro personale idea di futuro. Con i guanti bianchi di lattice e le mascherine verdi gli operatori sanitari avevano fatto una prima ispezione medica e, tranne una donna incinta al settimo mese che per precauzione era stata portata in ospedale, tutti sembravano in piena salute.
Tra questi c’erano molti bambini che, per la prima volta, erano giunti a destinazione tutti in vita. I bambini sono sempre speciali, nonostante le estreme difficoltà del viaggio riescono ad adattarsi ad ogni ambiente. Appena giunti nel campo di accoglienza i loro sguardi non sembrano dire qualcosa di diverso da quello degli adulti: dove siamo? Chi siete? Cosa ne sarà di noi? Ma basta una piccola attenzione a stemperare la tensione nei loro occhi e a far ripartire il loro desiderio di spensieratezza. Molti di loro partono con i loro familiari, ma quella notte tra gli ottocento disperati ce n’era uno, solo, senza nessuno che gli stringesse la mano.
Si chiamava Fadi. Il mediatore e lo psicologo che si occuparono di lui capirono che era quello il suo nome, tra l’altro era l’unica parola che erano riusciti a fargli dire. Non aveva documenti, nessuno sapeva dire nulla di lui, solo una donna raccontò che il bambino, che aveva all’incirca otto anni, era siriano e al momento dell’imbarco era stato portato da un uomo molto anziano, forse un parente. Nei mesi a seguire il bambino, in attesa che la questura decidesse la sua destinazione, trascorreva le giornate solo, lontano dagli altri bambini ed evitava gli adulti che parlavano la sua lingua. Solo quando riusciva a impossessarsi di un pallone da calcio, faceva qualche tiro contro il muro che recintava il centro di accoglienza. Quando pioveva il pallone lasciava la sua sagoma impressa sul muro e in quel momento Fadi si sedeva a terra e rimaneva per ore a osservare quelle macchie sul muro. Era allora che il bambino sembrava vulnerabile, così uno dei volontari del centro gli si avvicinò e, sedendosi accanto a lui, aspettò in silenzio che Fadi parlasse. Dopo un po’ avvenne il miracolo, perché Fadi, seppur in un inglese stentato, iniziò a parlargli di quelle macchie. Ad ognuna assegnava un nome e aggiungeva una piccola descrizione.
Così parlò del nonno che lo aveva lasciato su quella barca e se ne era andato via senza una spiegazione, dei suoi amici e dei suoi cugini, della maestra che, al suono della sirena che annunciava un nuovo bombardamento, scappò via dalla classe e non se ne seppe più nulla. Infine, indicandone una più grande come la più bella, disse che quella rappresentava la sua mamma. Di lei ricordava il bacio della buonanotte, il suo odore di fiori che gli era rimasto addosso la notte in cui lo aveva stretto a sé, proteggendolo dalle schegge delle bombe. Si sentiva colpevole, era il motivo della morte della madre e se lui non ci fosse stato, lei sarebbe ancora viva. Con gli occhi pieni di lacrime, ma con la voce ferma, Fadi chiese di poter ritornare a casa, ad Aleppo, era lì il suo futuro e il suo destino e non in un paese che non avrebbe mai compreso in pieno il dramma di un popolo barbaramente massacrato.
