È ancora nitido il ricordo dell’ultima notte trascorsa nel letto di casa. L’indomani la partenza. Il tepore del camino, il profumo del pane appena sfornato, le raccomandazioni di mia madre, la paura della morte accompagnano questa notte insonne. La patria chiama e l’uomo risponde. Una pedina mossa su una scacchiera per grandi giocatori. La patria chiama e il soldato risponde.
L’alba è ormai vicina, prendo lo zaino, un amore alle spalle, un ultimo abbraccio, destinazione Gorizia. È gennaio, l’aria è gelida, le mani sono livide, ma la patria ha bisogno di soldati, giovani vite nelle trincee, che cercano di sopravvivere falciando altre vite.
La guerra si fa serrata, il mio compagno muore, l’altro è ferito. A me la stessa sorte è destinata. Mentre lo sguardo di uno è fisso al cielo e le grida dell’altro si fanno più forti degli del rumore della guerra, sento il fuoco che mi brucia la gamba. La guardo, è ferita, sanguina. Torno a casa. Una licenza di un mese per trovare riposo lontano dalla morte. Di nascosto mi faccio medicare, ma una bambina scopre il mio segreto, che resta il nostro segreto. La patria chiama e il soldato risponde.
Riparto per l’Italia, per la bambina perché possa vedere il domani. Destinazione Plava, Gorizia. In prima linea, nella trincea guardo i colpi cadere dal cielo, mi squarciano il corpo. Ora il mio nome è su una lapide, “fante d’Italia che né fiumi né monti fiaccarono l’animo”.